“Caro Pezzana, ecco perché col matrimonio gay non si batte l’omofobia”. Israel risponde alla replica di ieri
Giorgio Israel
Angelo Pezzana ritiene che la domanda (non mia ma di Alexandre Thomas) se sia possibile opporsi al matrimonio omosessuale senza essere omofobi sia retorica e contenga la risposta. A giudicare dal suo articolo, per lui la risposta è indiscutibilmente “no”, il che è un modo un po’ violento di chiudere la discussione, soprattutto se si dice “mettetevi il cuore in pace amici omofobi”, ovvero dichiarando che o si sta zitti e si applaude oppure si deve subire il marchio d’infamia. Un approccio pacato alla questione avrebbe dovuto prendere le distanze da certe manifestazioni di cui parlavo nell’articolo cui egli si riferisce, per esempio da frasi del tipo (tante volte udite): «Potrete sempre farvi chiamare papà e mamma in casa» – frasi che indicano che si vuole il passaggio in clandestinità del matrimonio naturale col risultato di mettere al posto dell’omofobia una nuova forma di intolleranza.
Tuttavia, non solo Pezzana non fa questo, ma non si misura con i numerosi argomenti del lungo documento del gran rabbino di Francia Gilles Bernheim e con quelli che proponevo, per esempio osservando che, piuttosto che a una battaglia contro l’omofobia, siamo di fronte a un manifesto che mira alla distruzione delle differenze di genere secondo un vecchio programma ideologico postmodernista che predica che la matrice dei razzismi sono le strutture binarie su cui è basata la civiltà occidentale: uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente. Di conseguenza, il superamento dell’“essenzialismo” occidentale deriverebbe dal riconoscimento che la naturalità è solo una costruzione culturale.
Poiché di questo pare che non si possa discutere – come pare si debba dare per scontato che i bambini allevati in famiglie gay non abbiano problemi – vorrei piuttosto mettere in guardia Pezzana dall’illusione che col matrimonio gay si possa battere l’omofobia. Da quando esiste il matrimonio gay in Spagna, non solo ne sono stati celebrati assai pochi rispetto alle attese, ma l’abitudine di usare il termine “maricón” (frocio) e di chiamare “mariconada” qualsiasi vestito, abitudine, oggetto “strano”, inusuale o ritenuto ridicolo, impazza più di prima. E lo spazio manca per i tantissimi esempi analoghi.
Colpisce soprattutto che la carenza di argomentazioni di Pezzana si copra con l’affermazione trionfalistica: «vincerete ancora qualche battaglia, ma la guerra no, quella l’avete persa». Se il “voi” si riferisce agli amici omofobi di Pezzana, mi guarderei dal trionfalismo: temo che costoro siano lungi dall’aver perso la guerra, e che i loro dominî siano lungi dal restringersi. Se invece si riferisce a chi solleva obiezioni argomentate in modo tollerante, schiacciato tra due intolleranze, allora sì che la guerra è persa. È indubbio che il matrimonio gay verrà introdotto per legge in un numero crescente di paesi, tra poco anche in Italia. Ma la storia dell’umanità è disseminata di guerre vinte eppure sbagliate. Vincere non vuol dire affatto aver ragione: c’è bisogno di ricordarlo? Tra le vittorie ci sono anche quelle di Pirro o le vittorie controproducenti, proprio perché l’obbiettivo era sbagliato. I processi complessi, che affondano nella psicologia profonda delle persone, non si modificano per decreto. Anzi, è proprio così che si rischia di ottenere come risultato quello che non si voleva.
Il saggio di rav G. Bernheim sul matrimonio omosessuale
Il Foglio, 19 dicembre 2012