Commenterò il versetto: עוברי בעמק הבכא מעין ישיתוהו, “Coloro che passano per la Valle del Pianto la trasformeranno in una fonte” (Tehillim 84,7). A cosa allude? Forse a un luogo geografico, attraversato da coloro che rientrano dall’esilio. Ma con l’aiuto di D. gli darò un significato nuovo.
“Diceva R. Kruspeday a nome di R. Yochanan: tre libri sono aperti davanti a H. per Rosh ha-Shanah: uno dei giusti completi, il secondo dei malvagi completi e il terzo dei medi. I giusti completi sono iscritti e suggellati direttamente alla vita; i malvagi completi sono iscritti e suggellati direttamente alla morte; quanto ai medi vengono sospesi e rinviati da Rosh ha-Sanah a Yom Kippur: se nel frattempo acquisiscono dei meriti vengono iscritti alla vita; se non acquisiscono meriti vengono iscritti alla morte” (Ghemarà Rosh ha-Shanah 16b).
Questo notissimo passo del Talmud comporta un problema fondamentale che tutti i commentatori sollevano. La nostra esperienza quotidiana ci mostra infatti quanti giusti soffrano fino al punto di morire giovani e quanti malvagi invece prosperino e abbiano lunga vita, in apparente contrasto con l’insegnamento di R. Yochanan!
Fra gli altri il Maharal di Praga nei suoi Chiddushè Aggadot si sofferma sulla questione e dà tre differenti risposte al riguardo. Nella prima egli rileva che l’insegnamento talmudico non parla di giusti o malvagi qualsiasi, bensì di “giusti completi” e di “malvagi completi”. Nella definizione del Maharal si tratta di persone rispettivamente del tutto prive di peccati, ovvero di meriti. Data la loro posizione estrema nel quadro etico della società, ben si può ipotizzare che R. Yochanan proponesse per essi un destino tranchant, senza mezzi termini. Ma si tratta di due categorie estremamente limitate numericamente, forse più teoriche che reali: quasi senza una incidenza pratica rispetto al comportamento della maggior parte degli individui.
I giusti e i malvagi qualsiasi, quelli che hanno sia meriti che peccati sia pure in proporzione variabile, sono piuttosto da ricondursi alla terza categoria dei medi, che rappresenta la stragrande maggioranza degli uomini, il cui destino è assai più aperto alla discussione. Essi vengono rinviati a Yom Kippur. Peraltro con loro il problema della vita e della morte non fa che riproporsi tal quale nel momento del secondo appello, in cui viene presa la decisione definitiva nei loro confronti. Per questo la prima risposta non è sufficiente. Ne occorre un’altra.
Nella seconda risposta il Maharal ci fa notare un’ulteriore particolarità del testo. R. Yochanan non scrive che i giusti “vengono iscritti e suggellati affinché vivano” e dei malvagi “affinché muoiano”, bensì rispettivamente “alla vita” e “alla morte”, dando implicitamente a questi concetti un senso più generale. Il Maharal dice che il merito non è l’unico aspetto a condizionare il destino degli uomini. Ve ne sono altri. Per esempio il mazal, la “stella”, conformemente al detto dei ns. Maestri per cui “il numero dei figli, la lunghezza della vita e l’ammontare del cibo di cui l’uomo dispone non dipende dal zekhut (“merito”), bensì dal mazal” (Mo’ed Qatan 28a). Le costellazioni governano l’umana condizione, scrive Maharal (noi oggi parleremmo più scientificamente di orologio biologico, o simili), lasciando tuttavia scoperte delle finestre in cui si inserisce il merito della persona. Nell’insegnamento di R. Yochanan questo determina in linea di principio l’assoluzione ovvero la condanna dell’individuo, ma per la traduzione in pratica della sentenza occorre effettivamente attendere l’apertura di una di queste finestre. Una di queste è rappresentata dal fatto di mettersi in una condizione di pericolo (sakkanah), come la guerra. E’ quanto affermano i Maestri: השטן מקטרג בשעת הסכנה, “il Satan pronuncia la sua condanna quando l’uomo è in pericolo” (Rashì a Bereshit 42,4 e Devarim 22,10).
