Tratto da “Le Dieci Parole – Marc-Alain Ouaknin”, Paoline 2001
Quarto Comandamento: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è giorno di riposo per il Tetragramma, tuo Dio. Tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro le tue porte. Poiché in sei giorni Dio ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si è riposato…» (Es 20, 9-11).
Il quarto comandamento è evidentemente enunciato nel quadro di una società rurale che risale a più di tremila anni fa, tutta rivolta al lavoro nei campi. Ciò che sorprende nell’enumerazione delle usanze previste per lo shabbat è la presenza dello schiavo, di solito considerato meno del bestiame e condannato a lavorare ininterrottamente. A questo proposito bisogna ricordare che il comandamento è indirizzato a un popolo appena liberato dalla schiavitù in Egitto. Il Dio che vi si rivolge, è, per l’appunto, il suo liberatore.
La schiavitù, nella Bibbia, non è abolita, tuttavia numerose leggi regolamentano sia il lavoro che la condizione dello schiavo. Quest’ultimo ha diritto, come possiamo notare, al riposo settimanale. Altre leggi rammentano che egli non può essere schiavo a vita, anzi, al termine di sei anni di schiavitù, deve essere liberato e fornito dei mezzi di sussistenza. Nel caso non volesse essere liberato, lo sarà, comunque, definitivamente e in maniera inappellabile nell’anno del Giubileo, che cade ogni cinquant’anni.
Altre norme ancora prevedono l’annullamento delle cessioni e dei debiti. L’«economia sabbatica» indica, innanzi tutto, che niente è definitivo. E sempre possibile che una prova giunga alla fine, che si possa tornare indietro e ricominciare.
Anche la terra, durante l’anno sabbatico deve riposare per cui i contadini, ossia, per quel tempo, tutti gli uomini, si concedono una tregua dal lavoro. Tuttavia, anche il settimo anno è chiamato shabbat, come il settimo giorno, questo per ricordare che il contadino durante il riposo non deve oziare, ma studiare e riflettere. Del resto, il Deuteronomio (capitolo 31) prescrive che, alla fine dell’anno sabbatico, si tenga una lettura pubblica e solenne della Torah, per dimostrare che l’attività spirituale deve essere come il frutto e la giusta conclusione dell’anno stesso.
«Ricordati del tuo futuro!»
La prima parola che incontriamo nel quarto comandamento è zakhor. comunemente tradotta con «ricordati». Questa traduzione è inesatta. Infatti, in ebraico, il termine per «ricordati» è tizkor o zekhor. Ma, nel quarto comandamento è scritto zakhor. Questa piccola differenza è molto importante.
Secondo Rashì, infatti, il «ricordati» del comandamento è un paul, ovvero una forma grammaticale che sottolinea la continuità nell’azione. Non si tratta di un imperativo che ci rinvia a precisi eventi passati a partire dai quali sarebbe stato istituito lo shabbat. Con questo significato, Yosef Hayim Yerushalmj ha usato il termine zakhor nel suo libro intitolato: Zakhor Storia ebraica e memoria ebraica[1]. Secondo Rashì, bisognerebbe tradurre: «Sii o permani nel ricordo di shabbat!», «Ricorda costantemente lo shabbat!». Questo imperativo concerne il futuro, non il passato. Si tratta di ricordarsi dello shabbat che avverrà nel futuro. Come insegna Rabbi Nachaman di Breslav, «non c’è che il ricordo del mondo futuro». La traduzione migliore sarebbe, dunque: «ricordati del tuo futuro».
Vivere secondo un progetto
Ritroviamo, qui, il significato dell’etica di cui abbiamo già parlato: tendere verso il futuro, verso la realizzazione di un progetto; rifiutare l’assurdità del mondo. Siamo agli antipodi di un certo esistenzialismo. Non siamo «gettati nel mondo», nel non-senso e nella «cura», come sostiene Heidegger, né condannati alla «nausea», come il protagonista del romanzo di Sartre che reca questo titolo; né possiamo assumere le «soluzioni» di Camus davanti all’assurdo: la tentazione del suicidio, della rivolta per dare un senso alla vita, d’abbandonarsi alla facilità dell’esistenza e al nichilismo.
