David Bidussa
Esistono dimensioni specifiche dell’antisemitismo distintamente riferibili alle destre e alle sinistre. In merito ad alcune questioni si producono anche delle sovrapposizioni, ma è essenziale tenere separati i campi di analisi. In questo intervento intendo affrontare la genealogia dell’antisemitismo all’interno delle culture della sinistra.
In merito all’antisemitismo sono possibili processi dintersezione tra destra e sinistra, specie in relazione alla spiegazione della storia attraverso il paradigma del complotto o del potere occulto che vince e domina indistintamente. Anzi, questo è ciò che in gran parte spiega il senso dell’interscambiabilità di retoriche politiche lungo l’asse destra-sinistra, per cui nei linguaggi comunitaristi della retorica populista della Lega Nord si trovano occorrenze significative che possiamo anche riscontrare in aree della sinistra dei movimenti o in aree della sinistra internazionalista.
Non solo, e ancora riferendoci al lessico politico del populismo etnicista della Lega, l’idea di una dimensione artificiale della società e della politica non sembra avere percorso molta strada nella sinistra. Quando la questione d’Israele e della sua legittimità torna ad essere incentrata sull’estraneità alla naturale geografia umana di un territorio, alla sua deprecabile “contaminazione”, magari anche leggendo questo fenomeno come la metamorfosi dell’ebraismo da “Occidente” a “Oriente”- secondo quanto proposto, per esempio, da Alberto Asor Rosa nel suo La guerra – allora vuol dire che nella sinistra ci sono dei nervi scoperti intorno al determinismo etnico e alla geografia umana che mal si conciliano con un presunto superamento dell’organicismo politico proprio di un paradigma culturale di destra.
Si potrebbe valutare questa comunanza come un effetto strano o un incidente di percorso. Ma così non è. La sinistra presenta attualmente punti di frizione non marginali con le realtà ebraiche: sia con la realtà israeliana – e non solo con le politiche dell’attuale governo d’Israele – sia con le diverse diaspore ebraiche.
Potremmo considerare questo problema come specifico e limitato. L’impressione è che esso, invece, testimoni di una tensione più generale riferibile alla questione delle minoranze culturali. Una questione che non ha una fisionomia accidentale o contingente, bensì strutturale e che chiama in causa i concetti e gli strumenti che nel corso di due secoli e mezzo – a partire dal confronto all’interno della cultura illuministica – hanno definito il profilo della cultura emancipazionista e multiculturalista all’interno delle sinistre europee.
La fisionomia dell’antisemitismo di sinistra presenta tratti propri e distinti da quello delle destre. Possiamo individuare tre paradigmi politici che connotano il vocabolario politico e l’esperienza storica della sinistra europea dal Settecento a oggi in relazione alla questione ebraica, alla emancipazione e integrazione degli ebrei nelle società moderne, e nel conflitto o nel confronto con le diverse diaspore ebraiche. L’antisemitismo di sinistra è un fenomeno politico e culturale che ha una storia, si è sviluppato secondo direttrici culturali e politiche diverse, spesso non assimilabili tra loro, non è programmaticamente sterminazionista, ma presenta procedure spiegabili e fondate su visioni complessive della società.
Primo paradigma. L’antisemitismo e il suo linguaggio hanno la loro prima matrice nell’intransigentismo del diritto individuale, nel rifiuto di una qualsiasi forma di diritto comunitario. L’identità degli individui – e significativamente questo è vero nel caso ebraico – è anche identità di gruppo e non solo identità individuale. Negare l’identità di gruppo e dunque non riconoscere un’identità comunitaria implica nei fatti negare lidentità a un individuo, il quale vivrà questa libertà “donata” solo a metà se “sradicato” dalla sua appartenenza di gruppo. E’ il problema delle lealtà rispetto alle comunità, tema che nel vocabolario di Voltaire non c’è e che una parte della riflessione filosofica contemporanea attenta a salvaguardare la tradizione di pensiero liberale e democratico non ha mancato di riprendere e di affrontare. (Si veda per tutti Berlin o Charles Taylor)
Voltaire è il padre di questa convinzione. E’il Voltaire del Dizionario filosofico, o del Essai sur les moeurs (in particolare il capitolo VIII). Il tema non è quello del solo Voltaire, perché questo aspetto torna sostanzialmente in tutto il dibattito emancipativo di Gregoire e della Convenzione rivoluzionaria francese fino alla convocazione del sinedrio napoleonico del 1807. Tutto il dibattito costituzionalista che segna la fine del ghetto in quanto istituzione nell’Europa liberale e democratica del XIX secolo avviene sotto questo segno.
