Isaac Bashevis Singer
Si alzò e uscì dalla stanza. Dopo un attimo tornò con uno stipetto in miniatura, fatto di legno scuro, un oggetto di antiquariato con due sportelli in rilievo. Lo aprì e ne estrasse un libro con la copertina di legno, che posò davanti a me. Era un manoscritto ebraico scritto nei caratteri Rashì.
Quando una delle redattrici della mia casa editrice americana seppe che avrei fatto tappa a Lisbona durante il mio viaggio in Francia, mi disse: “Le darò il numero di telefono di Miguel de Albeira. Se avrà bisogno di qualcosa, sarà felice di aiutarla”. Pareva che avesse qualcosa a che fare con una casa editrice o con una tipografia. Ma non pensai mai che avrei potuto avere bisogno di aiuto. Avevo tutto quello che mi serviva per il viaggio: passaporto, traveler’s check, prenotazione all’albergo.
Nondimeno, la redattrice mi scrisse il suo nome e numero di telefono nel taccuino degli indirizzi, che era già zeppo di molti altri che non ero più in grado di identificare.
Un martedì sera all’inizio di giugno la mia nave attraccò a Lisbona e un taxi mi portò all’Hotel Apollo. L’atrio era pieno di miei compatrioti di New York e Brooklyn. Le mogli, con i loro capelli tinti e i volti pesantemente truccati, fumavano sigarette, giocavano a carte, ridevano e chiaccheravano tutte assieme. Le figlie, in minigonna, formavano gruppi separati. Gli uomini studiavano le pagine finanziarie dell’ International Herald Tribune. Sì, questo è il mio popolo, dissi a me stesso. Se il Messia deve arrivare, dovrà arrivare per loro, dal momento che non ce ne sono altri.
Un piccolo ascensore mi portò nella mia camera all’ultimo piano, che era grande, con pochi mobili, scarsamente illuminata, e aveva un pavimento di pietra e un letto antiquato con una testiera alta, preziosamente scolpita. Aprii la finestra e vidi tetti di tegole e una luna rossa. Che strano…nelle vicinanze c’era un gallo che cantava. Dio sa quanto tempo era che non sentivo un gallo cantare. Il suo chicchirichì mi ricordava che ero di nuovo in Europa, dove il vecchio coesiste con il nuovo. Alla finestra aperta mi rinfrescavo a un’arietta il cui aroma avevo dimenticato negli anni passati in America. Sentiva della freschezza dei campi. Aveva l’odore di Varsavia, di Bilgoray e di qualcosa di indefinibile. Il silenzio pareva emettere un suono squillante, ma era difficile dire se arrivasse dall’esterno o da dentro le mie orecchie. Mi pareva di sentire gracchiare di rane e un frinire di grilli.
Avrei voluto leggere, ma non c’era abbastanza luce. Feci il bagno in una vasca lunga e profonda. Mi asciugai in un accappatoio grande come un lenzuolo. Sebbene la targhetta appesa alla porta affermasse che quello era un albergo di prima categoria, tuttavia ai clienti non veniva fornito il sapone. Spensi la lampada e mi sdraiai sul letto. Il cuscino era alto e troppo imbottito. Sopra la finestra aperta si libravano le stesse stelle che avevo abbandonato trentacinque anni prima, quando ero arrivato a New York. Pensavo agli innumerevoli ospiti che avevano abitato in quell’albergo prima di me, agli uomini e alle donne che avevano dormito in quel grande letto, molti dei quali ormai erano probabilmente morti. Chissà, forse i loro spiriti o residui del loro essere indugiavano ancora in quella camera. In bagno le tubature gorgogliavano. Il grande armadio scricchiolava. Una zanzara solitaria ronzava, rifiutandosi di dormire finché non avessi versato una goccia di sangue. Me ne stavo sdraiato sveglio, come in attesa di un’amante morta.
Verso le due mi addormentai e al mattino venni svegliato dal canto dello stesso gallo (me ne ricordavo il timbro) e dalle grida provenienti da un mercato all’aperto. Molto probabilmente vendevano verdura, polli, frutta. Riconoscevo le grida: allo stesso modo si contrattava e discuteva ai miei tempi nel bazar di Yanash e nelle Halles di piazza Mirowski. Mi pareva di sentire odore di sterco di cavallo, di patate novelle, di mele acerbe.
Sarei dovuto rimanere in quell’albergo fino a domenica, ma appresi che la mia agenzia di viaggi di New York aveva prenotato la camera solo per due giorni. C’erano in arrivo molti americani. Il portiere mi informò che avrei dovuto lasciare libera la camera entro venerdì a mezzogiorno.