Lo shabbat i implica, al contrario, la dimensione dell’«avanti», del «davanti a me», della proiezione verso il futuro del mio essere, della forza interiore che ho dentro, del mio «laggiù» interiore.
«Il vivente» si dice in ebraico chai. L’espressione «il laggiù che è vivente» si dice sham chai ed è composta da quattro lettere che possono scrivere la parola Mashiah, «Messia». La possibilità che vi sia un al di là dal presente e da me stesso, questa dimensione, altro non è che quella del Messia, o di un tempo messianico. Come afferma ancora Rabbi Nachaman: «è proibito disperarsi», poiché c’è sempre, un p0′ più in là una porta che si aprirà sull’avvenire. «Ricordati dello shabbat!», è, dunque, un’ingiunzione a vivere messianicamente, a tendere verso il futuro. Esistere significa vivere attivamente e non appiattirsi sulla passività della facilità dell’essere.
«Scegli la vita», questo è il comando della Torah (nel capitolo 30 del Deuteronomio). Lo shabbat è il desiderio e la possibilità di costruirsi in vista del futuro, di entrare in una dinamica che sappia creare il senso della mia esistenza futura.
Chi è l’uomo santo?
Ricordarsi dello shabbat «per santificarlo», afferma il quarto comandamento: che cos’è, dunque, la santità e come rendere santo il giorno di shabbat?
L’uomo santo dà sia senso che direzione alla sua vita. Ma è anche chi è capace di offrire un senso e una direzione alla vita altrui. L’uomo santo non si ritrae dal mondo e dal contatto con gli uomini. Al contrario: nel cuore delle mille attività quotidiane, dove corre il rischio di perdere l’anima, il santo mantiene la rotta giusta consentendo agli altri di orientarsi. Chi si ritira dal mondo degli uomini per dedicarsi alla preghiera e alla meditazione raggiungerà, forse, la sommità della saggezza e della spiritualità, senza tuttavia giungere alla santità di cui parlano la Torah e i comandamenti.
Lo shabbat viene santificato perché è il tempo in cui ritroviamo il senso e la direzione della nostra vita e di quella altrui.
Siamo nell’ambito del senso da dare e da cercare per la vita comune, dunque, nel campo dell’etica. Santificare lo shabbat non richiede il ritirarsi dal mondo tipico del monaco, ma un’attività silenziosa o il riposo attivo di chi vuole vivere una vita significativa tra gli uomini.
Sul riposo di tutti!
Ma il quarto comandamento non si ferma qui: «Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è giorno di riposo per il Tetragramma, tuo Dio. Tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro le tue porte». E sorprendente, qui, come persino lo schiavo e lo straniero, che, del resto, vengono per abitare con gli ebrei, si debbano riposare. Ricordiamoci che all’epoca, non esisteva alcun diritto del lavoro, bensì la schiavitù e lo sfruttamento. Eppure, in una società antica «normale», tutti potevano smettere, di quando in quando, di lavorare, salvo lo schiavo, di cui si poteva disporre a piacimento, totalmente privato di ogni diritto. Il quarto comandamento rompe con questa regola antica: per costruire la società, occorre far riposare tutti!
Questa ragione «sociale» è accentuata, per così dire, da un’altra, più importante: «Poiché in sei giorni Dio ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si è riposato». Dio, il settimo giorno, non ha fatto nulla e, pertanto, ha creato il riposo, osservandolo Egli stesso. Dio non ha detto: «osservate il riposo!», ma si è riposato Egli stesso. Questa è la singolare forza dello shabbat. Del resto, il testo lo sottolinea: «Perciò Dio ha benedetto il settimo giorno, lo shabbat e lo ha santificato». Dal punto di vista umano, un solo verbo, «ricordati», concerne lo shabbat. Per Dio, ve ne sono due: «benedire» e «santificare».
I giorni sposano altri giorni e shabbat, tutto solo…
Nella piccola enumerazione di tutti quelli che devono smettere di lavorare di shabbat, dobbiamo sottolineare che manca qualcuno: la donna! Quest’assenza non può essere ignorata, soprattutto perché la donna è molto presente nelle Dieci Parole. Se prendiamo il testo alla lettera è assolutamente assente.
