Dalla rivista SeFeR dell’aprile-giugno 1995 un bel ritratto del controverso maestro il cui libro verrà presentato a Milano questo giovedì 24 febbraio (vedi sotto).
Massimo Giuliani
Da più voci Yeshayahu Leibowitz, che la morte ha sorpreso nel sonno nell’agosto dell’anno scorso (1994 NdR), è stato commemorato come il più famoso e controverso filosofo della società israeliana, come un profeta contemporaneo, come un grande spirito e una benedizione per il popolo ebraico.
Chi scrive lo incrociò più volte negli ultimi mesi prima della sua scomparsa: la sua esile, leggermente incurvata figura di novantenne guizzava di buon mattino per le strade di Rehavia, il quartiere nel quale abitava a Gerusalemme, per andare e tornare dalla sinagoga ortodossa Jesurun in Shmuel HaNagid; oppure si poteva vederlo assorbito dalla lettura ‑ in una delle molte lingue da lui padroneggiate ‑ nella sala delle riviste della biblioteca nazionale, a Givat Ram; o ancora attraversare i corridoi dell’università ebraica, a Har Ha‑Zofim, per raggiungere la sua stanza al dipartimento di filosofia, dove avrebbe discusso di qualche problema halakico con i colleghi, avrebbe date consigli a studenti o a militari in crisi, o semplicemente si sarebbe concesso un’ amichevole dotta conversazione con Marcel Dubois. La sua voce era nota a tutti, in Israele: per le sue veementi prese di posizione durante trasmissioni radio‑televisive o nelle interviste giornalistiche. Un “grillo parlante” amato da alcuni e insopportabile per altri, rispettato però da tutti per la sua autorevolezza morale, per la lucidità e la coerenza dei suoi ragionamenti, e non ultimo per quell’età alla quale si concede non solo il credito per il molto esperito, ma anche la benevolenza per le fisse e gli eccessi di carattere.
LA VITA: SCIENZIATO, FILOSOFO POLEMISTA
Nato a Riga (oggi Lettonia, allora sotto controllo russo) nel 1903, Yeshayahu Leibowitz si laurea giovanissimo in chimica a Berlino e in medicina a Basilea.
Contemporaneamente si dedica a studi filosofici, con particolare attenzione al “pensiero ebraico”. Sposatosi, fa alià nel 1934 – in Germania erano iniziati i più terribili dodici anni della storia tedesca, mentre nel Mandato Britannico di Palestina scoppiava il conflitto tra ebrei, arabi e inglesi. Diventa subito docente di chimica all’università ebraica, la più alta istituzione di cultura nel Paese, fondata nel 1925. Prende parte alla guerra d’indipendenza e si scontra più volte con Ben Gurion dopo la proclamazione dello stato d’Israele.
Da allora non smette più né di insegnare né di intromettersi, con i suoi giudizi, nelle vicende politiche israeliane. Insegnò chimica e medicina neurifisiologica a tre generazioni, e filosofia ‑ soprattutto filosofia ebraica ‑ a chiunque lo ascoltasse in classe o lo fermasse per strada. Fu a capo del dipartimento di biochimica all’università e per anni diresse severamente l’Enciclopedia Ebraica.
Negli anni ’50 e ’60 si schierò contro l’adozione dell’arma atomica negli arsenali bellici dello stato. Nel 1967, quando la società israeliana era in entusiastico fermento per la riunificazione della città santa e per la vittoria della guerra, la “guerra dei sei giorni”, mentre rabbini famosi suonavano lo shofar al Muro occidentale (Goren) o parlavano di segno della provvidenza divina (Soloveitchik), Leibowitz iniziò a tuonare contro I’ “occupazione dei Territori” arabi e definì quella vittoria una grande disgrazia per il popolo ebraico.
Durante la guerra del Libano (1982-83) scese in piazza per il ritiro dei soldati dalla zona invasa da Israele. Emblematica la sua presa di posizione durante l’Intifada (la protesta palestinese) scoppiata nel 1987.
