Un rabbino riflette sul significato di laicità ebraica. Osservanti miscredenti e laici devoti.
Gianfranco Di Segni
Va di moda l’ebraismo laico, almeno in Italia. In contemporanea sono appena usciti due testi sull’argomento, quello di Irene Kajon, intitolato Ebraismo laico, La sua storia e il suo senso oggi (Cittadella ed.), e quello di Stefano Levi Della Torre, Laicità, grazie a Dio! (Einaudi), simili anche nelle dimensioni. Se nel primo caso la matrice ebraica è evidente già dal titolo, per il secondo basta andare alla quarta di copertina. Tutto ciò, ovviamente, per i pochi che non conoscano già Levi Della Torre (LDT), che d’altronde esplicita nelle prime pagine di “essere un ebreo laico e non credente”. E subito dopo riporta questo breve, geniale dialogo attribuito a Vicky Franzinetti (coautore con LDT e J. Bali de Il forno di Akhnai, Giuntina): “Di che religione sei?” “Ma io non sono credente!” “Sì, ma non credente di quale religione?”.
LDT cerca fin dall’inizio di “mantenere un atteggiamento laico nei confronti della laicità”, senza farne un feticcio e rifuggendo dal laicismo, che della laicità è una degenerazione. Personalmente, mi ritrovo in molte sue affermazioni. Ho apprezzato meno LDT quando accusa la religione di pretendere di “sentenziare soprattutto su cose che non si sanno (di quale sia, ad esempio, la «volontà di Dio»)”, contrapponendo questa mentalità religiosa a quella laicista (p. 5). Però, come non si deve confondere la laicità con il laicismo, così si dovrebbe distinguere la religione dalla sua distorsione “religiosa” (uso questo termine fra virgolette, in assenza di un corrispettivo religioso per laicista). Infatti, l’esperienza religiosa ebraica autentica non parla della volontà di D-o. Concedo a LDT che i laicisti sono forse, fra i laici, una minoranza, anche se ben più vociferante della maggioranza di persone per bene, mentre fra i religiosi le parti si invertono. I molti, fra i religiosi, sono quelli che parlano “a nome di D-o” (non solo fra gli ebrei, probabilmente di più nelle altre due grandi religioni monoteistiche). Sono pochi i religiosi che hanno un’attitudine “laica” verso la religione, ma questi a mio parere sono gli ebrei religiosi autentici. Il mio maestro, Rav Menachem (Michel) Monheit di Strasburgo, in un recente ciclo di incontri tenuto a Roma, organizzato dall’UCEI e dal Collegio rabbinico italiano, ha raccontato che quando da ragazzino, di ritorno dal cheder (scuola elementare), riferiva allo zio ciò che il maestro gli aveva detto sulla volontà di D-o, lo zio, un grande talmid chakham (studioso) che viveva in Svizzera, gli diceva: “Diffida sempre di chi ti parla di ciò che D-o vuole. Come possiamo saperlo? Noi sappiamo solo quello che la Torah vuole da noi!”. Un primato della Torah che è stato bene espresso da Emmanuel Lévinas in un suo testo, Amare la Torah più di Dio (vedi il libro con questo titolo di A. Chiappini, Giuntina 1999).
Quando sento qualcuno che infila in ogni frase le parole “Be’ezrat HaShem” (con l’aiuto di D.) o “Se D. vuole”, ho qualche perplessità. Non perché sia scorretto credere che l’aiuto di D. serva, né che sia improprio nominarLo ogni tanto. Giacobbe si distingueva da Esaù proprio per il suo intercalare il nome di D. nei suoi discorsi (ha-kol kol Ya’akov, ve-ha-yadaim yedè ‘Esav; Bereshit 27:21-22 col commento di Rashì). Io stesso non direi mai a qualcuno “ci vediamo l’anno prossimo (o fra un mese, o domani)” senza aggiungere le parole “Be’ezrat HaShem”. Ma il Nome divino va pronunciato con parsimonia e discernimento, altrimenti si trasgredisce al 3° comandamento “Non nominare il nome di D. invano”. Soprattutto, non possiamo delegare a D-o quello che dipende da noi. Quando i miei allievi di età adolescenziale, che spesso hanno le idee un po’ confuse, mi dicono che “faranno i compiti, se D. vuole”, gli rispondo: “Non preoccupatevi della volontà di D-o, vedete di volerlo voi!”.
Ciò significa forse che D-o non parla agli uomini? Niente affatto. L’ebraismo si basa sulla rivelazione divina ad Abramo, a Mosè e agli altri profeti. Però, come LDT ha bene spiegato ne Il forno di Akhnai, il periodo delle “voci dal Cielo” si è concluso da duemila anni. Forse D-o parla ancora agli uomini, ma è una questione privata, non può mai diventare un messaggio da trasmettere e meno che mai imporre agli altri. Quando gli ebrei osservanti, in particolare nel mondo charedì, chiedono un parere, non ricercano la “voce di D-o” ma la da’at Torah, l’opinione della Torah, che è fornita dai ghedolè ha-dor, i grandi Maestri della generazione. È vero, lo spirito critico fra le masse dei charedim non è molto sviluppato. Ma mentre la voce divina, per definizione, non può essere messa in discussione, riguardo a quella umana si può sempre trovare un autorevole maestro di opinione contraria. Possibilità che, almeno nel mondo ebraico, è una matematica certezza. Il detto “due ebrei tre opinioni” non è solo un modo di dire, è la realtà, il che implica un pluralismo delle opinioni pure all’interno della singola persona. Nel Talmud si hanno molti esempi di Maestri che cambiano idea su una certa questione nel corso della loro vita, e ciò vale anche nell’epoca moderna. Cambiare idea nel corso del tempo è legittimo. Un po’ meno quando si hanno due idee contrapposte allo stesso tempo. Ma anche questo può capitare.
I. Kajon termina il suo saggio con un’interessante riflessione. Il cristianesimo e l’islam sono intrinsecamente molto meno laici dell’ebraismo, e quindi “non potrebbe l’ebraismo – come base del cristianesimo e dell’islam – offrire loro il pensiero di una laicità che non è altra cosa rispetto alle tradizioni religiose, ma parte essenziale, pur nella sua differenza e peculiarità, di queste ultime?” (pp. 182-183).
Laico è un termine usato nelle più diverse accezioni, e sia Kajon che LDT ne presentano varie. Per me essere laico è avere una certa forma mentale. È l’utilizzo dello spirito critico. Non c’entra con l’emunà (fede), che risiede in un livello più intimo. Né con la shemirat mitzvot (l’osservanza dei precetti), che attiene per lo più (con alcune notevoli eccezioni) al comportamento esteriore. Si può essere credenti e osservanti ma anche laici. Un altro insegnamento ricevuto da suo zio che Rav Monheit ama ripetere, una sorta di gioco di parole, è: “Roshì lifnè Rashì”, la mia testa viene prima di Rashì (il più grande interprete della Torah e del Talmud). Viva la libertà di pensiero!
Da Pagine Ebraiche, maggio 2012