Una figura rabbinica padovana: Nel bicentenario della sua nascita
Rav Aharon Adolfo Locci – Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Padova
Poeta, linguista e grande esegeta, nacque a Trieste nel 22 agosto del 1800 (1 Elul 5560), morì a Padova la sera di Kippur il 30 settembre del 1865 (10 Tishrì 5626). Il padre Ezechia era un intarsiatore, temente del Signore, ma anche sapiente della Torà e delle materie scientifiche. SHaDaL dopo la morte dei suoi fratelli maggiori, fu mandato, all’età di quattro anni e mezzo, in una scuola moderna per l’epoca, dove studiò materie come l’italiano, il tedesco e la matematica. A nove anni l’ebraico era una già lingua che “scorreva sulle sue labbra“; ad undici anni studiò il francese e a tredici anni sapeva già leggere il “Talmud” e l’”En Ja’aqov”.
Dopo la morte della madre, il padre Ezechia gli chiese di imparare un mestiere di cui poter vivere, però il giovane maestro, molto attaccato allo studio e al suo importante valore nella tradizione ebraica, non acconsentì alla richiesta del genitore. Cosicché, proprio grazie alla sua cultura, il suo nome si diffuse tra le famiglie ebraiche più benestanti di Trieste, che lo elessero come loro “Morè” (insegnante) di famiglia. In quegli anni conobbe a Trieste il grande rabbino Izchak Shemuel Regio (detto IaSHaR, Gorizia 1754 1855), conoscenza questa che influenzò non poco la sua vita in generale e il suo sviluppo culturale in particolare.
A soli 22 anni, SHaDaL pubblicò il suo commento in italiano alle preghiere, opera che contribuì notevolmente a rendere ancor più noto il suo nome e nel 1825 fu edita una raccolta di sue poesie chiamata “Kinnor Naim”(Dolce violino). Nel 1826 si sposò con la figlia del suo maestro Refael Baruch Segrè e nel 1829, all’apertura del Collegio Rabbinico Italiano a Padova, fu chiamato – grazie al Regio – ad essere uno dei due insegnanti capi. Di fatto questa nomina, diede inizio ad un nuovo capitolo della vita di SHaDaL, quello della realizzazione della sua più grande aspirazione, Lilmod ulelammed– studiare ed insegnare – ed io aggiungerei anche “produrre”, in maniera più prolifica. Di questo anno è la sua opera “Ohev Gher” (Colui che ama lo straniero), sul Targum Onkelos, la traduzione in aramaico del Pentateuco.
Molti grandi del suo tempo sono stati in corrispondenza con lui per chiedere consigli ed opinioni culturali e la raccolta di queste lettere (“Iggherot ShaDaL”), divisa in nove parti, fu pubblicata postuma.
Desiderio di ShaDaL era anche di rendersi utile per la pubblicazione di lavori letterari di altri autori, per il loro profitto e il loro bene e non solo autori del suo tempo. Infatti, il libro “Migdol oz”, scritto da un’altra eminente figura padovana le cui opere oggi, sono studiate in tutte le accademie rabbiniche del mondo, Moshè Chaim Luzzatto detto “RaMCHaL”, fu pubblicato nel 1837 con le sue note e il suo appoggio.
Nel 1840, con la pubblicazione del suo “Betulat bat Jehudà” – (La vergine figlia di Jehudà) – una raccolta di poesie composte dal famoso Jehudà Ha-Levì, sparse in vari manoscritti e dimenticate per alcune centinaia di anni, destò lo spirito dei suoi amici i quali cominciarono anch’essi ad interessarsi di questa espressione della cultura ebraica, che era stata lasciata per troppo tempo nei meandri più oscuri ed impolverati delle biblioteche pubbliche e private.
La vita però non fu benevola nei confronti di SHaDaL, nel 1841 perse la moglie dopo una lunga e dura malattia e nel 1854 morì giovanissimo anche il figlio primogenito che era già un sapiente conosciuto nell’ambiente culturale ebraico. Nonostante tutto il dolore provato per queste gravi disgrazie, si risposò con la sorella della moglie, molto più giovane di lui, riuscendo a produrre ancora grandi opere.
Durante gli anni del suo insegnamento nel Collegio Rabbinico a Padova, scrisse molto sulla grammatica ebraica e inoltre produsse vari commenti in italiano, tra cui quello al libro di Giobbe (Padova 1853) e al libro di Isaia (Padova 1855) e una traduzione in italiano al Pentateuco e Haftaroth (Trieste 1858).
Di ottima fattura fu il “Mavò le-Machazor che-minhag benè Roma” (Introduzione al Formulario delle Orazioni secondo l’uso dei figli di Roma, Livorno 1856), un’opera che ancora oggi è di grande utilizzo nelle comunità ebraiche di rito italiano, sia come guida per l’ordine da seguire nelle preghiere quotidiane, del sabato e delle festività, sia per la conoscenza del rito proveniente dalla comunità più antica d’Europa. Dopo la sua morte fu pubblicato a Padova nel 1871, il suo commento al Pentateuco e, nel 1888, la seconda parte del “Kinnor Naim”(Dolce violino).
Lo spirito, la semplicità, la sapienza, fecero di SHaDaL una delle figure più importanti che hanno contraddistinto il nostro popolo nel secolo diciannovesimo. Fu uno degli ultimi rimasti ad essere completamente asservito allo studio, alla saggezza e non che la saggezza e lo studio fossero suoi servitori; uomo di infinita disponibilità verso chiunque formulasse lui una domanda, ogni questione, pure la più semplice, era degna della più dotta risposta.
Egli nella sua attività, ricercava sempre la verità e combatteva per poterla sempre attuare, senza manifestare quella superbia che è propria di colui che si sente depositario della verità assoluta.
Secondo il suo pensiero, espresso nelle sue epistole, la verità
“è caratterizzata da vari livelli e la grazia e la misericordia sono le basi della verità stessa.
La cosa principale in un uomo, è la giustizia nel suo cuore e non parole dotte costruite su basi vuote e vane. L’ebraismo non deve essere influenzato dalle letterature e dalle filosofie esterne, poiché già completo di tutto ciò che necessita la sua trasmissione.
La saggezza di Israele, è fondata sui detti degli antichi dotti della Mishnà i quali non ricevettero nulla dalle culture degli altri popoli e la sua peculiarità fondamentale è di aver sempre mantenuto integra la propria identità. Seguire ciecamente la moltitudine, significa perdere il senso della nostra unicità fino a dimenticare la lingua dei nostri padri. Il porre in rilievo invece la nostra volontà di esistere nella piena consapevolezza della nostra cultura, è il miglior insegnamento da trasmettere alle generazioni future.”