Eppure, a un altro livello, quello della dialettica uomo/donna, che attraversa simbolicamente tutto il testo, ella è onnipresente.
Prima di tutto, secondo la tradizione, ogni giorno della settimana è «sposato» con un altro: la domenica con il lunedì, il martedì con il mercoledì, il giovedì con il venerdì… Lo shabbat, invece, è tutto solo.
Ma il Midrash afferma: «Lo shabbat è sposato con Israele». Con il termine Israele, bisogna intendere la comunità di uomini che accettano di essere costituiti da una legge che consente loro di andare aldilà di se stessi. Tra il tempo e l’uomo c’è come un’alleanza e, pertanto, un matrimonio, nel quale la donna rappresenta lo shabbat. Nel Midrash, le espressioni: «la regina dello shabbat» e «la regina shabbat» non designano, forse, la donna e questo giorno?
Di shabbat, tutta la liturgia nella sinagoga, ruota intorno a questa immagine. II venerdì sera, intoniamo un bellissimo canto intitolato Lekhah dodì, le cui parole sono:
Vieni, mio amato, incontro alla sposa, accogliamo il volto dello shabbat.
C’è una presenza femminile nel testo, ma anche una metamorfosi nell’ordine dei simboli: il tempo stesso diventa donna e la donna il futuro, «l’avvenire dell’uomo», come affermava Aragon. Se «ricordati dello shabbat» significa, prima di tutto, «ricordati del tuo futuro!» e, se shabbat è la donna, la sposa, si deve anche dire: «Ricordati del tuo avvenire che è donna!».
Lévinas afferma che noi abbiamo accesso al tempo solo a partire dall’alterità, da altri (autrui), fondamentalmente dall’alterità femminile. Nel libro intitolato Les bâtisseurs du temps, Abraham Heschel sostiene che il giudaismo, che non ha edificato cattedrali, ha costruito un «edificio del tempo». Ha strutturato il tempo per dargli un senso e un orientamento. In questa strutturazione, la donna gioca un ruolo fondamentale.
Lo shabbat, rinnovamento delle promesse matrimoniali
Nel libro della Genesi (1,31-2,1-4), si legge: «Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. E fu sera e fu mattina: sesto giorno». Così furono chiusi i sei giorni della creazione del cosmo: «Furono portati a termine il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Elohim nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò il settimo giorno da ogni suo lavoro. Elohim benedisse il settimo giorno e lo santificò, poiché Elohim si riposò in questo shabbat da ogni lavoro che egli creando aveva fatto». Facciamo attenzione all’espressione «portare a termine», che compare due volte: «Il cielo e la terra furono portati a termine…» e «Dio portò a termine…»
In ebraico, la radice del verbo «terminare» è klh, che si può tradurre anche con «sposare». Pertanto, secondo il Midrash, bisognerebbe leggere: «Questo fu il sesto giorno, e il cielo si è sposato con la terra», il mondo che sta in alto si è sposato con quello che sta in basso «e tutte le loro schiere». Nello stesso modo bisognerebbe leggere: «Elohim si sposò con il settimo giorno» e non: «portò a termine». Il settimo giorno, il tempo che è diventato moglie, si è sposato con Dio (cosa che non esclude il matrimonio tra lo shabbat e l’uomo!).
E’ dunque, in qualche modo, il contrario di «portare a termine»: si tratta di passare da un’esistenza passiva a una attiva. Il mondo non è, deve ancora schiudersi. Meglio, è scritto che Dio si riposa il settimo giorno da ogni lavoro che aveva avuto «da fare» (Gn 2,3). Che significa questo strano «da fare», dal momento che la creazione è terminata? Significa che mentre si ferma per «riprendere fiato», si può ripartire, andare avanti e costruire ancora.
Uno sguardo d’amore
La liturgia e il ritmo dello shabbat mettono in gioco il matrimonio tra l’uomo e la santità del tempo trasformato in moglie. L’abbiamo già affermato: il canto della sinagoga, il venerdì sera, evoca la sposa.