Due anni dopo, in una lettera alla rivista ebraica americana di sinistra “Tikkun”, il filosofo scriveva: “Negli ultimi due anni, l’esercito d’Israele, equipaggiato con le più moderne armi amerioane, ha eroicamente combattuto e ucciso centocinquanta bambini arabi, dai tre mesi ai quattordici anni. Nessuna spiegazione, nessuna scappatoia, nessun sotterfugio potranno assolvere lo stato d’Israele, dalla maledizione del profeta: “Vi coprirò di perenne disgrazia e di perenne vergogna, che non sarà mai dimenticata (Geremia 23, 40)”.
Pur non essendo un pacifista, chiedeva con ostinazione un ritiro incondizionato dei soldati israeliani dai Territori. All’inizio del 1993 una commissione governativa lo propose per il prestigioso Israel Prize (che sua sorella Nechama, studiosa di Bibbia, aveva ricevuto per meriti educativi nel 1957). Subito dopo Leibowitz rilasciò alcune interviste in cui paragonava la presenza armata d’Israele nella striscia di Gaza ai combattenti della setta fondamentalista islamica di Hamas.
Vi fu un coro di reazioni. Senza scomporsi dichiarò di rinunciare al premio assegnatogli. Il giorno della sua morte, ii presidente Ezer Weizman definì il professor Leibowitz “una delle più grandi figure del giudaismo nelle ultime generazioni”.
Non avendo scritto opere sistematiche, il suo pensiero è condensato nei corsi universitari da lui tenuti e in alcune raccolte di articoli e saggi: Giudaismo, popolo ebraico e stato d’Israele in ebraico, Jerusalem/Tel Aviv 1975 apparso in parziale traduzione italiana con questo titolo presso Carucci, 1976); La fede in Maimonide (in ebraico, ma esiste traduzione in inglese e francese, Jerusalem 1980); Fede, storia e valori (in ebraico, Jerusalem, 1982); Conversazioni su scienza e valori (in ebraico, Jerusalem, 1985); Tra scienza e filosofia (in ebraico, Jerusalem 1987). Testi tratti da tali raccotte sono stati riuniti e tradotti in inglese in un volume dal titolo Judaism, Human Values and the Jewish State, Cambridge‑Mass. 1992. in francese si veda inoltre il libro‑intervista Israel et Judaisme. Ma part de verité (Entretiens avec Michael Shashar), Paris, 1993.
IL SUO PENSIERO: MIZWOT E POPOLO EBRAICO
Altrove ho scritto che la definizione di filosofo per il prof. Leibowitz è ad un tempo troppo e troppo poco. La ragione di questo duplice “troppo” sta nei fatto che il suo pensiero è sempre stato in funzione di una realtà specifica: la vita ebraica. La sua mente enciclopedica non perse mai di vista il termine ad quem, vale a dire la finalità del sapere e del pensare – che nel giudaismo sono tutt’uno con la finalità dell’agire. Non cercava speculazioni per il gusto di speculare, anzi, addirittura fuggiva ogni discorso metafisico, e in questo senso parlare di lui come filosofo è troppo. E tuttavia il rigore della sua intelligenza applicato ai problemi filosofici del giudaismo e della storia del pensiero ebraico (soprattutto medievale) era tale da porlo senz’altro tra le menti più speculative del nostro tempo, una mente capace, per la ampiezza di cultura scientifica, di andare ben oltre le frontiere di una comune mente filosofica. La vita ebraica, dunque. Cos’è il giudaismo per Leibowitz? Una comunità religiosa che vive secondo la halakhà cioè praticando le mizwot, i precetti religiosi – e combatte ogni forma di idolatria. Senza sentimentalismo né facili profetismi, l’essenza del giudaismo è la sua esistenza pratica: la pratica dei precetti, i quali vanno praticati con una sola possibile kawwanà, una sola possibile intenzione – quella di fare la volontà di Dio, e per nessun’altra ragione.
