Perché gli ebrei romani (e solo loro) piantano i due cereali prima di Rosh ha Shanà
Nell’imminenza del Rosh hashanà , gli ebrei romani seguono un uso molto particolare: prendono due o tre specie di sementi (grano, granturco, lenticchie) e le seminano su dei recipienti, come dei piatti o terrine di coccio, sopra uno strato di cotone o con un po’ di terriccio; i piatti vengono tenuti alla luce, annaffiati regolarmente, e, una volta germogliate le piantine, posti vicino o sulle tavole imbandite per Rosh hashanà e Kippur ; nei giorni di Sukkot , quando la crescita é ormai stentata, le piantine vengono gettate via senza particolari attenzioni. L’uso non é accompagnato da alcuna recitazione di preghiere o di formule speciali; in generale gli viene attribuito un significato di buon augurio per l’anno che sta per iniziare. Se si cerca di capire l’origine e il significato di quest’uso, ci si rende conto che si tratta di un vero e proprio mistero, per diversi motivi:
1. Gli ebrei romani, salvo sporadiche segnalazioni in altre città italiane e forse ad Alessandria d’Egitto, sembrano essere gli unici tra gli ebrei del mondo a seguire questo uso;
2. Non sembra esistere in tutta la letteratura ebraica, salvo una problematica citazione di Ra.SH.I. (che vedremo meglio subito dopo), alcun riferimento a quest’uso, almeno per come viene praticato a Roma;
3. Esistono invece, dall’antichità ai nostri giorni, innumerevoli testimonianze sulla presenza di questo uso, in forme più o meno simili, presso non ebrei in tutto il mondo. Spesso la pratica di questo uso ha, o aveva, dei precisi significati pagani, e più recentemente cristiani. E allora, che senso ha l’uso ebraico romano? Da dove viene?
Per rispondere a questa domanda bisogna prima di tutto vedere l’unica fonte ebraica possibile. Ra.SH.I. (Francia, XI sec.) nel commento al Talmùd, Shabbat 81b, spiega il significato della parola prpys’ (che probabilmente si legge “parpisa” ) che indica un vaso bucato dove sono state seminate delle piante. Ra.SH.I. dice di avere letto dai Gheonim (Babilonia, VII-X sec.) che si tratta di canestri di palme, riempiti di terra e concime, nel quale si seminano colocasia e legumi 2-3 settimane prima di Rosh hashanà; se ne fa uno per ogni minorenne della casa, e alla vigilia del Rosh hashanà ognuno dei bambini prende il suo cesto e lo fa girare 7 volte intorno al capo dicendo “questo é al posto di questo, questo é in cambio di me”, e poi lo getta al fiume. Ra.SH.I. si riferisce ad un uso scomparso da secoli, ma che é ricomparso sotto altre forme: quello delle kapparòt , che si fanno all’inizio dell’anno ebraico, non più con dei vegetali, ma con degli animali (gallo e gallina). La forma animale del rito è prevalsa, per quanto disapprovata da molti Maestri, mentre di quella vegetale si sono perse le tracce. A Roma, da quel che si dice, si facevano comunemente le kapparòt con gli animali fino all’inizio di questo secolo. Confrontando quello che dice Ra.SH.I. con l’uso romano attuale, risaltano le analogie e le differenze; sono diverse le forme e le specie delle piantine e soprattutto la finalità dell’uso. Da questo confronto sono possibili varie conclusioni: che l’uso romano non abbia alcun rapporto con l’uso di Ra.SH.I., o che ne rappresenti un residuo trasformato; trasformato, si può pensare, perché l’uso delle kapparòt animali avrebbe prevalso a Roma, e quindi svuotato l’uso vegetale del suo significato; ma gli ebrei romani avrebbero continuato a praticarlo, adattandolo con le specie vegetali più disponibili, e dimenticando il senso originario. La questione però si complica notevolmente se si pensa a tutto ciò che possono significare gli usi analoghi che si praticavano nell’antichità presso altre culture. Senza conoscere l’esistenza dell’uso romano, alcuni studiosi all’inizio di questo secolo avevano collegato la notizia di Ra.SH.I. con i riti pagani detti “giardini di Adone”. La morte di Adone, divinità greca di origine semitica (come indica chiaramente il nome) veniva ricordata nel periodo estivo con vari riti, tra cui la semina di vasetti, che venivano fatti crescere e quindi seccare al sole estivo. Che tra gli ebrei venissero praticate certe forme di idolatria é sospettato dalle denunce profetiche in Isaia 17:10 e Ezechiele 8:14. Un sospetto un po’ infamante macchierebbe – almeno alla lontana – il nostro uso. Ora, che tutto questo abbia rapporto con quello di cui parla Ra.SH.I, e ancora di più con l’uso ebraico romano attuale, é ben lontano dall’essere dimostrato. Bisogna in ogni caso tenere presente che, malgrado ogni possibile somiglianza formale, ogni uso ha il senso che gli viene attribuito nel luogo e dalle persone che lo praticano. Con le informazioni che abbiamo oggi a disposizione, le domande iniziali, sull’origine e il senso del nostro uso, restano in gran parte senza risposta, o almeno nel campo delle ipotesi. Ma almeno possiamo dire questo, a sostegno della sua dignità e legittimità:
1. che é possibile che l’uso ebraico romano si ricolleghi, nelle forme, ad una antica tradizione ebraica documentata da Ra.SH.I., che é stata comunque svuotata del suo significato originario;
2. che il significato prevalente e apparente sia quello generico di un buon augurio di crescita all’inizio del nuovo anno; se tuttavia la cosa si trasformasse in una ricerca di segni e di auspici (“se il grano cresce bene vuol dire che ….”) si rischierebbe di superare i limiti del lecito dal punto di vista della legge ebraica, che proibisce la magia e la divinazione;
3. che é possibile, alla luce di vari dati, attribuire a quest’uso un significato più profondo di riflessione sulla condizione meravigliosa, ma insieme fragile ed effimera, della natura umana, in opposizione all’eternità dello spirito divino; con le parole di Isaia (40:6-8) che leggiamo a Shabbat Nachamù: “Ogni carne é erba… il popolo é erba; l’erba si secca, il germoglio appassisce, ma la parola del nostro Dio durerà in eterno”.
E’ uno dei temi fondamentali che si impongono nelle feste da Rosh hashanà a Sukkòt, e sul quale dobbiamo pensare, prima sotto il segno del rigore e della giustizia, e poi sotto il segno della gioia di Sukkòt, certi dell’aiuto divino.
Per saperne di più rimando al mio articolo “Le piantine di ‘grano e granturco’ “, in: Collegio Rabbinico Italiano, Annuario di Studi Ebraici, 1988-1991, XII, Carucci, Roma 5752-1992, pp. 7-31.
Ringrazio in anticipo i lettori che vorranno dare qualche notizia in più su questo uso.