Controversie dottrinali – L’ebraismo riformato in italia
Donne che leggono la Torah, aperture verso i gay, regole meno rigide. Come nel resto del mondo, sta prendendo piede una corrente di ebrei «progressivi».
Valeria Gandus – Panorama
La sposa, naturalmente, era bellissima. Lo sposo raggiante. I parenti commossi, la cornice da favola. E la cerimonia? Decisamente insolita: il rabbino veniva da Londra, i canti erano in ebraico, il rito celebrato in inglese con traduzione in italiano. Quanto alla Ketubbà (il contratto di nozze), per l’occasione decorata da Emanuele Luzzati, era scritta sia nella lingua dei padri sia in «vernacolo», cioè in italiano. E, novità, firmata anche dalla sposa.
Aldo Luperini e Rossana Ottolenghi erano felici come tutti gli sposi. E particolarmente orgogliosi: celebrato il 13 aprile sotto la tradizionale Kuppà (il baldacchino nuziale) posta fra le mura del castello di Macconago (Milano), il loro è stato infatti il primo matrimonio ebraico italiano «riformato». Una grande rivoluzione per l’esigua comunità ebraica italiana (30 mila iscritti) e una tappa fondamentale per Lev Chadash (cuore nuovo), l’associazione che rappresenta la corrente dell’ebraismo «progressivo».
Piccola ma molto combattiva, la prima comunità riformata italiana, nata circa due anni fa su iniziativa dello stesso Luperini e dell’attuale presidente Bruno Di Porto, docente di storia contemporanea a Pisa, conta un paio di centinaia di iscritti solo a Milano e un’ampia rete di simpatizzanti. La congregazione è riconosciuta dalla Wupj (World union progressiv judaism) che raccoglie in tutto il mondo circa un milione e mezzo di ebrei riformati (su circa 12 milioni) e che negli Stati Uniti è maggioritaria.
Il crescente interesse che la nuova corrente sta incontrando nella comunità italiana è fonte di preoccupazione per il rabbinato ortodosso. D’altra parte, proprio a causa del progressivo irrigidimento dell’ortodossia ebraica, anche in ltalia s’è creato uno spazio, un tempo nemmeno immaginabile, per la costituzione di una corrente «reform».
La nascita stessa di Lev Chadash è avvenuta per reazione ai vincoli sempre più stretti posti dal rabbinato ortodosso alla definizione di «chi è ebreo». Alla risposta tradizionale («chi è nato da madre ebrea »), fino a una decina di anni fa le deroghe erano molte: non era difficile, per esempio, ottenere la conversione alla nascita (madre consenziente) per i figli di solo padre ebreo. Poi la svolta: su indicazione del rabbinato israeliano, le conversioni sono state rese quasi impossibili, causando grandi problemi e forti risentimenti. Ci sono famiglie in cui il primogenito (convertito in regime di liberalità) ha potuto frequentare la scuola ebraica e quello minore no perché la conversione è stata rifiutata o resa troppo difficoltosa (oggi è norma chiedere, prima di quella del figlio, la conversione della madre, che può avvenire solo al termine di un lungo corso). Tutto ciò con le eccezioni del caso: padri ebrei dai cognomi famosi cui non sono stati posti ostacoli a fronte di altri padri, con cognomi ebraicissimi ma non importanti, cui è stato impedito di rinnovare, attraverso i figli, il patto con il Dio di Abramo. Parallelamente, un forte irrigidimento nella richiesta di osservanza delle mitzvot (le regole) che contraddistinguono la religione ebraica ha portato scontento in molte comunità (vedere il riquadro a fianco).
In questa situazione, è comprensibile come molti membri della comunità italiana, generalmente poco praticanti, ma orgogliosi delle proprie radici e decisi a conservare un’identità storica e culturale, si sentano a disagio e guardino con simpatia e interesse alla nuova congregazione ebraica riformata. «Stiamo recuperando molti ebrei che, per gli ortodossi, non avrebbero le carte in regola per definirsi tali e altri che si erano allontanati per la deriva integralista di certe comunità » dice Bruno Di Porto, ministro laico di Lev Chadash e padre «rivoluzionario» di due figli schierati invece con l’ortodossia.
Persone come Dino Leon, giuslavorista milanese figlio di padre ebreo deportato, che solo da Lev Chadash ha visto riconosciuta la propria ebraicità. 0 come il semiologo Ugo Volli, che ha potuto assecondare il desiderio del figlio di crescere nella fede ebraica anche se nato da madre non ebrea. Guarda con interesse a questa nuova corrente anche il sondaggista Renato Mannheimer: «Resto iscritto alla comunità ortodossa, che fortunatamente non ha posto problemi per la conversione dei miei figli, ma, da laico quale sono, trovo culturalmente stimolante il dibattito innescato dalla nascita di Lev Chadash e molto interessanti le loro argomentazioni».
