Alan Naccache
Non avremmo mai immaginato un’accoglienza così calorosa. In qualità di Ufficio Giovani Nazionale avevamo deciso di organizzare uno dei nostri seminari presso il centro Shirat Ha-Yam di Ostia. Una scelta, inizialmente, presa senza troppe aspettative: un posto di mare, vicino Roma, con un tempio per fare le teffillot e una cucina kasher dove passare un weekend con dieci leader comunitari in erba. E invece proprio quella piccola Comunità in riva al mare è divenuta un elemento importante, fino a essere parte integrante del nostro percorso di formazione.
Sono arrivato venerdì. Era ora di pranzo. Le ore in cui è in piena attività il centro estivo. I bambini correvano, giocavano e imparavano, seguiti dagli educatori. Ho capito subito che c’era qualcosa di speciale.
A gestire questo posto c’era una kevutzà (un giovane staff ndr) formata da una decina di ragazzi. Indossavano una maglietta blu con il logo Shirat Ha-Ayam. Alcuni erano gli educatori del centro estivo. Poi c’era chi stava lavando i piatti del pranzo. Altri, invece, mi sono venuti incontro per accogliermi a braccia aperte. Ci siamo seduti sotto un gazebo e mi hanno servito da mangiare. Anche per chi arriva tardi è sempre pronto uno Schnitzel. Ho pensato: una kevutzà così affiatata non la vedevo dai tempi del Benè Akiva. E voi, che ora leggete, al contrario penserete: che c’è di strano? Non si è mai visto un gruppo di diciottenni gestire un centro estivo? Bene, i ragazzi con la maglietta blu non sono proprio dei ragazzini. Sono tutti adulti, professionisti, padri di famiglia, madri, nonni pronti a dare tutto in nome di un progetto.
Poi, alle 16, sono arrivati i partecipanti al nostro seminario di formazione di Community Management. È bastato poco, a me e agli altri formatori, Daniel Segre e Alex Licht, per capire che i contenuti del corso dovevano tenere in considerazione la splendida cornice che ci ospitava. Così, mezzora dopo, eravamo tutti seduti in cerchio con la kevutzà dalla maglietta blu per un’intervista conoscitiva. Come è nata questa folle idea? Come vi finanziate? Che attività avete già fatto? Quali sono le prospettive per il futuro? Dalle risposte abbiamo capito che avevamo davanti un gruppo di signori pieni di grinta ed entusiasmo, innamorati di un’idea e pronti a superare ogni difficoltà. Eccolo, il primo grande insegnamento di questa giornata. “Preferiamo lamentarci dopo aver fatto le cose e non il contrario”, è il loro motto.
Con questo entusiasmo siamo arrivati alla vigilia di shabbat senza che ce ne accorgessimo. E dopo una tappa in albergo per cambiarci, alle 19.30, siamo tornati in Comunità trovando già la tavola di shabbat apparecchiata, il tempio pronto e un buffet con le plate da far invidia ai migliori banchetti dell’Hilton di Tel Aviv. Le plate forse sì, ma lo stracotto e le mafrume tripoline erano decisamente migliori! A tavola ci hanno spiegato cosa si sono dovuti inventare per cucinare per shabbat, pur avendo il pranzo dei bambini del venerdì, in una cucina di 8 mq. Mentre ce lo raccontavano si leggeva nei loro sguardi adolescenziali solo gioia e soddisfazione che nascondevano la fatica del lavoro. Finita la cena la squadra di peter-pan si è rimessa a lavoro. Dal presidente al cuoco, dal contabile al direttore.
Ed è arrivato subito sabato. Di mattina presto sono arrivate molte persone che abitano ad Ostia, Acilia, ma anche da Roma. Tutti preoccupati che si arrivasse ad avere minian (i dieci uomini adulti necessari per officiare la preghiera, ndr). Naturalmente, siamo andati ben oltre il numero “legale”.
E mentre la giornata è passata tra racconti, lezioni e scherzi da campeggio, è già domenica. In poco tempo siamo diventati un gruppo di amici che lavora sodo. È stato un colpo di fulmine tra i ragazzi e tutto lo staff dello Shirat Ha-Yam. Un paio di giorni sono bastati per capire quale futuro potrà avere quella palazzina con giardino a Ostia.
Il progetto è chiaro. La gente si sta spostando da Roma perché gli affitti hanno raggiunto livelli spropositati e la crisi si fa sentire. Ma quando una famiglia si allontana da un centro comunitario, fare una vita ebraica diventa più difficile. Non c’è un tempio dove andare lo shabbat, non c’è il talmud torà per i ragazzi che non vanno a scuola ebraica, non c’è un centro sportivo né un rav che possa preparare i nostri figli per il bar-mitzvà. È vero, ci sono gli «eroi» che si svegliano alle 5 per portare i ragazzi a scuola ebraica: ma sono sempre meno.
Shirat Ha-Yam è invece la soluzione. Un polo multifunzionale a Ostia dove c’è un tempio, campi sportivi, un grande giardino con una cucina kasher per organizzare feste, eventi e banchetti e un rav sempre a disposizione. Con questi presupposti, chi si allontana da Roma ha una buona alternativa anche dal punto di vista ebraico. Mi viene in mente la storia della Comunità milanese, quando negli anni ’60 decise di costruire una scuola più grande in aperta campagna. All’epoca ci si domandava: chi avrebbe portato i propri figli a studiare in quella campagna che oggi rappresenta la zona a più alta popolazione ebraica? “Im tirzù ein lo agadà”. Se lo vorrete non sarà un sogno. Parola di Theodor Herzl.
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