Qual è la differenza con la moglie? Succede che una volta sposato e con il passare del tempo, l’uomo dimentica, spesso, che ha ancora l’obbligo di sedurre sua moglie. Se la coppia diventa una cosa scontata, senza più alcuna seduzione, il rischio che essa non abbia futuro è notevole. Si tratta della vecchia idea secondo la quale il matrimonio uccide l’amore. Ma non è il matrimonio a uccidere l’amore, piuttosto lo sguardo abitudinario, incapace di rinnovamento.
E appunto il senso dello shabbat. Diciamo: «Ricordati del tuo futuro!», per esprimere il significato della parola zakhor. E dal momento che shabbat esprime anche la trasformazione del tempo in donna, bisognerebbe affermare: «Ricordati di tua moglie!». Fa’ in modo che la donna che ti vive accanto non diventi, tutto a un tratto, tua moglie, ma la tua sposa
Vieni, mio amato, incontro alla sposa,
accogliamo insieme il giorno di shabbat.
La moglie deve essere riconquistata come una sposa nei primi momenti d’amore.
Chiudere gli occhi per ritrovare la freschezza del mattino del mondo: le candele di shabbat
Di quando in quando, bisogna cancellare ciò che vediamo per abitudine, rendere invisibile quello che è visibile, onde ritrovare la freschezza dei mattini del mondo, la sorpresa dopo un lungo viaggio, lo stupore di un bimbo davanti alla luce di un sorriso materno. Bisogna chiudere gli occhi davanti alla luce perché essa diventi nuova.
Il bellissimo rito che accompagna l’inizio dello shabbat ci aiuta a capire tutto ciò. L’entrata nello shabbat inizia il venerdì sera, circa un’ora prima che cada la notte. Tutta la famiglia è pronta ad accogliere lo shabbat. La casa è pulita e ordinata, la tavola è apparecchiata; tutti hanno fatto la doccia, il bagno, si sono agghindati, indossando gli abiti da festa, come se dovessero recarsi a un concerto o all’opera. Spesso mi sono detto che la preparazione per accogliere lo shabbat è tanto bella quanto lo shabbat stesso…
Lo shabbat inizia nel momento in cui la padrona di casa, insieme alle figlie e talora con i figli, accende due candele poste nei magnifici candelieri che, spesso, la coppia riceve in dono in occasione del matrimonio.
Quando la donna accende le candele, si è ancora nel sesto giorno. Non potrebbe accenderle una volta caduta la notte, poiché, secondo la tradizione, di shabbat è proibito accendere il fuoco o la luce. Prima di impartire la benedizione sulle candele ella mette le mani davanti agli occhi per nascondere la luce. Dopo la benedizione, toglie le mani e, in quel momento appare una luce nuova.
La donna entra, pertanto, nella novità del settimo giorno e nella santità del tempo. Shabbat rappresenta la novità assoluta, luce che si manifesta come un fiore che sboccia.
Un albero di luce
Il termine «candelabro» è la parola utilizzata nelle lingue occidentali per designare la menorah, il candeliere a sette braccia che ardeva permanentemente nel cuore del Santuario, nel deserto e successivamente nel Tempio di Gerusalemme.
Il candelabro a sette braccia è come un albero di luce che fiorisce, con le sue sette candele e la forma di mandorlo. In Israele il mandorlo è il primo albero a fiorire. Annuncia la rinascita di un «tempo primario», di una primavera. Lo shabbat, in cui si accende il candelabro, rappresenta, dunque, una consacrazione del tempo, una «sagra di primavera», oseremmo dire, il tempo in cui il mondo si rinnova, in cui si guarda il mondo dischiudersi come se non l’avessimo mai visto. Il giorno di shabbat è il giorno del rinnovamento della nostra percezione delle cose, dell’apprendimento dei legami etici rinnovati tra gli uomini, un riapprendimento dell’amore e del dialogo.