E’ quanto si impara dalla Parashah odierna. Verso la fine di essa la Torah parla dell’ammonimento che i soldati dell’esercito israelitico ricevevano nel momento di partire per il fronte di una guerra facoltativa, intrapresa cioè per scelta e non per obbligo. Tre categorie erano anzitutto esentate dal combattimento: chi avesse costruito una casa (bayit) nuova e non l’avesse inaugurata, chi avesse piantato una vigna (kerem) e non ne avesse ancora raccolto i frutti e chi si fosse fidanzato con una donna (ishah) e non avesse fatto in tempo a sposarla, per il rischio di morire in guerra e lasciare il posto ad altri. Solo alla fine veniva egualmente esentato “colui che avesse paura e fosse di cuore tenero” (Devarim 20,8). Per quale motivo? Secondo R. ‘Aqivà per paura della guerra pura e semplice, anche questa senza alcuna relazione con il proprio comportamento morale. E’ R. Yossè ha-Ghelilì a dire che si tratterebbe di colui che aveva paura delle proprie trasgressioni, sapendo che potrebbe invece esserci una relazione fra morte e peccato (Rashì ad loc.).
La questione se esiste relazione fra la morte di una persona e i suoi peccati è dunque al centro di questo brano della Torah ed è dibattuta dai Maestri nel trattato Shabbat del Talmud senza peraltro che essi pervengano a una soluzione unitaria del problema. Per questo motivo anche la seconda risposta del Maharal non può considerarsi del tutto soddisfacente. La terza risposta è di gran lunga la più affascinante. Il Maharal dice che R. Yochanan non si riferisce alla vita e alla morte fisica, ma a quella spirituale e ricorda un ulteriore detto dei ns. Maestri per cui: “i giusti anche in morte sono chiamati vivi, mentre i malvagi già in vita sono chiamati morti” (Berakhot 18a). Da cosa dipenderebbe la vita e la morte spirituale di una persona? Dal suo attaccamento o meno alla propria Fonte. Come dice il versetto: “E voi che siete attaccati a H. D. vostro siete tuttora vivi” (Devarim 4,4)!
Maharal fa il confronto fra un bor בור, una pozza di acqua attinta stagnante e un ma’yan מעין, una fonte di acqua sorgiva, chiamata significativamente nella Torah חייםמים. Si pensi a un torrente di montagna che scaturisce dalla propria sorgente. La sua corrente è talmente forte che anche se un ostacolo si dovesse frapporre riuscirebbe a fermarla solo per un tempo molto limitato: il tempo di riprendere forza. A breve la corrente acquisisce la forza non solo di sopravanzare l’ostacolo, ma di scorrere successivamente con un impeto ancora maggiore. Questa sarebbe la condizione dei giusti secondo R. Yochanan. Essi non vengono arrestati neppure dall’ostacolo costituito dalla morte fisica. La loro vitalità non si lascia fermare. Essi hanno la forza di superare la morte fisica e di trarne spunto per esercitare una forza ancora superiore. Così era mia mamma (יני כפרת משכבההר(, una donna di doti eccezionali la cui influenza supera i confini della sua vita terrena.
Comprendiamo ora meglio il senso del versetto da cui siamo partiti: עוברי בעמק הבכא מעין ישיתוהו, “Coloro che passano per la Valle del Pianto la trasformeranno in una fonte”. La parola בכא (“pianto”) è in realtà composta dalle iniziali di bayit בית (“casa”), kerem כרם (“vigna”) e ishah אשה (“moglie”), i tre casi in cui la Torah ammette l’esenzione dalla guerra indipendentemente dal comportamento morale della persona. Si tratta piuttosto di giusti che temono per un attimo di non vedere realizzato un proprio progetto di vita appena intrapreso e per questo sono autorizzati a non partecipare al combattimento. Lo smarrimento, peraltro, è solo momentaneo. Il versetto dei Tehillim dice che “lo trasformeranno in una fonte” di acqua sorgiva, in definitiva più forte di qualsiasi ostacolo. Tale e tanta è la forza del giusto.