Tratto da “Shabbath – A cura di Augusto Segre”, Ucei 1972
Jacob Fichman
In un piccolo villaggio, lontano da ogni agglomeramento, viveva un povero ebreo, familiarmente chiamato Lippa il sarto. Lippa era un uomo semplice, appena capace di sillabare i caratteri ebraici del suo libro di preghiere e sempre attivo al lavoro. Aveva l’abitudine di fare il giro dei borghi vicini nei sei giorni della settimana, cucendo rafforzando gli abiti degli agricoltori. Non rifiutava nessun lavoro dato che non voleva dover niente a nessuno. E’ facile immaginare le fatiche della settimana, quando doveva andare di villaggio in villaggio e di casa in casa. Ma al sesto giorno, la vigilia di Shabbath, per nessuna cosa al mondo Lippa continuava il suo lavoro.
S’affrettava verso casa. Non lo fermavano né il vento né la tempesta. Non avrebbe trascurato nulla per passare la santa sera di Shabbath con la moglie Nechamà e i suoi nipotini, recitare il Kiddush e cantare gli inni di Shabbath, secondo la tradizione. Non vi era comandamento che Lippi rispettasse di più e al quale fosse più ligio che quello di rispettare e osservare lo Shabbath. E Lippa credeva che forse perché rispettava lo Shabbath che l’Altissimo, benedetto Egli sia, gli concedeva il suo pane quotidiano. Lippa voleva rispettare questo comandamento tutta la vita. In nessun altro modo un umile Ebreo, un povero sarto di villaggio, poteva giustificare la sua vita e servire il Signore!
Era quindi abitudine di Lippa alzarsi alla mezzanotte del sesto giorno della settimana e finire il lavoro con il levar deal sole, per poter giungere a casa quando brillava ancora il sole sulle coline. Mentre si affrettava per finire il lavoro, sentiva svanire tutte le preoccupazioni della settimana, e il cuore riempirsi di allegrezza in questa santa giornata, specialmente durante la bella stagione, quando i campi erano verdi, gli alberi colmi di vita ronzante e le cavallette stridevano nell’erba tenera. Lippa allora camminava come in sogno e non sentiva il peso dello zaino pieno delle benedizioni del villaggio.
Anche durante la stagione piovosa, quando le strade erano trasformate dal fango, il cielo basso e pesante, i campi tristi e vuoti, Lippa aveva il cuore leggero e non sì abbandonava alla malinconia. Quando pensava a sua moglie Nechamà che già stava scoperchiando il piatto caldo dello Shabbath, lavando e vestendo i bambini; quando pensava alla sua casa pulita e linda da per tutto, sentiva un’ondata calda percorrergli le vene; le gambe si alleggerivano e parevano andare da sole. Tanto grande è la potenza dello Shabbath, tanto grande il piacere procurato dall’osservanza di un precetto divino.
Così trascorreva la vita di Lippa e la benedizione del Signore aleggiava sull’umile capanna. I giorni della settimana erano più o meno faticosi, ma quando veniva Shabbath, la piccola capanna si mutava in un bellissimo palazzo e l’Angelo buono dello Shabbath che precedeva Lippa di ritorno dalla sinagoga, guardava attorno e si rallegrava: il santo giorno di Shabbath non è completamente scomparso dalla terra, indugiava ancora nella capanna di questo umile uomo.
Una volta, durante la stagione piovosa, quando le notti erano lunghe e il freddo rinserrava la terra nel suo abbraccio ghiacciato, Lippa si alzò al sesto giorno come era sua abitudine, e si mise rapidamente al lavoro. Si sbrigava e l’ago correva nella stoffa. Una debole candela lo rischiarava. Lippa canticchiava a bassa voce una melodia che aveva appena imparato alla sinagoga. Il tempo scorreva veloce e Lippa non si accorgeva che aveva cucito tutta la notte senza quasi fermarsi, ed era tanto freddo che si sarebbe fatto peccato perfino a mettere un cane fuori di casa. Contento d’aver portato tanto avanti il suo lavoro, incominciò i preparativi per la partenza.
Le nuvole si accumulavano in cielo e una profonda oscurità copriva tutto, tanto che era ormai impossibile discernere un oggetto ad un metro di distanza. Il vento strappava i tetti di paglia delle stalle, la neve s’accumulava davanti alle case, barricando le porte.
Quando il fattore, che era un non ebreo, vide Lippa pronto per partire, esclamò esterrefatto: «Ma dove volete andare brav’uomo? Chi lascia la casa proprio adesso, quando tutte le strade sono pericolose e gli spiriti maligni errano nei campi?».