Una convinzione rivendicata di recente e strenuamente per esempio da Emma Bonino in un confronto con Sergio Romano e pubblicato su «Sette» nell’ottobre scorso.
Secondo paradigma. Prende corpo negli anni del «terrore giacobino» intorno alla questione dei «culti rivoluzionari alla dea Ragione» (1793-1794). È l’ambito di idee e di immagini che trova spazio nell’estremismo giacobino antirobespierrista degli arrabbiati, che si sovrappone alle correnti atee e sensiste della seconda generazione degli illuministi (d’Holbach) e che rivendica la volontà di rappresentare il «vero popolo». Questo paradigma, tuttavia, non nasce negli anni ’90 del Settecento, ma ha la sua origine nelle aree dell’estremismo sensista e materialista dell’illuminismo francese.
Ha il suo primo annuncio nel 1770 con d’Holbach con il testo Esprit du judaïsme (a firma Anthony Collins, ma probabilmente d’Holbach) e poi proseguito con il suo Saggio sui pregiudizi. E’un paradigma per il quale la questione ebraica appare come un residuo della storia (un aspetto che da d’Holbach arriverà fino al Marx giovane della Questione ebraica) e che ha il suo fondamento nell’ateismo settecentesco che spesso, in funzione antiebraica, usa Spinoza. Paradigma che anche, e complementarmente, con i fisiocratici assume un secondo aspetto. Questi pensatori, infatti, animano la denunzia del parassitismo ebraico nelle campagne, si consacrano alla critica della Bibbia e attaccano un ebraismo che, allo stesso modo del cristianesimo, è presentato come esemplarmente intollerante. E’ dunque in nome della tolleranza che si combatte talmudismo e usura. La loro convinzione con sfumature diverse, continua a divulgare l’immagine di un popolo errante, alieno, irrecuperabile.
Gli ebrei sono contemporaneamente così un residuo della storia “una scoria del passato” ma anche una forza che si mette di traverso nella storia.
Nella prima veste gran parte del pensiero socialista utopico o anche lavorista del XIX secolo incorre contradditoriamente con la questione ebraica. Sono Proudhon, Fourier, Leroux, ma anche Cabet ad avere più di un punto di non chiarezza in merito alla questione ebraica. Ma anche Marx e anche Engels, hanno più di una dimensione non risolta con la questione ebraica.
Nella seconda veste, tuttavia, il quadro diviene oltremodo significativo per le configurazioni che presenta. Questo paradigma ha avuto fortuna nel corso dell’Ottocento. Così nel corso della seconda metà dell’Ottocento Blanqui e i suoi seguaci, ma anche tutte le componenti del socialismo operaista militano politicamente tra i boulangisti, in altre parole coloro che provano a rovesciare la giovane III Repubblica (1887-1888) e trasformare la Francia in sistema politico autoritario. Tutto ciò in nome dell’antipolitica, della politica dei politici come atto di frode nei confronti del popolo, la «vera nazione», ingannato dall’«antinazione» (un paradigma che avrà molta fortuna anche nei movimenti populistici di sinistra nel corso del ‘900).