Da filosofo quale finemente era, Leibowitz sapeva che questa aggiunta “per nessun’altra ragione” è il punto più difficile, proprio perché è il carattere più qualificante del giudaismo. Poiché nella visione leibowitziana il giudaismo è costitutivamente pratica halakica, cercare un fondamento halakico diverso dalla volontà di Dio significa togliere a Dio l’unicità e l’assolutezza di fonte normativa per la vita dell’ebreo e dell’uomo in generale. Il modello di ogni mizwà resta La ‘aqedat Jizchaq (la “legatura di Isacco”) perché quel che Abramo si accinge a fare, nel capitolo 22 della Genesi, è un atto umanamente “contro la speranza”, filosoficamente “immorale”, e tuttavia un atto religioso totale, nel quale l’unica ragione a cui ci si può appellare è la volontà di Dio. Fare le mizwot perché sono buone azioni non è giudaismo ma socratismo, e praticarle per ragioni etiche, per un senso del dovere fine a se stesso non è giudaismo ma filosofia kantiana. Per Leibowitz, ebreo rigorosamente osservante, solo la volontà divina è la ragione del nostro dovere di agire halakicamente. Anche la questione di Dio, in sé, è al di là della preoccupazione genuinamente ebraica. Con Maimonide, Leibowitz condivide una grande fiducia nella ragione (meno nella razionalità dell’agire dell’uomo), ma anche la convinzione della nostra impossibilità di parlare coerentemente di Dio. Possiamo dire cosa Dio vuole da noi ‑ questo è il contenuto della Torà scritta e orale ‑ma su Dio dobbiamo accontentarci di una “teologia negativa”. Solo il servizio di Dio giustifica la nostra vita religiosa.
A questo punto si pone la questione di come si possano conciliare nella visione teocentrica di Leibowitz fede nella volontà di Dio (poiché di un atto di fede si tratta) e ragione umana (che indaga e scopre per esempio gli elementi e le leggi della materia). Anche in questo la sua visione resta fondamentalmente maimonidea. Tuttavia da un punto di vista religioso, il luogo di incontro tra fede e ragione resta la halakhà ‑ cioè lo sforzo dell’uomo ebreo per adattare la volontà di Dio nel quotidiano della vita.
Il principio di ragione regge la halakhà. Questo è per Leibowitz il grande dogma dell’ebraismo: che la halakhà sia un prodotto dell’uomo, della ragione dell’uomo, e tuttavia, contemporaneamente, si dica di essa che è legge divina, che abbia l’autorevolezza divina. Esso può essere formulato così: “Tutta la Torà è data.
Tutto è nella Torà, salvo scoprirlo”. Tale scoperta è compito precipuo della ragione dell’uomo, che studiando e indagando scopre come deve fare per compiere la volontà di Dio già contenuta nella Torà. A ben vedere, questa impostazione è tutt’altro che fideistica o bibliolatrica: è piuttosto attraversata da una fierezza umanistica che coincide con la convinzione della miglior tradizione rabbinica: (la Torà) “lo ba‑shamajim hi“, non è in cielo! Per usare un’espressione leibowitziana: “La halakhà si fonda sulla fede, ma la fede è fondata sulla halakhà”.
E tuttavia, tra fede e halakhà c’è il popolo ebraico.
Questo è l’altro grande polo della riflessione di Leibowitz. La sua preoccupazione maggiore, soprattutto negli ultimi anni, era la coscienza morale di questo popolo ebraico: anzi, ancor più radicalmente (e non sembri un’esagerazione) la sua sopravvivenza come tale, cioè non come società israeliana ma come popolo halakhicamente ebraico. Questa preoccupazione spiega molte delle sue dure prese di posizione verso la politica dei governi dello stato d’Israele. Ma a rigore essa è una preoccupazione che nasce dal cuore della sua, se così si può dire, filosofia del giudaismo. il popolo ebraico è il soggetto religioso del giudaismo. Se su Dio resta poco o nulla da dire, il suo posto ‑ teologicamente parlando ‑ è occupato dal popolo d’Israele. A rigore, non è la galut, l’esilio, che ha creato il popolo e braico, ma questo ha creato la galut. Halakhà e popolo ebraico sono parte costitutiva di un unico circolo, il circolo ermeneutico del giudaismo. Ogni uso improprio di questi due elementi, rischia l’idolatria.
