La memoria è un motore della individualità umana. Finché posso giocare con i miei ricordi, scomponendoli e ricomponendoli, sento di essere una persona. La memoria condivisa è il collante di ogni relazione umana. Finché so che tu ti ricordi di me e finché tu sai che io mi ricordo di te, noi siamo noi. Siamo qualcosa in più.
La memoria è il contenitore collettivo di ogni gruppo, piccolo o grande. Finché scambiamo e confrontiamo ricordi comuni, possiamo pensare ad una storia che sa usare i ricordi del passato per costruire un futuro comunque migliore.
La potenza di tutte queste memorie sta nel riuscire ad essere memorie aperte. Sempre innovative e mai celebrative.
Possiamo identificarci con le nostre foto di quando eravamo bambini, se sappiamo che stiamo guardando con gli occhi di adesso. Possiamo comprenderci meglio, se possiamo immaginare di guardarci adesso con gli occhi che avevamo allora. Questo doppio confronto è emozionante, perché in fondo in fondo è il confronto tra ricordare e progettare.
L’emozione del ricordo che si rinnova e si confronta con altri ricordi è la stessa emozione del sogno, che cerca sempre la strada per trasformare il passato in una nuova realtà.
In sintesi: la memoria può essere maestra di libertà soltanto se non è una memoria prigioniera, perché dolorosamente ripetitiva.
Questo discorso è particolarmente valido quando lavoriamo con la memoria traumatica, con la memoria etica e con la memoria educativa.
Siamo davanti alla scommessa e alle domande che ci pone ogni anno la Giornata della Memoria.
Dopo la catastrofe universale della Shoah, causata volontariamente dalla mano dell’uomo, è possibile guardare dentro la malvagità umana? E cioè, senza fuggire dichiarandoci subito buoni?
Dopo un trauma subito quasi passivamente, è possibile usare la memoria attivamente? Per documentare il trauma e non per fissarlo, per combattere il trauma oggettivamente e non per riprodurlo soggettivamente.
Nel conflitto quotidiano che ogni persona ha, quando deve scegliere tra bene e male, è possibile costruire un patto educativo fra una generazione e l’altra?
Non penso che queste domande debbano e possano avere una risposta. Credo che queste domande debbano rimanere domande tanto inquietanti quanto fiduciose. I superstiti della Shoah tuttora viventi hanno guardato in faccia il male, allora, quando erano bambini. Con occhi di bambino. Adesso i superstiti della Shoah ragionano e soffrono con la forza e con lo sfinimento di una vita combattuta, per capire e contrastare l’esistenza del male assoluto.
Allora guardavano e capivano il male come i bambini guardano il dolore e l’ingiustizia: con lo stupore assoluto e con il rifiuto più totale. Non è così, non può essere così, non sarà cosi… un giorno sarò grande, non farò e non farò fare così…
Se vogliamo comprendere e sgretolare il male della Shoah, forse possiamo immaginare e introiettare quegli sguardi di bambini. Quell’incredulità totale è veramente più forte del male, perché nasce dalla speranza e dalla certezza che il male può non esistere. Non deve esistere.
*Professore emerito Sapienza Università di Roma
© Riproduzione riservata