“Veelle Shemòt bené Israel ha baim mitzraima – E questi sono i nomi dei figli di Israele che giungono in Egitto” (Shemòt 1;1)
Con questa parashà inizia il secondo libro della Torà che, secondo l’interpretazione di alcuni Maestri è chiamato “Sefer ha gheullà – Libro della Redenzione”.
In esso, infatti, si narra di tutti gli episodi che riguardano la liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana, dopo quattrocento anni.
Rashì si chiede il motivo per cui la Torà, torni nuovamente a ricordare i nomi dei figli di Giacobbe – Israel scesi in Egitto, visto che erano stati già ricordati precedentemente.
La risposta è che, come la Torà li ricorda da vivi nel libro di Bereshit, così sono ricordati anche da morti nella parashà di Shemot.
Una cosa è però spiegata da altri esegeti, i quali sostengono che, uno dei meriti dei figli di Israele che li condusse alla liberazione, fu quello dei nomi, ossia il mantenere le tradizioni antiche legate alla famiglia abramitica e ai suoi discendenti.
Mantenere nella memoria il nome ebraico di un genitore, dandolo al proprio figlio, coincide con il proseguire l’insegnamento ricevuto dai nostri padri mantenendolo nel presente e proiettandolo nel futuro.
I padri, i figli e i nipoti garantiscono il mantenimento della nostra vita e della nostra identità.
“Chut meshullash lo bimherà innateq – un filo legato a tre non si scoglie facilmente”. (Qohelet 4;12)
È per questo che i figli di Israele schiavi, meritarono la libertà e in seguito la Torà.
Shabbat Shalom