Gli chiesi di trovarmi una camera in un altro albergo, ma sostenne che a quanto gli risultava tutti gli alberghi di Lisbona erano pieni. Aveva già cercato delle camere per altri clienti, ma senza risultato. L’atrio era ingombro di bagagli e pervaso da un ronzio misto di americano, italiano, tedesco che proveniva separatamente dai diversi gruppi di turisti. Non riuscii a trovare un tavolo al ristorante. Nessuno sapeva cosa farsene di me e dei miei traveler’s check. Gli impiegati mi guardavano con fredda indifferenza: per quello che importava loro, potevo dormire per strada.
A quel punto mi ricordai che la redattrice mi aveva scritto un nome nel taccuino degli indirizzi. Lo cercai per una buona mezz’ora senza riuscire a trovarlo. Se n’era volato via dalla pagina per magia, oppure la redattrice non ve lo aveva veramente scritto? Finalmente lo scoprii proprio sul margine della prima pagina. Salii in camera, sollevai la cornetta e attesi diversi minuti prima che il centralino mi rispondesse. Mi fu passata la comunicazione, ma era un numero sbagliato. Qualcuno mi rimbottò in portoghese e io mi scusai in inglese. Dopo diversi collegamenti sbagliati, finalmente mi passarono il numero giusto. Una donna tentò faticosamente di farmi capire qualcosa sillabando in portoghese. Poi in un inglese scorretto mi diede il numero al quale avrei potuto trovare il Señor Miguel de Albeira. Altra serie di numeri sbagliati. Ero inferocito con un’Europa che non conservava il vecchio e contemporaneamente non capiva il nuovo. Si risvegliò in me il mio patriottismo di americano e giurai che avrei speso ogni centesimo che guadagnavo all’interno dei confini degli Stati Uniti d’America. Per intanto dovevo mettermi in contatto con Miguel de Albeira. Pregai Dio di farmi avere un risultato positivo; come sempre, quando mi trovo nei guai, feci il voto di dare del denaro alle mie opere di carità preferite.
Ebbi il numero. Il Señor de Albeira parlava un inglese che riuscivo a malapena a capire. Mi disse che la redattrice gli aveva scritto e si dichiarò disposto a venire subito da me. Ero pieno di gratitudine per la Provvidenza, la redattrice e il portoghese Miguel de Albeira, che in pieno giorno piantava in asso i suoi affari per venire ad assistermi solo perché aveva ricevuto una lettera di raccomandazione. Una cosa del genere era possibile solo in Europa. Nessun americano, me compreso, l’avrebbe fatta.
Non dovetti aspettare molto. Bussarono alla porta. L’uomo che entrò dimostrava poco più di quarant’anni, era di costituzione gracile, scarno, scuro di pelle, con la fronte alta e le guance incavate. Per un po’ in lui non notai niente di particolare. Avrebbe potuto essere spagnolo, italiano, francese o greco. I suoi denti erano storti e avevano bisogno di essere curati. Indossava un vestito grigio ordinario e una di quelle cravatte che si possono vedere nelle vetrine di dozzine di città. Mi tese la mano e la premette leggermente contro la mia, al modo degli europei. Quando seppe della camera, disse: “Non si preoccupi. A Lisbona ci sono moltissime camere libere. Se la situazione fosse peggiore di quello che credo, la porterò a casa mia. Adesso andiamo a pranzo insieme”.
“La invito io”.
“Mi invita lei? A Lisbona l’ospite sono io. Lei mi inviterà a New York.”
Di fronte all’albergo entrammo in una di quelle auto piccole e sgangherate che costituiscono il mezzo di trasporto della maggior parte degli europei. Sul sedile posteriore, in mezzo a scatole di cartone e giornali scoloriti c’era un barattolo di vernice. Presi posto al fianco del mio ospite e il Señor Miguel de Albeira dimostrò una grande abilità nel manovrare la sua piccola auto in un traffico disordinato, per di più aggravato dall’assenza di semafori nelle strade strette e in saliscendi, in mezzo a case che probabilmente erano state costruite prima del terremoto del 1755. Le altre auto si rifiutavano di cederci il passo. I pedoni non avevano fretta di togliersi di mezzo. Qua e là c’era un cane o un gatto che facevano la siesta in mezzo alla strada. Il Señor de Albeira usava raramente le trombe e non manifestava mai irritazione. Mentre guidava mi chiese notizie del mio viaggio e dei miei programmi, quando e come ero diventato vegetariano, se mangiavo uova o latte. Mi indicava monumenti, vecchi edifici e chiese del quartiere dell’Alfama. Ci introducemmo in un vicolo, largo a malapena quanto bastava a far passare un’auto. Donne scarmigliate e vecchi stavano seduti davanti a porte aperte; bambini trascurati giocavano nei canali di scolo. Dei piccioni becchettavano una crosta di pane lurida.
