David Bidussa – Il Riformista
Da ieri sera esiste di nuovo una questione israeliana rispetto ai luoghi comuni della convinzione politica. Soprattutto per la sinistra europea e italiana. Ma anche, occorre aggiungere, per coloro che raramente hanno avuto la pazienza di guardare dentro la realtà di Israele e di inquadrarlo come una realtà lacerata, contorta, ma che, alla fine, doveva misurarsi con la politica.
Esiste, in ogni caso al di là di questo e forse prima di tutto anche una
specifica “questione Sharon”. E di questo conta immediatamente prendere
atto.
Da molti punti di vista. Prima di tutto come messa in questione dei canoni
con cui l’abbiamo di solito affrontata, classificata e risolta dall’estate
1982.
In politica non si fanno sconti. E niente è stato più facile che inquadrare
Sharon come l’ultima incarnazione del male. Vi concorrevano molti fattori:
l’aridità del linguaggio, un tono di voce e una dialettica secchi, una struttura
del ragionamento che si materializza persino nel modo di camminare e che
è arrancata, inelegante, priva delle sottigliezze che in diplomazia e nella
comunicazione sognante della politica contano.
A Sharon non sono mai state concesse molte attenuanti e in ogni caso, si
potrebbe anche dire, nemmeno lui le ha mai cercate. Messo alle strette da
una puntigliosa Oriana Fallaci (quando ancora non era all’ordine del giorno
“lo scontro di civiltà”) nell’agosto 1982, Sharon giocava allora una partita
in cui si mischiavano arroganza, uso della forza, e determinazione. La storia
sembrava che nella sua testa fosse solo il risultato prometeico e titanico
di realizzare il proprio sogno. Per molto tempo sostanzialmente fino a ieri,
questa era l’immagine che noi avevamo di Sharon. Quella del cavaliere che
combatte la sua battaglia “a prescindere”.
Il suo profilo, abbandonata un’immagine a tutto tondo, era quello del perseguimento
di un progetto all’interno del quale non era previsto scendere a patti col
nemico.
E’ l’aspetto di continuità su cui e con cui ancora Sharon sembra restare
fedele. Questo profilo c’è ancora, ma va spiegato dentro un’altra cornice.
Per comprenderlo noi dobbiamo uscire dalle nostre classificazioni psicologiche
e analitiche – in breve abbandonare l’idea del “guerriero giapponese” –
e misurarci con una dimensione politica.
Ieri si è aperta una lunga partita che si origina da una presa d’atto laica
e utilitaristica della dimensione politica. Semplicemente Sharon ha compiuto
un passaggio: l’ipotesi della esistenza di Israele non passa più per l’espansione
territoriale, ma per la garanzia della maggioranza demografica sul proprio
territorio. Non è un’idea di sinistra né rappresenta un progetto di sinistra.
Ma la politica si è rimessa in moto e noi dobbiamo prendere atto di questo
mutamento. E, possibilmente, riflettere, e rispondere politicamente.
La partita che ieri ha rimesso in moto Sharon, al di là delle immagini eroiche
o sognanti è la riapertura del dossier del realismo politico. Ma come tutti
i dossier realistici che si scontrano con un sogno, che partono dal prendere
atto che un sogno è destinato a rimanere sogno, non sarà un picnic ed è
possibile anche che finisca male come sulla piazza di Tel Aviv in una sera
di novembre di nove anni fa.
Perché qualcuno può pensare che andrebbe ripetuta la “lezione Rabin” (per
una strana coincidenza che a qualcuno potrebbe anche solleticare strane
congiunzioni cabalistiche, ieri ricorreva l’anniversario nel calendario
ebraico dell’uccisione di Rabin); perché come afferma Uri Avnery forse si
è aperta l’ipotesi concreta della guerra civile dentro Israele; perché gran
parte della topografia politica e dell’asse destra/sinistra da ieri dentro
Israele si è rimesso in moto ed è ancora da vedere se ci sarà la forza di
sopportare internamente il conflitto. Israele, oggi, è un paese complesso,
lacerato, forse anche stanco (si veda per tutti, Stefano Jesurum, Israele,
nonostante tutto, Longanesi). Certamente è di fronte a una svolta. Noi non
possiamo cavillare se chi ha riaperto il processo ci è sempre piaciuto o
meno. Sharon ha riaperto il gioco. Noi dobbiamo sostenerlo.
Tutto questo è possibile. Tuttavia noi dobbiamo anche sapere che se tutto
finirà, invece, di nuovo in tragedia, sarà perché – nonostante il carattere
solitario e titanico della propria scelta, da “padre della patria” che sceglie
contro l’opinione corrente e chiassosa di “fare la propria strada” – anche
noi, qui ci avremmo messo la nostra parte, o, più prosaicamente, avremmo
pensato che niente sarebbe potuto cambiare su quel fronte.
Da ieri la politica si è rimessa in moto. Sharon l’ha rimessa in moto.
La sinistra politica, il fronte culturale e politico che tradizionalmente
l’ha collocato e interpretato come l’ostacolo maggiore al processo di pace,
in breve noi, deve prenderne serenamente atto. Possiamo scusarci e poi continuare
come prima. Avremo compiuto un atto formale di cortesia, ma non avremo dato
nessuna chance alla politica.
Abbiamo anche un’altra possibilità. Quella di smettere di immaginarci lo
scontro politico come un insieme di carte da gioco dove ciascuno è la perfetta
silhouette di un’idea pre-concetta, dove c’è chi gioca al despota e chi
alla vittima e, invece, considerare la partita in Medio Oriente tra israeliani
e palestinesi per quella che è: una lunga ed estenuante guerra che a un
certo punto deve trovare una soluzione mediana. Meglio due feriti che un
morto. Il problema in Medio Oriente non è più la possibilità di un solo
morto, ma evitare che i morti siano due.
David Bidussa