NEW YORK Un ebreo appassionato di Islam. Steven Joel Sotloff aveva trascorso molti anni della sua vita in Medio Oriente, convinto che il segreto per risolvere la grande frattura con il mondo arabo fosse di farlo conoscere.
Anna Guaita
Aveva infatti seguito con passione la Primavera Araba e speso molto tempo in Libia. I suoi pezzi sull’attentato di Bengasi, che nel settembre del 2011 costò la vita al console amricano e altri funzionari Usa, sono stati letti da tutti sulle pagine di Time. Ma Sotloff in Libia ci è poi tornato, per raccontare anche la «crisi del dopo Gheddafi». Era così: un giornalista che non si scoraggiava quando la storia non era più rovente e sulle prime pagine. I suoi colleghi lo ricordano per il carattere amabile, gli amici per la sua totale assenza di presunzione. A chi gli chiedeva che mestiere facesse, non diceva «giornalista di guerra», ma «viaggiatore».
LA CARRIERA
Sotloff aveva solo 31 anni. Aveva studiato giornalismo all’University of Central Florida, e aveva lavorato per tante testate, oltre a Time: aveva collaborato al Christian Science Monitor, un giornale che oggi esiste solo in forma digitale ma che per decenni è stato considerato uno dei migliori quanto a copertura di politica estera. Era stato collaboratore delle riviste Foreign Policy e World Affairs per le quali aveva scritto dell’involuzione della Primavera Araba in Egitto. Era anche comparso sia alla Cnn che alla Fox News. Sotloff era sgusciato in Siria dal confine con la Turchia, ma era stato catturato quasi subito.
Era detenuto dall’agosto del 2013. Un sito americano sostiene che a tradirlo era stato un collega fotografo canadese, che per inesperienza aveva fatto su Facebook il nome della loro guida. Il canadese ha controbattuto spiegando che non era vero e che lui stesso aveva saputo il nome della guida solo la sera prima di entrare in Siria. Nei giorni scorsi, la madre di Sotloff, Shirley, una donna profondamente religiosa e attiva nella comunità ebraica, aveva mandato un messaggio video al leader di Isis, Abu Bakr al-Bagdadi, supplicandolo di lasciare libero il figlio, che «non aveva nulla a che fare con la politica americana» e che «era in Siria perché voleva raccontare le sofferenze delle popolazioni della regione sottomesse al giogo di dittatori».
L’APPELLO DELLA MADRE
La signora e gli altri familiari avevano chiesto a Obama di «fare di tutto per salvare» il giornalista. Ed effettivamente, lo scorso luglio Obama aveva dato il via libera a una missione delle Navy Seals, ma la squadra speciale era arrivata alla tana dei terroristi quando gli ostaggi erano appena stati spostati in un luogo diverso.
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