Lippa rispose che non poteva trattenersi oltre. Doveva essere a casa presto per il sabato, e non temeva gli spiriti maligni. Aveva, aggiunse, un Dio grande e misericordioso che avrebbe pensato a condurlo a casa sano e salvo da sua moglie e dai figli. E nel suo cuore Lippa pensava che la santità dello Shabbath ancora una volta lo avrebbe protetto.
Sacco in spalla, Lippa si era avviato. Con il suo bastone a punta ferrata tastava il terreno, saggiando lo spessore della neve per non cadere in un fossato. Ma come avrebbe potuto trovare il cammino, quando la neve trasformava i contorni del paesaggio, in modo tale che era impossibile distinguere tra siepi e alberi, tra discese e salite, cancellando ogni traccia di vita? La terra e il cielo si congiungevano e un bianco velano ricopriva tutta la superficie del terreno. Un vento glaciale gli soffiava sul viso, lo pungeva con mille aghi taglienti e faceva lacrimare i suoi occhi.
Lippa però non si scoraggiava e proseguiva fiducioso la sua strada. Di quando in quando scivolava in una buca profonda, e si storceva dolorosamente un muscolo, ma subito si rialzava, lo spirito sereno, e si rimetteva in cammino fermamente convinto che Dio era con lui e l’avrebbe condotto sano e salvo da sua moglie.
Ma le difficoltà aumentavano sempre più. I suoi piedi persero la via negli alti cumuli di neve che bloccavano la via, e il vento lo fustigava crudelmente. Lippa raccolse le sue forze e si trascinò al limite della foresta. Qui giunto, si fermò incerto un istante. Se, Dio guardi, si era smarrito, non avrebbe mal più ritrovato il sentiero. La foresta si stendeva per chilometri ed era piena di bestie feroci e di ladri, più pericolosi delle bestie feroci. Chi sapeva quanti erano caduti nelle loro mani? Mai si erano trovati i loro corpi!
Lippa avanzava cautamente. Camminò a lungo tentando di scoprire una pista qualsiasi. Gli pareva talvolta d’aver raggiunto il limitare della foresta, faceva qualche passo e gli alberi si succedevano agli alberi, senza fine. Il vento si calmò, il cielo divenne ancora più basso, la notte si avvicinava. Lippa sentiva cedere le forze, ma sapeva che se fosse caduto non si sarebbe rialzato mai più. Con un ultimo sforzo di volontà obbligò le gambe a spostarsi nella neve. Davanti a lui la foresta si ergeva come un muro ed egli camminava sempre diritto davanti a sé senza scorgere una pista.
«Dio del cielo, fa’ che possa celebrare il mio Shabbath. Ma io, Lippa il sarto, non saprei dirti come!».
E mentre pregava, Lippa sentì il cuore rinfrancarsi, come se ogni pericolo fosse scomparso. I muscoli si scaldarono; gli parve che il vento cadesse completamente e che la pace tornasse nel mondo. Lippa pensò che la sua preghiera era stata esaudita e attese per vedere cosa sarebbe successo.
Quando ebbe finito di pregare, alzò gli occhi e vide una luce brillare fra gli alberi. Donde veniva quella luce? La foresta era inabitata. Lippa intuì che stava avvenendo un fatto straordinario. Appoggiò lo zaino ad un albero e si avvicinò al luogo illuminato.
Fece qualche passo e vide uno stupendo palazzo dai muri d’avorio, dalle finestre illuminate dalle candele di Shabbath. Si guardò attorno in tutte le direzioni, ma il paesaggio era vuoto; nessuna traccia di vita, da nessuna parte.
Per un istante Lippa credette di sognare e si strofinò gli occhi guardò nuovamente e vide che il palazzo era realtà; una abitazione magnifica di cui non aveva mai vista l’eguale. Per un istante pensò fosse la dimora dei ladri o degli spiriti maligni… Ma il luccicore delle candele era chiaro e puro. Avrebbe giurato che erano uguali a quelle che bruciavano nella Casa dello Studio… Gli occhi di Lippa rimasero fissi alle candele che gli parve facessero affettuosamente segno di avvicinarsi, invitandolo ad entrare: «Vieni, Lippa! Tutto qui è predisposto perché tu possa celebrare Shabbath!». Lippa prese il coraggio a due mani ed entrò nel palazzo.
Lippa il sarto, si trovò davanti ad uno spettacolo senza pari. La sala era completamente illuminata dalle fiamme delle candele. Soavi profumi sollecitarono le sue narici. Una tavola scintillante di cristalli pareva attendere gli invitati. Vini dai rari colori riempivano i bicchieri. Lippa si guardò in giro per ringraziare il suo ospite, ma nella sala non vi era traccia di vita umana. Si avvicinò alla porta ed entrò nella seconda sala. Anche qui una tavola ornata di vasellame d’argento nella quale erano imbanditi piatti succulenti e squisiti. Pure nessuna traccia di vita umana.