Il Señor de Albeira si infilò in un cortile. Lo seguii in quella che sembrava una trattoria di terz’ordine, invece entrammo in un’ampia sala da pranzo illuminata a giorno e con tavole apparecchiate elegantemente. Vi erano scaffali sui quali stavano allineati fiaschi di vino impagliati dalle forme grottesche. Il Señor de Albeira mostrava una preoccupazione per la mia dieta che mi appariva esagerata. Mi piacevano il formaggio, i funghi, il cavolo, i pomodori e che tipo di insalata, che vino, bianco o rosso? Continuavo a raccomandargli di non agitarsi troppo per me e per il mio cibo. A New York mi siedo su uno sgabello alto e pranzo in dieci minuti. Ma il Señor de Albeira non se ne diede per inteso. Ordinò un lauto pranzo e quando cercai di pagare mi dissero che era già stato provveduto.
Venerdì alle undici del mattino il Señor de Albeira arrivò all’albergo con la sua piccola auto, mi aiutò a caricare i bagagli e mi portò a un albergo più piccolo, le cui finestre davano su un parco. La mia camera aveva il balcone e costava meno della metà di quella che mi avevano dato all’Apollo. Rimasi sveglio buona parte della notte a cercare di capire perché un estraneo di Lisbona dimostrasse tanta gentilezza nei confronti di uno scrittore jiddish di New York.
No, il Señor de Albeira non aveva niente da guadagnare dalla mia visita a Lisbona. E’ vero che aveva rapporti con una casa editrice, ma le mie opere in portoghese dovevano essere pubblicate a Rio de Janeiro, non a Lisbona. La redattrice lo aveva conosciuto per caso e non aveva rapporti di lavoro con lui. Dalle domande che gli feci e da quello che riuscii a capire dalla conversazione, mi resi conto che era tutt’altro che ricco. Aveva due occupazioni, non bastandogli per vivere il lavoro editoriale. Abitava in una vecchia casa, aveva tre figli, e sua moglie insegnava in una scuola superiore. Aveva letto uno dei miei libri nella traduzione inglese, ma non poteva essere motivo sufficiente per la sua generosità. Affermò che aveva spesso rapporti con scrittori e non ne aveva un’opinione particolarmente buona.
Quel sabato avevo intenzione di fare un giro turistico guidato in autobus. Ma il Señor de Albeira pretese di farmi lui da guida. Venne al mio albergo al mattino e mi portò in giro per molte ore. Mi mostrò castelli in rovina, chiese antiche, parchi con vecchi alberi. Mi citava i nomi dei fiori e degli uccelli esotici. Mostrò una notevole erudizione nel raccontarmi la storia del Portogallo e della Spagna. Di quando in quando mi faceva delle domande: Qual è la differenza tra lo jiddish e l’ebraico? Perché non mi ero stabilito in Israele? A quanto pareva il mio ebraismo lo interessava. Appartenevo a una sinagoga? Il mio vegetarianesimo aveva qualche legame con la religione? Non mi era facile precisare esattamente il mio ebraismo al Señor de Albeira. Nel momento in cui rispondevo a una delle sue domande, se ne veniva fuori con un’altra. Fare conversazione con lui era difficile poiché capivo a malapena il suo inglese, a dispetto della ricchezza del suo vocabolario. Mi aveva detto in precedenza che avrei cenato a casa sua e così avrei conosciuto la sua famiglia. Quando gli chiesi di fermarsi perché potessi comprare loro un regalo, il Señor de Albeira fece delle difficoltà. A Sintra riuscii a comprare due galli di bronzo, nonostante le sue proteste, e con questi regali arrivammo a casa sua alle sette.
Salimmo per scale strette e ripide in un edificio che probabilmente una volta era un palazzo, ma ora cadente. Una porta pesantemente scolpita si aprì facendo apparire una donna dalla pelle olivastra con addosso un vestito nero e con i capelli raccolti in una crocchia. In gioventù doveva essere stata una bellezza, ma di essa ormai rimanevano poche tracce. Le sue mani erano ruvide a causa dei lavori domestici, non era truccata e odorava di aglio e cipolla. L’abito le arrivava molto al di sotto delle ginocchia e aveva le maniche lunghe e lo scollo alto. Quando le porsi il regalo, arrossì come facevano le donne quando ero ancora un ragazzino. I suoi occhi neri manifestarono un imbarazzo e una modestia che non sapevo esistessero ancora. Assomigliava al mio primo amore, Esther, che non avevo mai osato baciare, e che era stata fucilata dai nazisti nel 1943.