Terzo paradigma. In conseguenza dell’idea di «antinazione», prende corpo l’immagine della «rivoluzione nazionale» come fondazione di una comunità di omogenei che non sopporta o mal sopporta le figure sociali che si presentano come ibride, come eccentriche, come «non nazionali». Così una parte consistente della sinistra si schiera contro Dreyfus (in Francia, ma anche in Italia) perché ritiene che le libertà non la interessino; perché pensa che gli ebrei siano comunque un soggetto che non appartiene al popolo e dunque non ci sia alcun motivo per difenderli; perché è convinta che nella società emancipata degli eguali gli ebrei siano destinati a sparire; perché gli ebrei le appaiono un residuo e talvolta un inciampo nella storia.
E’questo terzo paradigma che si ripresenta nell’antisemitismo inteso come socialismo nazionale e che attrarrà tanti esponenti dell’estremismo radicale di sinistra (particolarmente in Francia; in Italia p.e. Nicola Bombacci) come tanti esponenti del riformismo socialdemocratico o del mondo del riformismo sindacale (in Francia, in Belgio, soprattutto, ma anche in Italia) verso i regimi fascisti collaborazionisti nellEuropa nazificata che rivendicano la vittoria delle classi basse – dei plebei – sulle classi alte.
Questo aspetto ha una sua rilevanza. Nell’ambito della sinistra, infatti, questo aspetto, se non sorvegliato teoricamente e culturalmente, rischia di far scivolare tutto il linguaggio del conflitto e dell’antagosnismo verso un vocabolario di guerra irriducibile e metafisica i cui effetti sono devastanti sul piano della lotta politica e il cui esito si consolida in un’immagine apocalittica del confronto politico. Un’immagine in cui le nuove avanguardie si presentano come sostituti e delegati di un popolo che “non c’è” o che è “altrove” e che va “illuminato” per liberarsi. Uno scenario che la sinistra ha già vissuto nel corso del Novecento e che sarebbe auspicabile non ripetesse.
Ma non solo. La dimensione culturale e politica delle sinistre europee stenta a trovare una parametrazione sull’idea di nazione. Rotti gli argini intorno ai vecchi confini statali, le sinistre si sono incamminate lungo due percorsi:
1) Verso la dimensione dell’Europa, convinte che una soluzione sovranazionale permettesse di superare gli irrisolti o le contraddizioni della questione nazionale e dell’identità nazionale su cui le sinistre europee hanno battuto più volte la testa nel corso del Novecento.
2) Oppure, secondo percorso, nella dimensione della scoperta delle identità territoriali specifiche attraverso un’ideologia del “popolare” e del ” folklore” più spesso assunta come “antidoto” a una visione globalistica e azzerante delle differenze.
Intorno a questo profilo avviene l’allontanamento tra sinistre e realtà ebraiche attuali, nella loro maggioranza oggi volte a privilegiare un dialogo verso le destre. Si potrebbe osservare che anche questo è uno dei sintomi della fine del “secondo dopoguerra”.
E’innegabile, ma non basta e in ogni caso se anche questa valutazione descrive che cosa sta accadendo, non permette poi che si comprenda attraverso quali procedure e attivando quali retoriche o rinnovando quali convinzioni questo processo stia avvenendo.
Intorno a queste due questioni si costruisce la connessione tra cittadinanza e appartenenza. E’ questo un aspetto che oggi mette in conflitto una parte dell’armamentario concettuale delle sinistre (proprio per il venir meno di una cultura dell’identità nazionale) con il mondo ebraico e con la realtà israeliana, che invece, contemporaneamente, tendono non solo a svilupparla, ma anche a integrarla o ad accompagnarla con una lettura in temporale della propria identità. La rottura tra mondo ebraico e sinistra avviene contemporaneamente perché in entrambi gli attori viene meno una dimensione di laicità. Da una parte all’interno della sinistra la scelta è verso un restringimento dell’idea di tolleranza risolto solo ideologicamente come approdo a una dimensione di multiculturaismo astratto, ma che è poi incapace di saper costruire e governare laicamente la multiculturalità, dall’altra le realtà ebraiche diasporiche attraversano un processo di rifondazione identitaria in gran parte volto alla riscoperta di un vissuto religioso ortodosso. Al loro interno le dimensioni della laicità sono sempre più ristrette.
