Una lettera accorata scritta al giornale della Comunità Ebraica di Trieste, Iarchon
Cari correligionari,
io non sono un ebreo religioso: frequento il Tempio nelle festività ebraiche, vado al Cimitero ogni tanto, quando sento il desiderio di trovare una certa serenità tra quelle pietre, anche se conosciuto superficialmente, cerco di essere presente al funerale di qualcuno che ormai non ha più parenti (o meglio non ha più parenti ebrei) per poter dare, nella mia veste di maschio maggiorenne, un aiuto numerico alle preghiere per i Defunti, se posso, dunque, do il mio piccolo contributo alla vita comunitaria. Quello che invece sento come una seconda pelle è l’appartenenza al Popolo ebraico.
Come diceva Aldo Sereni nel lontano 1922, Ogni giorno sento e mi vado convincendo che la mia ebraicità è un fatto naturale, elementare ed insieme basilare della mia vita: non mi sento affatto ebreo solo se insultano o assaltano gli ebrei, non mi sento più ebreo solo a casa e al Tempio, ma sempre, dovunque, in ogni atto della mia vita. Cosa mi ha spinto dunque a scrivere queste riflessioni ed esternarle? In primis la vergogna che ho provato il giorno della Shoà, al Tempio, quando ci siamo ritrovati in numero veramente esiguo e, tra noi, pochi intimi, ci siamo guardati sgomenti negli occhi . Mi sono chiesto: ma cosa succede? capisco che gli anziani abbiano difficoltà a muoversi, ma tutti gli altri? Dove sono gli almeno 300 ebrei triestini attivi (dico 300, ma sarebbero bastati 200!!) che con un minimo sforzo, in un orario certamente non proibitivo, avrebbero potuto essere presenti per ricordare l’immane tragedia che ci colpì settant’anni or sono? Vogliamo dimenticare e ridurre a semplice e formale commemorazione i sei milioni di deportati? Dove siete ebrei di Trieste?
L’altra sera ci siamo trovati di nuovo al Beth ha Kenesset per festeggiare l’anniversario dello Stato di Israele. Altra delusione, questa volta anche come fervente sionista. Il Sig. Rabbino, gioco forza, ci ha fatto trasferire nell’oratorio in quanto troppo numerosi : all’apertura della funzione c’erano 20 maschi, 12 donne, 2 adolescenti e 4 bimbi piccoli. Di questi 20 maschi due erano israeliani. Poi alle ore 20,30, nella sede sociale, il pubblico è stato sì, un po’ più numeroso e questo mi ha dato un certo sollievo.
Ma alla fine ritorno a chiedere che succede? Stiamo perdendo la nostra identità? Siamo stanchi di essere ebrei? Siamo stanchi di sentir parlare di Shoà? Israele non è più nei nostri pensieri e nei nostri sogni? Per ricordarci chi siamo dobbiamo aspettare che ce lo ricordi qualcun altro? Vorrei che qualcuno rispondesse a queste domande e che mi convincesse che non serve andare in Tempio a dire Kadisch per i deportati, che non serve dire Kadisch per coloro che sono morti in Eretz Israel combattendo per l’ideale sionista, per una patria agognata da duemila anni, per avere un lembo di terra dove nessuno ti dice p… di ebreo, che tutto ciò è ormai superato. Dopo tanta tristezza e depressione, non posso non ringraziare i componenti del rinato Gruppo Sionistico che stanno cercando, forse disperatamente, di riprendere quel filo che si è interrotto da anni, di rintracciare chi sembra ormai disperso e soprattutto di riavvicinare i nostri giovani che sembrano sordi ai richiami dell’ebraismo.
Vi ringrazio per l’attenzione che vorrete dare alla presente e invio a tutti un sincero Shalom.
Renzo Saguès
Egr. Sagues, mi permetta solo una nota. Per esperienza diretta, non mi sembra che nostri giovani siano “sordi ai richiami dell’ebraismo”, non perlomeno in proporzione maggiore rispetto ai correligionari più adulti. Ho sempre il sospetto che tutti vogliano che i giovani siano coinvolti, ma gli sforzi per poterlo fare nelle modalità, nelle sedi e nei tempi a loro congeniali siano sempre troppo scarsi. Continuiamo stancamente a proporre “il tradizionale seder di Pesach”, “la tradizionale commemorazione dei caduti”, “la tradizionale festa di…” con la stessa ieraticità destinata alle feste comandate dalla Torà e poi ci lamentiamo che i giovani, ohibò, non si fanno vedere? Dovremmo stupirci del contrario! Vogliamo veramente i giovani? Iniziamo a pensare con la loro “testa” e non con la nostra. Non è certo facile, ma non è nemmeno impossibile.
David Piazza