Devàr Torà per il limmùd in memoria di Emanuele Pacifici z”l, celebrato al Tempio Maggiore il 14 maggio 2014 a Roma.
Vorrei arrivare a parlare di zio Emanuele partendo da un versetto di Mishlè, i Proverbi di re Shelomò. E sono sicuro che già questo avrebbe fatto sorridere l’interessato. Il versetto recita così:
כַּמַּיִם הַפָּנִים לַפָּנִים, כֵּן לֵב הָאָדָם לָאָדָם
È un versetto corto ma un po’ difficile. Proviamo a partire dalla traduzione di rav Elia Artom z”l.: «Come nell’acqua si riflette l’immagine del volto, così è del cuore dell’uomo verso il cuore del compagno». Màyim è l’acqua. L’acqua è un elemento naturale molto particolare perché è trasparente, come il vetro, ma può anche riflettere, come lo specchio, che è un vetro trattato. Panìm è il volto umano. Ed è molto simile alla parola penìm, che vuol dire interiorità. L’ebraico, che è una lingua sacra perché descrive la vera essenza delle cose, ci sta suggerendo che il nostro volto spesso rivela o tradisce quello che non possiamo vedere, cioè i sentimenti di una persona. Secondo alcuni poi mayìm hapanìm – lett. l’acqua del volto, indicherebbe la pupilla, dove quando si osserva il volto dell’altro che abbiamo di fronte, ci si rispecchia. E in fondo anche la parola ebraica ’àyin – occhio, indica la fonte d’acqua, o ma’yàn. E infine lev è il cuore, il luogo delle inclinazioni e dei sentimenti.
Una prima interpretazione del versetto potrebbe essere dunque: Così come quando mi specchio nell’acqua riesco a vedere il mio volto, così riesco a vedere il mio cuore nel cuore del compagno. Cioè capire i sentimenti dell’altro mi porta in realtà a capire i miei sentimenti. E forse ancora di più: Ho bisogno dell’altro per capire me stesso. Da solo non riesco. Nessuno riesce a vedere se stesso dall’esterno, ma posso riuscirci grazie all’altro nel quale mi rifletto.
Questa rivelazione è però problematica. Io potrei vedere nell’altro qualcosa di negativo, perché quel tratto negativo me lo porto dentro. In altre parole il versetto ci potrebbe dire: Attenti a vedere negli altri delle caratteristiche negative perché potrebbero essere le nostre. I nostri Maestri del Talmùd (TB Kiddushìn 70b) dicono anche:
כָּל הַפּוֹסֵל בְּמוּמוֹ פּוֹסֵל
«Chiunque critica, in realtà critica qualcosa di sé stesso» (la versione italiana è: «Chi lo dice sa di esserlo»). Se giudico che una persona è per esempio, invidiosa, potrebbe voler dire che sono proprio io per primo a essere invidioso.
Ma ancora di più, il Talmùd ci potrebbe voler dire addirittura che è la mia capacità di vedere gli altri a determinare come gli altri sono. Li vedo negativi? Sono negativi. Li vedo positivi? Saranno positivi.
I Maestri non ci stanno dicendo che se osservo qualcuno che ha commesso una cattiva azione, questa azione non esiste. Stanno dicendo che dobbiamo sempre sforzarci di vedere quella stessa azione in maniera diversa. Il Maestro chassidico Ba’àl Shem Tov è ancora più radicale: «Quando vediamo il male nel prossimo è la prova che lo stesso male esiste in noi» (Meòr Enàyim, Chukkàt)
Rivolgendo il concetto in positivo, il maestro del Mussàr Shlomo Wolbe parla invece addirittura di una “lampada magica” che quando viene scoperta ha la capacità di “illuminare” positivamente la realtà imparando dai difetti che vediamo negli altri per correggerli in noi (’Alè Shur 1, p. 162).
Ora però torniamo indietro e solleviamo una domanda. Perché mai re Shelomò per indicare il riflesso di noi nell’altro avrebbe usato l’acqua e non invece uno specchio, che è sicuramente un paragone più immediato?
Perché proprio l’acqua?
Perché per riflettermi nello specchio posso stare in piedi, mentre per riflettermi nell’acqua sono costretto a inchinarmi. Re Shelomò ci suggerisce che se vogliamo veramente capire gli altri e di conseguenza noi stessi, dobbiamo per prima cosa inchinarci cioè dobbiamo spogliarci del nostro orgoglio, del nostro egoismo.
Zio Emanuele avrebbe avuto tutti i motivi per essere arrabbiato con la vita e con gli altri, avendo patito prima la perdita dei genitori nella Shoà e poi un barbaro attentato. Eppure il suo tratto caratteriale principale per il quale era benvoluto da tutti era la sua capacità di poter leggere negli altri il bene, gli aspetti positivi. Lo faceva col sorriso sulla bocca, se non accompagnato dalle sue risate. E soprattutto spesso si abbassava verso gli altri e si metteva al loro servizio, come quando ti faceva avere la fotocopia di uno dei libri della sua bella collezione o come quando aveva regalato a mio padre z”l i primi libri ebraici mai entrati a casa nostra.
Questa cordialità era talmente radicata in lui che anche quando la testa gli faceva ormai difetto, continuava a rispondere calorosamente al telefono: “Ciao! Come stai!” pur non riconoscendo purtroppo più il suo interlocutore.
Forse non è la sua grande biblioteca il tesoro più grande che ci ha lasciato. Forse è la sua cordialità e il suo approccio fortemente positivo verso gli altri e verso la vita.
Yiyè Zikhrò Barùkh
La registrazione di tutti gli interventi:
1) Riccardo Pacifici
2) David Piazza 0:15:00
3) Cesare Efrati 0:21:42
4) Umberto Abenaim 0:32:11
5) Rav Alberto Funaro 0:34:36
6) Lello Anav 0:40:00
7) Nathan Orvieto 0:42:00
8) Rav Vittorio Della Rocca 0:51:00
9) Rav Benedetto Carucci 1:04:00
10) Rav Mino Bahbout 1:10:00
11) Renzo Gattegna 1:14:00
12) Rav Riccardo Di Segni 1:19:00