Il Señor de Albeira mi presentò al resto della famiglia, una ragazza di diciotto anni, un ragazzo di un anno più giovane e un altro di tredici, tutti con la pelle olivastra e gli occhi scuri. Poco dopo, nel soggiorno entrò una ragazza bionda. Il Señor de Albeira mi disse che non era sua figlia. Ogni anno sua moglie prendeva in casa una ragazza povera di provincia, che veniva da Lisbona per studiare, come ai miei tempi si dava ospitalità ai ragazzi poveri che venivano a studiare alla yeshivà. Dio del cielo, in quel posto il tempo si era veramente fermato. I ragazzi se ne stavano incredibilmente tranquilli e mostravano quella sorta di rispetto per gli adulti nel quale anch’io ero stato educato. Il Señor de Albeira pareva essere il dominatore assoluto di quella casa. I figli correvano a eseguire il minimo ordine. La figlia mi portò un bacile di rame perché potessi lavarmi le mani.
Gli Albeira mi avevano preparato un pasto vegetariano. A quanto pareva erano convinti che il mio vegetarianesimo avesse qualche legame con le leggi dietetiche della mia religione. Sul tavolo vidi una forma di pane intrecciato, una caraffa di vino e un calice del tipo che mio padre usava per la benedizione. Lo shabbàth, che per anni non avevo osservato, tornava a me in una casa gentile di Lisbona.
Per tutto il tempo che rimanevo a tavola i ragazzi non parlarono mai. Se ne stavano seduti eretti e in silenzio, e sebbene non capissero l’inglese, ascoltavano con reverenza i nostri discorsi. Mi venne in mente un ammonimento di mia madre: I figli devono stare zitti quando parlano gli adulti. Le ragazze aiutavano la Señora de Albeira a servire in tavola. Miguel de Albeira continuava a interrogarmi sul mio ebraismo. In cosa differivano gli ashkenaziti dai sefarditi? Gli ebrei vengono scomunicati se tornano in Germania? Esistono degli israeliti cristiani? Ebbi la sensazione che il Señor de Albeira, attraverso me, stesse tentando di fare ammenda dei torti dell’Inquisizione, dei peccati di Torquemada e degli zeloti portoghesi. Traduceva in portoghese a sua moglie le mie risposte. Cominciai a sentirmi a disagio, come se stessi sfruttando o prendendo in giro quella gente, fingendo di essere un ebreo pio. Improvvisamente il Señor de Albeira posò un pugno sul tavolo e annunciò solennemente: “Io sono ebreo”.
“Oh.”
“La prego, aspetti un attimo.”
Si alzò e uscì dalla stanza. Dopo un attimo tornò con uno stipetto in miniatura, fatto di legno scuro, un oggetto di antiquariato con due sportelli in rilievo. Lo aprì e ne estrasse un libro con la copertina di legno, che posò davanti a me. Era un manoscritto ebraico scritto nei caratteri Rashì. Disse: “L’ha scritto uno dei miei antenati. Seicento anni fa”.
La compagnia divenne ancora più silenziosa. Presi a sfogliare le pagine con cura e, sebbene fossero scolorite, riuscii ancora a decifrare il testo. Dopo un po’ il Señor de Albeira mi portò una lente d’ingrandimento. Era un libro di responsa. Lessi di una moglie abbandonata, il cui marito era stato ritrovato in un fiume con il naso mangiato, e di un uomo che con un sotterfugio tentava di impegnare al matrimonio una servetta dandole una monetina, ma prima che riuscisse a recitare il “Sii tu consacrata a me secondo le leggi di Mosè e Israele”, la ragazza gettò via la moneta in atto di sfida.(1) Ogni parola, ogni frase di quella vecchia pergamena mi era familiare in tutti i suoi significati. Avevo studiato le medesime leggi in altri volumi. Qua e là notai persino alcuni errori fatti dallo scriba ignoto.
La famiglia mi guardava ed era in attesa del mio verdetto, come se stessi leggendo dei geroglifici o delle tavolette di argilla. Il Señor de Albeira chiese: “Lo capisce?”
“Temo di non essere capace di capire altro.”
“Scritto da uno dei miei antenati. Cosa dice?”
