Uno dei grandi finali a sorpresa nella letteratura rabbinica è certamente quanto Rashì scrive chiudendo il suo commento alla Torah: l’hesped (orazione funebre) che H. pronuncia per Mosheh Rabbenu. Certamente il suo livello insuperato di profezia, i numerosi miracoli operati durante l’uscita dall’Egitto, ma anche un vago riferimento (34,12) alla “mano forte e per tutte le dimostrazioni di forza e per tutte le cose grandi e terribili che Mosheh operò di fronte a tutto Israele”. A cosa si allude? Vari commentatori (ad esempio Ramban, R. Bechayè, Sforno) ritengono che si parli dell’apertura del Mar Rosso e del dono della Torah.
Sorprendentemente Rashì riferisce questa espressione alla rottura delle tavole. Ci saremmo aspettati un elogio legato alle grandiose esperienze che hanno caratterizzato i lunghi anni in cui Mosheh ha esercitato la leadership sul popolo ebraico; avrebbe potuto ricordare la manna, la passione di Mosheh nella difesa dei figli di Israele, la costruzione del Mishkan, il dono della Torah, o la sua perseveranza nell’istruire giorno e notte il popolo ebraico. Invece viene ricordato uno dei momenti più dolorosi della vita di Mosheh, che il Signore avrebbe approvato a posteriori, e la prova di questo è che i pezzi delle tavole erano riposti nell’Aron assieme alle seconde tavole, e sappiamo che un accusatore non può tramutarsi in un difensore, quindi H. si è mostrato d’accordo (Rashbà, Shabbat 87).
Perché Rashì sceglie questa strada? Negli ultimi due versi della Torah sono presenti due aspetti: quello dei grandi miracoli che Mosheh ha operato incaricato da H. (34,11), ma anche ciò che Mosheh ha fatto, questa volta in maniera totalmente indipendente, agli occhi di tutto il popolo (34,12), e la rottura delle tavole è uno dei tre atti che Mosheh ha compiuto deliberatamente. Questo messaggio è di fondamentale importanza: la Torah è tradizione, è studio profondo e appassionato e tantissime altre cose, ma dobbiamo avere il coraggio di mettere del nostro, mettere “la faccia” in quello che facciamo, e questo è in qualche modo evocato dal modo in cui festeggiamo Simchat Torah, una festa che esce quasi dal nulla, non avendo riferimenti nella nostra tradizione scritta: le hakkafot, i balli, la festa dei chatanim, le chiamate a Sefer che superano ampiamente il numero abituale, i bambini che salgono per la lettura sono solo alcuni degli esempi della vitalità del popolo ebraico e della rigogliosità dei suoi costumi, che hanno sì una lunga tradizione, ma si rinnovano continuamente. Questa capacità di rinnovarsi è certamente uno degli elementi che hanno contribuito alla sopravvivenza del popolo ebraico nei luoghi e nei tempi più disparati, e tutti noi dobbiamo far nostro l’insegnamento di Mosheh nostro maestro, che ha segnato la strada.