Un frammento di tempo in uno scrigno di luce
La descrizione del candelabro d’oro puro che si trova nel libro dell’Esodo (capitolo 25) precisa in maniera quasi ossessiva la sua composizione: deve essere modellato in forma di albero che ha contemporaneamente boccioli, fiori e calici. «Il candelabro avrà quattro calici in forma di fiore di mandorlo, con i loro boccioli e i loro fiori». In base al commento di Rabbi Shimshon Raphael Hirsch questa presenza simultanea significa che se ci fossero solo dei fiori, sarebbe già fiorito; e se avesse solo boccioli, starebbe fiorendo. Tutte le fasi della fioritura sono necessarie per fare del candelabro un albero di luce, la luce celebrata a Chanukkah o festa delle luci.
La liturgia dello shabbat comincia con l’accensione di due candele e si conclude con la havdalah (separazione), una cerimonia durante la quale si accende solo una candela che deve avere almeno due stoppini intrecciati. Lo shabbat è un tempo immerso in uno scrigno di luce. Ma che cosa rappresentano queste due candele distinte che diventano una sola grazie ai due stoppini intrecciati? Evidentemente tutta la simbologia dell’amore e del suo apprendimento. Innanzi tutto è sottolineata la distanza, in cui i due sono estranei l’uno all’altra, successivamente la conquista e infine l’unione. Potremmo riassumere il significato dello shabbat affermando: uno scrigno di luce – per un tempo diventato donna – nella dialettica del visibile e invisibile.
Una pausa per rinnovare il mondo
La liturgia della luce, la vigilia di shabbat: si chiudono gli occhi con le mani per percepire meglio, successivamente la novità e la forza della luce. Il mondo è come rinnovato da uno sguardo nuovo.
Accade qualcosa di simile l’anno in cui gli schiavi sono liberati e l’anno del Giubileo, in cui la terra stessa è liberata dal momento che non la si coltiva. Sono queste pause, questi momenti di libertà, che rinnovano il mondo.
In ebraico la parola «libertà» contiene la radice h – f – sh, «cercare». Un uomo è libero se continua a cercare, se niente è dato per definitivamente acquisito, se non dice «io so». Shabbat è il giorno in cui l’uomo cancella ciò che crede di sapere, in cui abbandona quello che crede di avere.
I trentanove lavori proibiti
Di shabbat ogni lavoro è proibito. Ma come definire il lavoro? Cosa è permesso e cosa no? I maestri del Talmud hanno dedotto da un versetto della Torah che a essere proibito fu il lavoro compiuto per costruire il tabernacolo e successivamente per il servizio al Tempio. E’ come se fosse stato proibito costruire lo spazio per privilegiare il tempo…
Come intendere le interdizioni previste per shabbat? «Tu non farai…» è ripetuto più volte. Si tratta di una legge che limita? Ciò sarebbe in contraddizione con tutto quello che abbiamo detto della libertà e della gioia strettamente legate a shabbat. In realtà, le interdizioni, che possono apparire rigide e gravose, sono gesti di libertà. Sono leggi che rendono liberi grazie alla sospensione che impongono al fluire ininterrotto – oggi più che mai – del lavoro, delle abitudini, delle necessità. Il tempo che svanisce caratterizza la finitudine umana. Lo shabbat, invece, ci dice: potete fermare il tempo che passa, cessando di «fare».
La rigidità è vera: non prendere la macchina, non cucinare, non accendere il fuoco… Ma in ciò bisogna vedere un dono fatto all’uomo, un momento in cui il tempo si ferma affinché l’uomo possa riflettere. Altrimenti non prendiamo mai tempo per avere tempo.
In una delle sue poesie, Paul Celan ha espresso in maniera sublime l’idea del tempo che bisogna lasciare al tempo:
È tempo che si sappia!
E tempo che la pietra accetti di fiorire,
che l’affanno abbia un cuore che batte.
E tempo che sia tempo.
E tempo[2].
La pietra, materia inerte, dovrà fiorire, ci dice Celan…
Come non pensare al candelabro d’oro, che germoglia e fiorisce simultaneamente?
