“Sono ebreo!” Cinque anni fa veniva ucciso Daniel Pearl
Roma, 20 feb (Velino) – “Sono ebreo”. Con queste parole Daniel Pearl veniva costretto a congedarsi dalla vita, dalla famiglia, dalla moglie e dal figlio che doveva nascere quando venne sequestrato e assassinato. Con queste parole, “sono ebreo, mio padre è ebreo, mia madre è ebrea”, gli islamisti pakistani decollarono Daniel Pearl. È da poco trascorso il quinto anniversario dalla morte del giornalista del Wall Street Journal. Daniel era andato tra Afghanistan e Pakistan a seguire le tracce che portavano a Bin Laden. I fotogrammi della sua morte finirono in mano alla Cnn e ad altre emittenti internazionali pochi giorni dopo l’assassinio, ma prima che il corpo senza testa di Pearl fosse ritrovato.
Pearl era scomparso il 23 gennaio 2002 mentre si trovava a Karachi, nel Pakistan meridionale, dove stava cercando di entrare in contatto con gruppi islamici radicali legati ad Al Qaida. Il Movimento nazionale per la rinascita della sovranità del Pakistan, affiliato al movimento islamista internazionale, rivendicò il sequestro, accusando Pearl di essere un agente della Cia. Il Pakistan mise in piedi una colossale campagna per rintracciarlo. La moglie di Pearl, Marianne, allora incinta di sei mesi, lanciò disperati appelli ai rapitori. L’11 febbraio fu arrestato a Lahore Ahmed Saeed Omar Sheik, il regista del rapimento. Ma dieci giorni dopo la morte di ogni speranza. Fu recapitata una videocassetta con la registrazione dell’esecuzione di Pearl: le immagini mostrarono il giornalista che ammetteva di essere ebreo e riconosceva che i musulmani erano stati ingiustamente perseguitati, quindi una mano che lo afferrava per i capelli mentre un’altra con un coltello gli recideva la carotide. Il filmato si chiudeva sull’inquadratura del corpo del giornalista senza testa. Il suo cadavere decapitato fu ritrovato a Karachi il 17 maggio 2002. Secondo gli investigatori americani furono Khalid Sheikh Mohammed, ex capo operativo di Al Qaida, e uno dei luogotenenti di Bin Laden, a uccidere il giornalista che attese la morte per ore, resistendo a tutti i tentativi dei carcerieri di somministrargli sedativi.
Ha visto la propria morte in faccia Daniel Pearl. È stato sgozzato come si fa con agnelli, capre e montoni in occasione della Id al Adha, la festa musulmana che annualmente segna la fine del pellegrinaggio alla Mecca.
Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot rivelò che Pearl aveva un passaporto israeliano. Dettaglio tenuto segreto da amici, colleghi e parenti per evitare di rendere ancora più precaria la sua situazione. Non era un giornalista di guerra. Non era neanche un reporter d’assalto. Era un uomo gentile, mite, allegro e amante della musica. Non certo il tipo da esporsi a rischi inutili. Sul lavoro però era molto tenace e quando trovava una storia non mollava l’osso. “Un bravissimo giornalista ed un carissimo amico”, avrebbe detto con la voce rotta dall’emozione Peter Kann, uno degli editori del prestigioso quotidiano di New York. “Era l’opposto di molti altri giornalisti, sempre ‘gasati’ e aggressivi, proprio l’antitesi del reporter-cowboy”, ha detto Alecia Swasy, una ex collega che ora lavora per il St. Pittsburg Times. Era nato 38 anni prima a Princeton, nel New Jersey. Suonava il violino e alle feste dava sempre dei piccoli concerti.
Bernard Henri Lévy ha raccolto e raccontato la storia in Chi ha ucciso Daniel Pearl (Rizzoli). Lo scrittore francese è andato a Karachi, crocevia del terrorismo, a Kandahar, a Los Angeles, a casa della vittima, e infine a Londra, per incontrare la famiglia e gli amici del suo carnefice, Omar Sheikh. In Pakistan Pearl aveva indagato sui legami tra Richard Reid, il britannico con le scarpe imbottite di esplosivo, arrestato mentre tentava di farsi saltare in aria sul volo Parigi-Miami il 22 dicembre del 2001, e gruppi terroristici pachistani, sostenuti dai servizi segreti. Un’inchiesta che lo porta forse a scoprire troppo su uno dei segreti meglio custoditi di Al Qaida, il tentativo d’impossessarsi del nucleare. L’assassino islamista Ahmed Omer Saeed Sheikh, che ha confessato di aver partecipato nel 2002 al rapimento e allo sgozzamento del giornalista, non era un predicatore allevato nel chiuso di una scuola coranica. Era nato in Gran Bretagna, il padre ricco pachistano commerciante di tessuti orientali e la migliore educazione occidentale, frequentando scuole private e riportando ottimi voti. Nel 1992 era arrivato alla London School of Economics, uno dei college di maggior prestigio della capitale inglese.
(g.m.) 20 feb 15:32
Crescenzo del Monte risponde a Ariel Toaff
In risposta alla tesi sostenuta dal prof. Toaff, che si basa sulle confessioni sotto tortura degli accusati nei processi per omicidio rituale, Crescenzo Del Monte, noto poeta dialettale in giudaico-romanesco, ha scritto una dichiarazione critica sotto forma di sonetto che qui riportiamo.
Il problema è che Del Monte non ha ancora letto il libro di Toaff, né potrebbe farlo in questo mondo, essendo mancato nel 1935, quindi va anche lui annoverato tra gli stupidi intolleranti che limitano la libertà di ricerca e l’espressione.
Il sonetto di Del Monte comunque parla da solo. E’ del 12 Maggio del 1895 ed è scritto non in giudaico-romanesco ma in romanesco. E’ pubblicato a pag. 561 nell’edizione integrale dei Sonetti a cura di Micaela Procaccia e Marcello Teodonio, La Giuntina, Firenze 2007.
L’inquisizzione II
Lì, caro mio, te la facevi addosso!
Che la turtura, mica se c…ona!
E puro de levattela da dosso,
je spiferavi tutta la canzona!
T’addichiaravi arètico, ortodosso,
turco, pagano, er diàvol’-in-perzona…
e te davi da te la croce addosso,
p’esse trattato meno a la birbona.
Quelli, poi, barbottaveno tra loro…
E ormai nun te sarvava più gnisuno
Dall’ogne de quer zanto Concistoro!
E potevi chiamatte affortunato,
si pe’ bona condotta, sarvogniuno,
primo de datte foco eri impiccato