Intorno alla nascita di Lev Chadash, infatti, non c’è solamente la questione «chi è ebreo» ma anche il come si può essere ebrei. I punti di rinnovamento della dottrina sono molti e sostanziali. Vanno dall’interpretazione e critica dei sacri testi al ruolo della donna, dal rapporto con Israele alla questione dell’omosessualità, alla kasherut (le regole alimentari), sempre con un’ottica molto aperta,
«Fra noi abbiamo non credenti e religiosi: ciò che li unisce è l’ebraicità, che si può manifestare in modi diversi» dice Aldo Luperini. «La linea di principio è che chi vuole rispetta le regole ma nessuno è obbligato a farlo». Poi può succedere che alla funzione del sabato anche ebrei dichiaratamente atei (è il caso di Leon) cantino nel coro e recitino le preghiere: «All’inizio, molti non partecipavano alle funzioni» ricorda Luperini. «Oggi quasi tutti lo fanno perché vivono nel rito la trasmissione della tradizione e dell’appartenenza»
Già a prima vista, però, si notano vistose differenze con le funzioni tradizionali: le donne non sono separate dagli uomini e confinate nel matroneo (regola invece sempre più rigida al Tempio centrale di Milano, dove da tempo le donne non possono nemmeno più unirsi agli uomini di famiglia per ricevere la benedizione a Kippur). Molte di loro, poi, indossano la kippà (lo zucchetto) e il talled (lo scialle rituale) normalmente riservati agli uomini. Anche i testi delle preghiere sono stati modificati: agli antenati Abramo, Isacco e Giacobbe vengono affiancate le antenate Sara, Rebecca, Rachele e Lea. La tradizionale invocazione di pace per «tutto Israele» viene allargata a «tutta l’umanità». Dalla preghiera del mattino è stato eliminato il ringraziamento a Dio «per non avermi fatto nascere donna».
Non sono però queste modifiche a irritare il rabbinato ortodosso e a preoccupare Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, cui i riformati hanno chiesto di essere associati. «Ciò che conta non è la dichiarazione d’intenti, cioè recuperare all’ebraismo coloro che se ne sono allontanati, ma gli atti concreti» spiega Luzzatto. E l’atto per eccellenza è la conversione: «Nessun rabbino ortodosso considererà mai ebreo il figlio di una donna non ebrea, né lo unirà in matrimonio con un ebreo “autentico”. E se una parte non riconosce l’altra, è lo scisma».
In realtà, come ammette lo stesso Luzzatto, «è molto più facile che un rabbino ortodosso rimproveri un ebreo di lavorare il sabato piuttosto che metta in dubbio la sua ebraicità». Nel resto del mondo gli ebrei riformati convivono con gli ortodossi, Perché mai lo scisma dovrebbe avvenire proprio in Italia? Soprattutto se, come ribadisce Di Porto, «noi non vogliamo dividere ma unire»
Ma gli ortodossi: «Niente novità»
Il rabbino capo di Roma difende l’osservanza delle regole tradizionali
«È uno scontro tra due modelli di ebraismo. Quello riformato punta sull’identità storico-culturale, l’ortodosso su quella religiosa. Si rischia una pericolosa spaccatura»: è preoccupato il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, ma anche convinto della linea neorigorista italiana. Intrapresa «dopo un richiamo ufficiale dei rabbinati israeliani».
Ufficialmente i circa 30 mila ebrei italiani sono ortodossi, cioè tenuti all’osservanza dei precetti, dal riposo dei sabato al cibo kasher. E se storicamente il rabbinato è sempre stato tollerante, chiudendo un occhio sul tipico ebreo del Kippur (quello che va in sinagoga solo nel giorno dei l’espiazione), proprio il nuovo corso ortodosso ha contribuito alla nascita di gruppi riformati.
Una vigorosa sterzata, protagonisti, insieme a Di Segni, anche i colleghi Alberto Somekh e Giuseppe Laras, a capo rispettivamente delle comunità torinese e milanese: fu quest’ultimo, qualche anno fa, a vietare clamorosamente la frequentazione della scuola ebraica ai figli di madre non ebrea. Il nuovo corso è testimoniato anche dalle regole per Pesah (la Pasqua ebraica) pubblicate sull’organo ufficiale Shalom: per garantire la totale assenza di briciole in casa (i cibi lievitati sono vietati negli otto giorni della Pasqua) i rabbini consigliano addirittura di «immergere in acqua bollente e prodotto acido il seggiolone dei bambini».
Il tema più scottante resta però quello delle conversioni dei bambini nati da madre non ebrea. Ora le famiglie devono accettare un patto educativo: frequentazione della sinagoga, iscrizione alla scuola ebraica, ma anche il tutoraggio di una famiglia osservante. «Lo facciamo per dare una patente internazionale di ebraismo ai bambini» spiegano i rabbini. Ma tanti genitori hanno respinto la proposta.
1 maggio 2003