Da una derashà di Rav Sacks
Nell’episodio del roveto ardente Mosheh pone ad H. due domande. La seconda (il D. dei vostri padri mi mandò a voi; e se mi dicono: Qual è il suo nome? che cosa ho da dir loro?) e la sua risposta (Ehjè asher Ehjè, sarò quel che sarò) sono state oggetto di numerose riflessioni fra i commentatori. La prima domanda di Mosheh è però mì anokhi – chi sono io? A livello superficiale la domanda di Mosheh appare semplice: chi sono io per essere degno di una missione tanto grande? Come farò ad avere successo? H. risponde solo parzialmente, riuscirai perché sarò con te. Non sarai solo, ne’ ti chiedo di esserlo. Sarai il Mio rappresentante, il Mio emissario, la Mia voce. H. però non rispose mai alla domanda di Mosheh, ma forse Mosheh si rispose da solo.
Paradossalmente, nel Tanakh i personaggi che si rivelano più degni sono quelli che negano di esserlo. Basti pensare ai profeti Yesha’iahu, Yermiahu, Yonah. Secondo il Rashbam, Ya’aqov stava fuggendo quando l’angelo con il qual fu costretto a battersi gli sbarrò la strada. Gli eroi biblici sono molto differenti da quelli greci, dotati di un senso del destino, determinato già dalla più tenera età. Non hanno quella che i greci chiamano megalopsychia, l’autopercezione del proprio valore. Non erano stati formati per comandare. Misero sempre in dubbio le proprie abilità, tanto da sembrare spesso voler rinunciare. Alcuni di loro hanno raggiunto un livello di disperazione tale da chiedere di morire, divenendo campioni di moralità contro la loro volontà. Chi sono io non è però solo una domanda nel merito.
Può essere anche un quesito sull’identità. Mosheh quando pone questa domanda non sta solo interrogando D., ma sta chiedendo anche a se stesso. Ci sono almeno due possibili risposte: a) Mosheh è un egiziano, un principe d’Egitto, adottato dalla figlia del Faraone. Quando salvò le figlie di Ytrò, queste non mostrarono alcun tentennamento nel dire che Mosheh è un egiziano – e come potrebbe essere altrimenti? – era vestito come un egiziano, parlava come un egiziano, aveva un nome egiziano (il primo significato di Mosheh è infatti figlio in egiziano); b) La seconda risposta possibile è che Mosheh è un midianita. Ben presto Mosheh fu costretto a lasciare la casa del Faraone, sposò una midianita e viveva tranquillamente come pastore. Spesso siamo portati a dimenticare il fatto che Mosheh trascorse gran parte della sua vita in Midian, lontano dagli ebrei e dagli egiziani.
Quando iniziò la propria missione era già ottantenne. Quando Mosheh chiede chi sono non vuole solo mostrarsi indegno. Era ebreo di nascita, ma non aveva patito le sofferenze del suo popolo. Non era cresciuto come un ebreo. Non aveva vissuto con gli ebrei. Aveva tutti i motivi per dubitare che gli ebrei lo avrebbero riconosciuto come uno di loro, e tanto meno come il loro leader. Non condivideva il loro destino e i loro patimenti. Quando aveva provato ad intromettersi i risultati non furono di certo incoraggianti: uccise un egiziano e i due ebrei che litigavano non accolsero il suo intervento. Le prime parole che furono rivolte da un ebreo a Moseh sono emblematiche: Chi t’ha costituito signore e giudice su di noi? Mosheh non si sognava lontanamente di essere un leader, e già era stato liquidato. Se non fosse intervenuto, Moseh avrebbe potuto condurre un’esistenza tranquilla, vivendo nel lusso nel palazzo reale.
Anche in Midian avrebbe potuto starsene tranquillo con la sua famiglia. Era naturale che Mosheh si opponesse alla chiamata divina. Perché allora ha accettato? Un indizio si trova nel nome del suo primo figlio, Ghereshom, “sono divenuto pellegrino in una terra straniera”. Midian non era casa sua. Era lì, ma non la mente non era lì. Ma la chiave la troviamo ancora prima: quando Mosheh crebbe, dice la Torah, andò a vedere i suoi fratelli e le loro gravezze. Quella, sebbene non condividesse nulla con loro, era la sua gente, e non poteva permettersi di abbandonarla. Rav Soloveitchik lo ha chiamato un patto di destino, che ancora oggi è un elemento fondamentale dell’identità ebraica. Ci sono ebrei credenti e non credenti, praticanti e non, ma pochi, quando vedono il proprio popolo soffrire, girano la faccia dicendo “non è affar mio”. Il disinteresse è una colpa molto grave, che Rambam definisce “poresh midarkè ha-tzibbur – separarsi dalla comunità”, uno dei peccati che precludono l’accesso alla vita futura. Nella haggadah il figlio malvagio si dice che “poiché si è escluso dalla collettività ha negato un principio fondamentale della fede”. Quale principio? Quello di aver fede nel destino collettivo del popolo ebraico. Chi sono? Vedendo il popolo ebraico soffrire, la risposta non può che essere Mosheh l’ebreo.