Cercai di spiegarglielo. Ascoltava, annuiva, spiegava le mie parole alla sua famiglia. Molto tempo dopo la loro scomparsa il Señor de Albeira manteneva le tradizioni dei marrani, quegli ebrei spagnoli e portoghesi che avevano formalmente accettato il cristianesimo, ma avevano continuato a praticare l’ebraismo in segreto. Aveva un legame personale con il Dio degli ebrei. Ora aveva invitato a casa sua un ebreo che conosceva ancora la lingua sacra ed era in grado di decifrare gli scritti del suo antenato. Per lui aveva preparato un pasto dello shabbàth. Sapevo che in altri tempi conservare in casa un libro del genere costituiva un grande pericolo; una sola riga in ebraico trovata in casa di una persona poteva condurla a morte. Nondimeno, quel vestigio del passato era stato conservato per secoli.
“Non siamo ebrei puri. Abbiamo alle spalle generazioni di cattolici. Ma la scintilla dell’ebraismo è rimasta in noi. Quando mi sposai, dissi a mia moglie delle mie origini, e quando i figli crebbero rivelai loro la nostra genealogia. Mia figlia vuole visitare Israele. Anche a me piacerebbe stabilirmi laggiù, ma cosa ci farei? Sono troppo vecchio per entrare -come li chiamate?- in un kibbutz. Ma mia figlia potrebbe sposare un ebreo.”
“Gli ebrei di Israele non sono tutti religiosi.”
“Come mai? Be’, capisco.”
“Gli uomini moderni sono scettici.”
“Naturalmente. Ma non darei via questo libro per nulla al mondo. Come va che tanti popoli sono scomparsi e gli ebrei sono sopravvissuti abbastanza a lungo da poter tornare alla loro terra? Non è una prova che la Bibbia è vera?”
“Per me, sì.”
“La guerra dei Sei giorni è stata un miracolo, assolutamente un miracolo. La mia casa editrice ha pubblicato un libro sull’argomento e si è venduto bene. A Lisbona abbiamo un po’ di ebrei profughi di Hitler e di altri posti. È stato qui un delegato di Israele. “
Un vecchio orologio con grosso pendolo battè le nove. Le ragazze si alzarono e sparecchiarono la tavola in silenzio. Uno dei ragazzi mi tese la mano e se ne andò. Il Señor de Albeira rimise il libro antico nello stipetto. Stava diventando buio, ma non avevano acceso la luce. Mi resi conto che lo facevano per me. Quell’uomo e sua moglie avevano probabilmente letto da qualche parte che di shabbàth non si deve accendere una luce finché non appaiono tre stelle. La stanza si riempì di ombre. Caddi in preda alla nostalgia nel buio dei miei vecchi shabbàth e mi venne in mente la preghiera di mia madre, “Dio di Abramo”.
Rimanemmo in silenzio a lungo. Nella penombra la donna appariva più giovane e assomigliava ancora di più a Esther. I suoi occhi neri guardavano fisso nei miei, con aria interrogativa e perplessa, come se anche lei avesse riconosciuto in me qualcuno che apparteneva al suo passato. Mio Dio, era Esther, la stessa figura, i capelli, la fronte, il naso, la gola. Un tremito si impadronì di me. Il mio vecchio amore si risvegliò. Esther era tornata! Solo allora capii perché avessi deciso di fermarmi in Portogallo e come mai il Señor de Albeira mi avesse accolto con tanto calore. Attraverso questa coppia, Esther aveva combinato un appuntamento con me.
Rimasi lì seduto sgomento, con l’umiltà di coloro cui la Provvidenza ha concesso favori particolari. Riuscivo a stento a trattenermi dal correre a lei, gettarmi in ginocchio, coprirla di baci. Mi resi conto che avevo a malapena sentito il suono della sua voce. In quel momento parlò, ed era la voce di Esther. Mi rivolse una domanda in portoghese, ma aveva il tono e il tremore dello jiddish di Esther. Mi parve di avere capito le sue parole prima ancora che mi venissero tradotte.
“Crede nella resurrezione dei morti?”
Sentii la mia voce che rispondeva: “Non son mai morti”.
(1) Secondo la legge ebraica l’impegno di matrimonio veniva stabilito mediante la consegna alla donna di un dono più o meno prezioso a seconda delle circostanze. In questo caso l’uomo aveva consegnato la monetina alla ragazza senza farle capire che lo considerava il pegno per le nozze. (N.d.T.)
Tradotto in inglese dall’autore e da Herbert R. Lottman – Racconto tratto da “Passioni” di Isaac Bashevis Singer – traduzione di Mario Biondi – Editore Longanesi & C.