Il numero 7 libera al di là del visibile
Il simbolismo del numero 7 è legato alla santità e alla libertà, libertà grazie alla santità o santità grazie alla libertà. Per capire questo simbolismo, occorre tornare alla concezione del giuramento evocata trattando del terzo comandamento. Anche il giuramento è in relazione con il numero 7. «Giurare» significa «sottomettersi al numero 7». Rabbi Shimshon Raphael Hirsch commenta così: «La creazione del mondo, il cosmo visibile, è stata portata a termine in sei giorni, il settimo giorno è stato introdotto per ricordarsi dell’Unico del mondo (cioè, Dio), che nessuno ha mai visto, creatore e padrone del mondo visibile». Questa frase contiene, in ebraico, un gioco di parole: olam («mondo») contiene tre lettere con le quali si può scrivere anche: «ciò che svanisce dalla visione». Stupefacente paradosso: quello che si offre alla vista è nell’ordine del visibile, ma nello stesso tempo se ne sottrae.
Orbene, questo simbolismo è presente nel numero 7 della Bibbia. Ogni volta che c’è il numero «7» siamo all’interno del contesto di «sei e sette», i sei giorni della creazione e il settimo, cioè shabbat; sei anni di schiavitù e il settimo per la liberazione; sei anni di lavoro della terra e il settimo per farla riposare; sei luci sul candelabro orientate tutt’intorno alla settima candela…
Il numero «6» corrisponde al mondo visibile, al mondo creato e offerto agli occhi, il numero «7» all’invisibile, al «niente». Shabbat vigila su ciò che non si vede: è un tempo di libertà e di santità, un tempo per dare senso alla vita, per rientrare in sé, per aprirsi all’ignoto, per rinnovare il tempo. Il visibile non è tutto. Esiste un aldilà dal visibile, sia perché il visibile si rende invisibile (sono necessari uno sguardo nuovo e una nuova attenzione per vedere il visibile con occhi diversi), sia perché nel mondo c’è dell’invisibile: Dio, l’ambito dei sentimenti, la soggettività di ciascuno…
Il giuramento rientra, per sua natura, nell’ordine dell’invisibile: si tratta di un testimone a un processo, che «giura» che le cose si sono svolte come afferma, egli parla di avvenimenti che sono esistiti e ora non più. Se invece si fa un giuramento per promettere qualcosa, allora, siamo di fronte a un futuro che non c’è ancora. Passato diventato invisibile o futuro ancora invisibile: è la dimensione del numero 7…
Responsabili del futuro
Nel dono abituale, la reciprocità è quasi sempre presupposta. Lo testimonia questo aneddoto che si racconta in Israele: qualcuno dona una somma enorme allo Stato per una costruzione, ma non vuole che si faccia il suo nome. Quando la costruzione è terminata, fa un putiferio perché non è stata prevista una targa con su scritto: «Dono di un anonimo»… Persino nell’anonimato sentiva il bisogno di riconoscenza!
Lo shabbat esula da questo tipo di reciprocità. Esso è immerso nell’invisibile del tempo futuro: «Ricordati del tuo futuro!». Ricordarsi dell’invisibile significa ricordarsi di ciò che non abbiamo ancora visto, né vedremo mai, ma di cui siamo responsabili: Dio, il Messia, e le generazioni che verranno.
Il filosofo Hans Jonas, ha contribuito particolarmente a chiarire il concetto di «responsabilità verso il futuro», un futuro invisibile per definizione, ma che diventerà visibile per chi verrà dopo di noi. Hans Jonas ha formulato un nuovo imperativo categorico: «Agisci in maniera tale che possa esistere ancora un’umanità dopo di te quanto più a lungo possibile!»
Siamo oltre il rispetto dovuto a chi ci sta di fronte, nei confronti dell’altro che è presente davanti a noi. Siamo ben oltre «un’etica della prossimità»: ci si deve interessare a ciò che è più lontano, a quello dal quale non possiamo aspettarci alcuna reciprocità. Si tratta di perpetuare la storia umana, l’umanità futura che è fragile, peritura. Non è solo l’avvenire dell’uomo a essere in discussione, ma quello del pianeta, in cui sia possibile ancora la vita e piacevole il soggiornarvi.
