La Torah prescrive che prima di affrontare una guerra facoltativa un Kohen, designato per l’occasione rivolga un discorso ai potenziali soldati, annunciando tre categorie di esenzioni dalla battaglia: chi ha costruito una casa senza ancora abitarvi, chi ha piantato una vigna e non ne ha riscattato il raccolto, chi si è fidanzato e non si è ancora sposato. Una quarta categoria è quella dei codardi: meglio tornarsene a casa piuttosto che demoralizzare gli altri soldati con i propri atteggiamenti e discorsi! Il Rashbam ritiene che questa ultima esenzione non sia altro che una ulteriore esplicitazione di quelle precedenti: chi non ha avuto modo di perfezionare qualcosa per cui si era adoperato avrà certamente maggiore paura di andare in guerra.
Ma è proprio così? In fondo chi lascia moglie e figli, o una casa già costruita, avrà altrettanta paura, se non persino di più, di perire sul campo! Ciò che è rilevante in questo caso è la distruzione di un aspettativa: queste medesime categorie, casa, vigna e donna, ritornano, con ordine inverso, nelle qelalot nella parashah di Ki Tavò. Ciò che è veramente triste è rovinare un momento che aspettiamo con ansia, quello dell’inizio di una certa realtà, che è al riparo da ogni difficoltà o peccato. Recanati suggerisce che questi momenti siano tanto sacri da attirare il malakh ha-mavet, tramutando la caduta in guerra da una probabilità in una certezza. Il peccato del vitello d’oro si è realizzato proprio quando il popolo ebraico ha ricevuto la Torah. Secondo Recanati non si tratta di una casualità: maggiore è livello raggiunto da qualcuno, più grande sarà il suo peccato. Nel trattato di Sotah (44a) il Talmud presenta una discussione su questa ultima esenzione. Va intesa alla lettera? Secondo alcuni, ad esempio il Rambam nelle Hilkhot melakhim (7,15), sì.
Secondo R. Yosè ha-Galilì il senso è un altro. La Torah (Devarim 20,4) in precedenza ci aveva rassicurato circa l’aiuto divino in battaglia. Il peccatore è nervoso: un’affermazione del genere di certo varrà solo per coloro che sono degni di questa protezione. Ma di che tipo di colpa ci si dovrà macchiare per fare questo ragionamento? Il Talmud (Sotah 44b) soddisfa la nostra curiosità: interrompere fra i tefillin del braccio e della testa. Francamente ci saremmo aspettati dell’altro. Come sappiamo, quando si indossano i tefillin non bisogna parlare dopo aver messo quelli del braccio, prima di indossare quelli della testa (Menakhot 36a). Questa regola viene codificata nello Shulkhan ‘arukh (Orach Chayim 25,9–10). Anche se in questo frangente ascoltiamo un qaddish o vogliamo rispondere ad una berakhah ci è consentito solamente fermarci ad ascoltare, ma non rispondere. A prima vista non è comprensibile però perché tale atto sia tanto grave. Il Sefer ha-chinukh (mitzwah 421) ci spiega qual è lo scopo dei tefillin: la tefillah del braccio tende ad incanalare ogni azione dell’ebreo verso H., mentre quella della testa riflette i pensieri e le credenze di chi li indossa. Il messaggio è che non c’è alcuno spazio o separazione fra i due. Chi scinde i due momenti, credendo che siano le sue azioni a condurre alla vittoria, non è degno di rappresentare il popolo ebraico sul campo di battaglia. Il Tur (Orach Chayim) richiama la stessa immagine, citando il Talmud Yerushalmi, parlando di chi interrompe fra Yishtabbach, il termine dei pesuqè dezimrà, i brani che precedono le berakhot dello Shemà, e la prima berakhah che precede lo Shemà, Yotzer or.
Chi fa così scrive il Tur, viene allontanato dal campo di battaglia. Il Menorat ha-maor suggerisce una etimologia differente rispetto a quella tradizionale del termine zimrà: la radice Z-M-R oltre a cantare significa anche potare. I salmi che precedono lo Shemà servono a rimuovere tutti gli ostacoli a livello spirituale alle nostre preghiere, creando una connessione con la santità. Anche in questo caso, non ha senso “potare” le nostre convinzioni prescindendo dallo Shemà Israel. Chi crede di poter liberare la società dalle magagne che la affliggono senza lo Shemà Israel è meglio che si ritiri dalla battaglia, o quantomeno abbia la decenza di non voler rappresentare il popolo ebraico. In guerra la spiritualità è fondamentale: nella parashàh di Mattot, quando viene organizzata la guerra contro Midian Moshè richiama alle armi “mille per tribù, mille per tribù”. Il Midrash Tanchumà spiega la ripetizione dicendo che ogni tribù forniva mille combattenti e mille oranti. Rashì (Bemidbar 31,8) scrive che Israele è vittorioso per via delle sue preghiere. Il Talmud in massekhet Berakhot (54a) insegna che se una persona si reca in un luogo in cui si è verificato un miracolo di cui il popolo ebraico ha beneficiato, deve recitare una berakhah. Se si vede per esempio la pietra su cui era Mosheh durante la guerra con Amaleq bisogna recitare questa berakhah. Il Maharshà nota però che la guerra si è svolta non sull’altura dove era Mosheh, ma nella valle. Perché allora recitare le berakhah? Spiega il Maharshà che il vero miracolo è l’accettazione della preghiera di Mosheh. Come in ogni altra realtà, anche nella guerra azione e pensiero non possono rimanere separati.