Penetrò nella terza sala e anche qui i mobili erano di inestimabile valore. Seggiole d’oro erano poste intorno a tavole pure d’oro, sulle quali scintillava un vasellame smagliante. Ma pur sempre non un’anima viva.
Lippa percorse così parecchie sale, che lo riempirono di meraviglia. Giunse infine alla sesta sala nella quale si trovavano riunite tutte le delizie dell’universo. I muri erano ornati di pietre preziose e diamanti. Si fermò, ancorato sul posto e le sue labbra si socchiusero per una azione di grazia: «Padrone dell’Universo, mormorò sono proprio io, Lippa il sarto, cui è permesso d’assistere ad un simile miracolo?».
A questo punto giunse al suo orecchio un canto gioioso che si sgranava come una sorgente d’acqua viva.
Quel canto inondò Lippa di una gioia miracolosa. Mai nella sua vita una melodia l’aveva tanto commosso. Eppure non egli era completamente sconosciuta. Avrebbe giurato che l’aveva già intesa nella Casa dello Studio, ma ora era tanto più dolce! Tentò di distinguere le parole. Si, erano proprio le parole ben note:
«Venite, preghiamo gioiosamente Dio, cantiamo la nostra allegrezza alla Rocca della nostra Salute!».
Quando Lippa comprese, senza ombra di dubbio, che quella che ascoltava era proprio la preghiera con la quale si accoglie Shabbath, si rassicurò e lodò il Signore che aveva permesso questo miracolo, proprio per lui. Assorto nelle parole d’allegrezza che ripeteva dolcemente, non vide socchiudersi una porta, lasciando passare un vegliardo, tutto rivestito di bianco, che si avvicinò tendendogli un libro di preghiere, e invitandolo con un gesto a seguirlo.
Giunsero alla settima sala. Lì, Lippa vide un’assemblea di anziani, tutti vestiti di bianco, e avevano sui visi il riflesso della Presenza Divina. In piedi, cantavano in onore della Regina Shabbath. Lippa disse in cuor suo: «Mi trovo certamente nel Giardino dell’Eden, nella residenza dei giusti e dei Signori dell’universo».
Meravigliato e confuso Lippa rimase impietrito sul posto: «Padrone dell’Universo, mormorò, che faccio io, il sarto, qui in cotesta compagnia?». E rimase fino alla fine della preghiera. Quando i vegliardi ebbero finito il loro canto, vennero verso di lui e dissero cordialmente: «Shabbàth Shalòm, ospite!». Gli parlarono amichevolmente e l’invitarono alla tavola già imbandita, dove si sedettero per il pasto della sera. E’ facile immaginare lo splendore di questa festa e la dolcezza dei canti di Shabbath! I vegliardi avevano fatto sedere Lippa al posto d’onore. Egli non osava mangiare, non poteva dimenticare la sua pochezza e dove si trovava. Ma lo sollecitavano a mangiare dicendo: «Via, Lippa, siate allegro! Tutto ciò che si trova qui è stato preparato per voi, perché possiate degnamente celebrare lo Shabbath. Possano tutti quelli che amiamo festeggiare Shahbath allo stesso modo!».
Ma gli doleva il cuore pensando a sua moglie Nechamà e ai ragazzi il cui Shabbath era rovinato e, seduto nel Giardino dell’Eden, pensava dispiaciuto a loro.
***
Il sabato sera, immediatamente dopo la Havdalà, il palazzo e tutto quello che conteneva disparvero in un lampo. Lippa alzò gli occhi e vide che si trovava ai piedi dell’albero, sotto il quale la sera prima aveva detto la preghiera del sabato sera. Lo zaino era al suo posto ed il bastone affondato nella neve. Fece qualche passo nella direzione del palazzo e della foresta ormai sprofondati. E si trovò vicino alla città, poco lontano dalla sua casetta.
Rientrato a casa Lippa, che aveva fatto voto di silenzio, non disse a persona viva dove e come avesse passato il giorno di Shabbath. Lo Shabbath seguente, sua moglie, presentandogli il piatto di pesce farcito, disse:
«Mangia questo pesce. Ha davvero il sapore di una pietanza preparata nel Giardino dell’Eden…».
«Che tu sia benedetta, mia Nechamà! Da tanto tempo so che il tuo pasto di Shabbath ha il sapore di quelli che si servono nel Giardino dell’Eden…».
E nessuno comprese quello che voleva dire.
(Da «Solennità e Ricorrenze» Ed. L’Eco dell’Educazione ebraica Numero speciale – Milano 1963)