Afferma Jonas: prima, bisognava proteggere l’uomo dalla natura. D’ora innanzi, si tratta di proteggere la natura dall’influenza pericolosa dell’uomo. Possiamo, ora, comprendere lo shabbat. «Non lavorerai», cioè: devi lasciare del lavoro per chi verrà dopo; o ancora: devi fare riposare la terra, non sfruttarla al di là del ragionevole e dell’utile… affinché le altre generazioni abbiano ancora di che produrre, lavorare, vendere. Lo shabbat è il vuoto, il posto lasciato agli altri.
Una legge universale
L’imperativo categorico di Hans Jonas significa che oggi l’esercizio della misura, della moderazione e della rinuncia è fondamentale perché vi sia un avvenire vivibile per le generazioni future. Questa filosofia potrebbe essere considerata come un eccellente commento allo shabbat o alla dimensione messianica del tempo: dei sei giorni del profano e del visibile e del settimo giorno dell’invisibile e della santità. La vigilanza e la responsabilità per il mondo di domani presuppongono un’etica e un dovere universale che non sono tratti specifici dell’ebraismo, ma, certamente, vediamo all’opera la dimensione universale delle Dieci Parole.
Andare oltre la strada già tracciata
Lo shabbat invita ad abbandonare l’abitudine, i percorsi già tracciati. In ebraico, «abitudine» si dice herguel, parola che proviene da reguel, «piede». L’abitudine rappresenta la strada su cui il piede mi conduce senza che la testa abbia bisogno di dirmi dove andare. In questo andare, il corpo funziona autonomamente, senza cervello. Ma si potrebbe dare una diversa interpretazione dell’abitudine partendo dalla lettera lamed, che ha uno statuto speciale nell’alfabeto ebraico. Contrariamente agli alfabeti occidentali, nei quali le lettere sono poggiate sulla linea, le lettere ebraiche sono attaccate alla linea. Orbene, nessuna delle ventidue lettere ebraiche oltrepassa la linea di scrittura, eccetto la lettera lamed. Questa lettera significa «andare al-di-là della scrittura», «andare al-di-là della strada tracciata», e pertanto la si può interpretare simbolicamente come la lettera che «va oltre l’abitudine».
Inoltre, lamed significa anche «insegnare», «studiare». La forma grafica della lettera indica in che senso la si deve comprendere: insegnare, studiare, vuol dire andare «al-di-là del versetto», per riprendere l’espressione di Emmanuel Lévinas, lasciare i percorsi troppo noti. Non è questo forse il significato del termine italiano «educare?» Parola che proviene dal latino ex-ducere, «portare fuori», «andare oltre la strada tracciata in anticipo».
Pertanto se facciamo una «lettura per esplosioni» del termine «abitudine» in ebraico, è possibile vedervi, letteralmente, una «uccisione del lamed». L’abitudine è, per l’appunto, la fine della capacità di andare al di là del versetto, di inventare e creare, dunque la fine o l’impossibilità della «poesia». Avremmo solo il pensiero raziocinante, privo di sorprese, saggio (la filosofia), e non il pensiero un p0′ folle della poesia (che potremmo definire: «follesofia»).
Che cosa rappresenta, dunque, lo shabbat rispetto ai sei giorni profani? E’ il luogo della santità che non sussiste nell’ordine dell’abitudine, bensì in quello dell’innovazione, in cui si agisce in base a un corretto rapporto tra pensiero e gesto. Durante questo santo giorno è possibile ricostruire i legami esistenti tra il mio modo d’agire e quello di pensare. Lo shabbat sospende le certezze, conduce oltre l’abitudine, la strada già tracciata e ben nota: vedo veramente ciò che vedo? Penso veramente ciò che penso? Un’affermazione di Rabbi Nachaman di Breslav è particolarmente illuminante a questo proposito: «Non chiedere mai la tua strada a qualcuno che la conosce, perché non potresti smarrirti».
Smarrirsi, ritrovare nuovamente la strada: ricordati del tuo futuro, della tua capacità di generare nuovamente, di percepire il mondo come quando è stato creato! Questo è il senso dello shabbat.
[1] Pratiche Editrice, Parma 1983.
[2] Corona, in Poesie, Mondadori, Milano 1998 (trad. di G. Bevilacqua), p.59.