Il divorzio tra mondo ebraico e sinistra avviene anche in relazione allo scontro intorno a due false retoriche: quella di una sinistra che si crede post-moderna perché assolutamente sbilanciata verso una vocazione ibridista della propria culturalità e dunque per definizione “antinazionalista” (comunque quando opta per il nazionalismo riscopre la sua pratica culturale di intolleranza e di non multiculturalità) e quella di un mondo ebraico fortemente radicato nell’idea di una identità non trasformabile e non trasformata nel tempo ( e dunque assunta come un a-priori) e di una dimensione nazionale e territoriale non contrattabile.
Tutto questo dice perché la maggioranza degli ebrei guarda alla destra come il suo interlocutore naturale e non interpreta la sinistra come un possibile interlocutore, anzi la ritiene un “naturale nemico”.
Sotto questo profilo rimangono irrisolte molte questioni, ma soprattutto si ripresenta la vecchia questione delle identità culturali e sociali come “contro comunità” anticosmopolitiche.
Equi che la sinistra si ritrova la questione ebraica come irrisolto politico e come “strano animale” non classificabile, di nuovo sospesa tra l’idea che quella sia un residuo della storia, o , viceversa, un turbatore del buon ordine sociale. Nei due sensi: rispetto non al diritto di esistenza, ma alla legittimità, prima ancora che politica, culturale di Israele; e rispetto alle diaspore ebraiche in relazione alla dimensione culturale dell’esperienza diasporica , non come sopravvivenza, ma come processo costruttivo dell’identità nel tempo attuale.
E’certo che oggi le diaspore ebraiche vivano una condizione di ripiegamento su se stesse, e dunque di scarsa propensione all’apertura e al confronto – ovvero siano attraversate nelle loro élite da un’ istanza fondamentalista identitaria – al cui interno, per esempio le istanze di laicità sono fortemente penalizzate a fronte di quelle maggiormente prevalenti di neoidentarismo (etnico, teologico, politico,….) ma questo primo fenomeno che del resto testimonia di un processo di vera assimilazione allo spirito del tempo (non avviene forse così anche all’interno di altre istanze teologiche e comunitarie?) avviene anche in presenza di un secondo aspetto non meno problematico su cui non sarebbe improprio o inutile riflettere.
La costruzione delle realtà nazionali in Europa nel corso dell’Età moderna ha visto impiantarsi processi emancipativi fondati contemporaneamente sull’inclusione sociale della minoranza ebraica presente sul territorio e della loro nazionalizzazione culturale.
L’atlante storico dell’ebraismo presente in Europa nel secondo dopoguerra, soprattutto a partire dagli anni ’60 e ’70, si è modificato strutturalmente. Oggi in Europa il corpo delle realtà ebraiche è costituito da realtà culturali e identitarie, che hanno un rapporto di estraneità – o solo di conoscenza ma non di esperienza – con la storia politica interna agli Stati nazionali dell’Europa. Più spesso la geografia culturale delle diaspore ebraiche è frutto di nuovi innesti, di nuovi arrivi e di ulteriori elaborazioni dell’identità. Le diaspore sono cambiate e gli ebrei sono cambiati.
E’ ciò che in questi anni hanno provato a proporre gli antropologi sociali e culturali (non solo rispetto alle realtà ebraiche, ma più generalmente rispetto a tutte le forme comunitarie che si pensano come diasporiche o esiliche) quando hanno provato a far riflettere le sinistre culturali e politiche intorno al tema delle diaspore come categoria culturale e politica. E’ forse venuto il tempo per la sinistra di ascoltarli e anche, di imprimere un nuovo registro al proprio lessico politico.
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
In “Reset”, n. 82, marzo-aprile 2004, pp. 62-64