Nelle benedizioni del mattino, la prima berakhà recita: “… che dai al gallo la comprensione per distinguere tra il giorno e la notte”. A prima vista questa berakhà sembra strana in quanto, similmente ad altre berakhot, dovremmo recitare questa benedizione solo quando sentiamo effettivamente il canto del gallo. Una risposta possibile a questa domanda è che dovremmo sempre sforzarci di vedere la mano di D-o in ognuna delle meraviglie della natura, pertanto lodiamo D-o per aver dato al gallo la comprensione necessaria per percepire lo spuntare dell’alba e cantare automaticamente. Tuttavia ci deve essere una ragione più profonda.
Giorno e notte, luce e oscurità, sono sinonimi di bene e male, conoscenza e ignoranza, felicità e miseria. La parola ebraica usata in questa berakhà per descrivere il gallo in questa benedizione è sechvi. Il Talmud ci dice che questa parola può assumere anche il significato di cuore. Il cuore è la sede del sentimento e della comprensione. Mentre D-o ha dato al gallo un senso speciale per poter distinguere tra il giorno e la notte, ha dato all’uomo un senso speciale per permettergli distinguere tra il bene e il male. La centralità e l’importanza di questo aspetto può essere descritta da una storia.
Il sovrano spagnolo Saladino stava discutendo con alcuni suoi consiglieri su quale religione fosse quella vera. Per partecipare alla discussione e aiutarli a decidere sulla questione chiamarono uno studioso ebreo di nome Efraim Santizi e gli chiesero: “Dicci, chi sono i custodi della vera religione di D-o: i cristiani, i musulmani o gli ebrei?” Non volendo svergognare nessuno, e comprendendo la pericolosità della questione, Efraim pensò intensamente e profondamente, e rispose raccontando una storia. C’era un rubino grande e prezioso che aveva un potere meraviglioso. Chiunque lo tenesse stretto al cuore percepiva la propria vita come benedetta dalla gentilezza e dalla comprensione. Questo rubino era di proprietà di un gioielliere che lo tagliò e lucidò così perfettamente che tutti rimasero stupiti dalla sua bellezza. Il gioielliere aveva tre figli adulti, ognuno dei quali desiderava il rubino più di ogni altra cosa. Arrivò il momento per il gioielliere di intraprendere un lungo viaggio, e ciascuno dei figli gli chiese di custodire il gioiello. Prima di andarsene, il gioielliere incontrò ciascun figlio separatamente, diede a ciascuno un rubino, dicendo: “Questo è per te e solo per te”. Quando il gioielliere se ne fu andato, i tre figli furono sorpresi nel vedere che i tre rubini sembravano identici.
Dissero: “Nostro padre deve aver posseduto altri due rubini e li ha tagliati e lucidati per farli sembrare esattamente come quello vero. Ognuno dei figli sosteneva di possedere il vero gioiello e che gli altri gioielli erano falsi, accusandosi a vicenda di essere bugiardi e di volere ingannare il prossimo. Decisero quindi di recarsi dal giudice e gli raccontarono tutta la storia. Alla fine gli chiesero: “Qual è il vero gioiello?”
Il giudice esaminò tutti e tre i rubini, ma non riuscì a vedere alcuna differenza tra i gioielli. Alla fine disse: “Solo vostro padre conosce la risposta. I tre figli erano profondamente angosciati. Stavano per andarsene quando il giudice parlò di nuovo. “Posso però dirvi come dimostrare che il vostro gioiello non è falso: Chi detiene il vero gioiello vicino al proprio cuore, scopre che la sua vita è benedetta dalla gentilezza e dalla comprensione. Vivete la vostra vita in modo tale da agire sempre con gentilezza e comprensione. Allora tutto il mondo dirà che il vostro gioiello non può essere falso perché la vostra vita è veramente benedetta”.
Quando recitiamo la berakhà “Che ha dato al gallo la capacità di distinguere tra la luce e le tenebre” dobbiamo riflettere su questa storia e chiederci se siamo degni dei doni che D-o ci ha dato. Stiamo veramente vivendo la nostra vita con il cuore, meritiamo le Sue berakhot? La chiamata al risveglio arriva dal suono dello Shofar. Lo Shofar viene suonato attraverso tre modalità sonore, la teki’à, la teru’à e lo shevarim. Il Ben Ish Chai scrive che la teru’à e lo shevarim sono destinati a contrastare la teki’à. La teki’à è un suono di trionfo e di gioia, mentre lo shevarim e la teru’à sono suoni di dolore e sofferenza. A causa dei sentimenti opposti che rappresentano, quando si suona lo shofar non si deve collegare la teki’à con gli altri suoni. Perché dallo Shofar vengono emessi sia suoni di gioia che suoni di dolore? Il Ben Ish Chai lo spiega attraverso un racconto. Un uomo aveva un anello fatto apposta per lui. Su questo anello aveva inciso le parole “Anche questo passerà”. Se era turbato o sofferente, guardava il suo anello e si ricordava che la sofferenza prima o poi sarebbe finita. L’uomo guardava l’anello anche durante i momenti di felicità in modo da rendersi conto che la sua ricchezza e la sua fortuna avrebbero potuto finire in un istante, che non c’era motivo di diventare presuntuoso e altezzoso per circostanze che andavano oltre il suo controllo e che potevano trasformarsi in circostanze avverse. La sua vita doveva essere messa in prospettiva, non si dovrebbe vivere la propria vita né compiacenti né scoraggiati. La teki’à, il primo suono, è un suono di gioia e felicità.
Immediatamente dopo aver sentito il suono esultante, sentiamo lo shevarim e la teru’à, suoni di tristezza, dolore e sofferenza. Il netto contrasto tra questi suoni è intenzionale. Mentre ascoltiamo lo Shofar dovremmo ricordare che nel nuovo anno ci potranno essere momenti bui come momenti felici e, in ognuno di questi momenti, non dobbiamo cadere nell’eccesso di giubilo o nell’eccesso di tristezza, perché non siamo soli. Questo è il motivo per il quale subito dopo lo shevarim e la teru’à, suoniamo di nuovo una teki’à, per significare che D-o è lì e, nella Sua misericordia, ci aiuterà a ritornare di nuovo a uno stato di giubilo. Quello che dobbiamo fare è ricordarci che dentro di noi c’è un rubino pronto a splendere in tutta la sua bellezza e che D-o non ci abbandona. Possa D-o darci nel nuovo anno solo occasioni di gioia per permetterci di lodarLo ed occasioni per noi di crescita, in modo da splendere come rubini.