All’inizio di questa parashà, dopo la mitzvà di nominare giudici competenti, segue quella di non piantare una asherà nel Bet ha-Mikdàsh e di non erigere una stele. In questi due versetti è scritto: “Non piantare per te una asherà, o alcun albero, presso l’altare che ti farai per l’Eterno tuo Dio. E non erigerti alcuna lapide, cosa che l’Eterno, tuo Dio, ha in odio” (Devarìm, 16:21-22).
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nella Guida dei Perplessi (Parte prima, cap. 36) fa notare che nella Torà non si trova la parola “odio” altro che nel contesto della ‘avodà zarà (idolatria, culto estraneo). Asherà e stele erano tipici esempi di culto idolatrico. Gli idolatri piantavano alberi (asherà) nei loro templi e, per allontanare ogni somiglianza ai loro culti, la Torà proibisce di piantare alberi vicino al mizbèach (altare) e nella ‘azarà (cortile) del Bet Ha-Mikdàsh.
R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento alla Torà spiega che la asherà era un albero che si credeva sotto la speciale protezione di qualche dio e la sua fioritura era considerata un segno della presenza e dell’influenza di questo dio.
R. Eliyahu Benamozegh (Livorno, 1823-1900) in Em La-Mikrà (Devarìm, p. 67b) approfondisce l’argomento. Qual è l’origine del termine asherà? Egli scrive che vi sono fonti dalle quali appare che si tratti di alberi e altre che indicano delle divinità pagane, come scritto in Melakhìm: “e destituì pure dalla dignità di regina sua nonna Ma’akà, perch’essa aveva rizzato un’immagine alla asherà ” (I Re, cap. 15:13). Gli alberi prendono il loro nome dalla divinità. R. Benamozegh suggerisce che asherà deriva da Ashtòret (Astarte, dea della fertilità dei Sidoni, 1 Melakhìm, 11:5). Le parole Ashtar o Astahar nella lingua persiana corrispondono a Noga (Venus), la dea dell’amore.
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 142) cita il commento di r. ‘Akivà Eger allo Shulchàn ‘Arùkh (O.C., 150:1) nel quale l’autore riporta l’opinione di r. David Arama il quale sosteneva che era proibito, per decreto rabbinico, piantare alberi anche nel cortile di un bet ha-kenèsset. Tuttavia R. Naftali Tzvi Yehuda Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia) nella sua opera di responsi Meshìv Davàr (2:14) afferma che non vi è alcuna proibizione di piantare alberi nell’area di una sinagoga. E infatti R. Chayìm, nonno di r. Joseph Beer Soloveitchik, permise di piantare alberi nel cortile della sinagoga di Brisk (Brest Litovsk) la città dove era rabbino capo.
Nel Talmud babilonese (Sanhedrìn, 7b) è detto che r. Shim’on ben Lakish osservando la vicinanza dei versetti in cui si parla della mitzvà di nominare giudici competenti a quello di non piantare una asherà, afferma che chi nomina un giudice incompetente è come se avesse piantato una asherà in Israele. R. Chayìm Soloveitchik spiegò che un giudice incompetente è paragonato proprio a una asherà perché, a differenza di altri luoghi di culto idolatrico che sono bene identificabili come tali, la asherà ha l’apparenza di un albero qualunque. Al di fuori è bello e lussureggiante ma la sua essenza è il culto idolatrico. Un giudice competente ha la straordinaria autorità di operare al posto del Giudice Supremo e per questo il dayàn è chiamato anche “elohìm”. In realtà nessun essere umano è capace o ha il diritto di decidere la sorte di una altro essere umano perché non può mai sapere la verità assoluta. Di conseguenza se un giudice è incompetente ha usurpato l’autorità divina, un atto simile all’idolatria. In modo figurativo egli ha piantato un culto idolatrico proprio nel luogo destinato alla giustizia divina.