È per questo che Leibowitz si scagliava, anche con violenza verbale, contro quei politici israeliani che vedono il popolo ebraico in funzione dell’esistenza dello stato (e non viceversa, come deve essere: lo stato per il popolo), e contro quei rabbini che usano la halakhà per giustificare lo stato o certe politiche dello stato. Entrambi questi atteggiamenti erano – coerentemente con la sua filosofia – giudicati dal “professore” come idolatrici. Usare il giudaismo come mezzo per dare un’identità nazionale allo stato d’Israele è qualcosa che rasenta l’idolatria. La sua opposizione teorica non risparmiava certo rav Kook, il riconosciuto leader del sionismo religioso e l’ispiratore del compromesso tra ebrei religiosi ed ebrei laici.
Una prostituta mantenuta dallo stato, così Leibowitz definiva i partiti politico‑religiosi nello stato d’Israele. E auspicava uno “scontro culturale” tra i due fronti, le due anime, affinché avvenisse una chiara separazione tra religione e stato in Israele. Sempre per il bene del popolo ebraico alzò la sua voce contro l’occupazione dei Territori e chiese il ritiro delle truppe – anche a costo consapevole di esporre Israele a una nuova guerra.
Meglio una nuova guerra, in cui ci difenderemo come sempre, diceva, piuttosto che un’occupazione (un governare coloro che non vogliono essere governati da noi) che svuota di contenuto morale il paese. Ma questo diceva senza mitizzare né il popolo né la religione, consapevole anzi del diritto storico degli ebrei a non farsi più governare dai gojim, dai non ebrei. In questo Leibowitz restò sempre un onesto nazionalista, un sionista “storicamente” ispirato.
IL SUO GIUDIZIO SUL CRISTIANESIMO
Per molti anni gli studenti di filosofia dell’università ebraica hanno visto nel prof. Leibowitz e nel prof. Marcel Dubois due anime opposte ma complementari. Dubois è un padre domenicano, docente di filosofia medievale, che ha ricoperto il ruolo di direttore del dipartimento di filosofia all’università ebraica. I due studiosi sono spesso apparsi in pubblico insieme, per dialettizzare tra loro, per confrontare il punto di vista ebraico e il punto di vista cristiano. Sul quotidiano Haarez, Dubois ha commemorato la personalità di Leibowitz usando la categoria del profeta, voce solitaria e scomoda. Anche verso la realtà del cristianesimo fu piuttosto solitario, e certamente fu scomodo. Pur non avendo mai smesso di dialogare con Dubois, era “contro” il dialogo tra giudaismo e cristianesimo.
Considerava quest’ultirno una forma di paganesirno, un vero e proprio avversario ‑ più che un concorrente ‑ del giudaismo. E non solo per via della storia dei rapporti tra le due religioni. Il cristianesimo nella sua versione teorica, cioè quello elaborato da Paolo di Tarso, si “vanta” di aver superato la Torà, di aver abrogato la legge, la normativa, la halakhà. Poiché il giudaismo è essenzialmente pratica halakica, il cristianesimo si pone, si fonda come un anti‑giudaismo, una negazione del giudaismo.
Nella sua rivendicazionea essere il “vero Israele”, il cristianesimo pretende di ereditare il meglio del patrimonio ebraico; ma poiché il giudaismo continua a esistere, il cristianesimo ha nei suoi confronti gli stessi sentimenti di uh erede verso un testatore che non muore mai. La responsabilità di tale conflitto nasce dall’avere, da parte della chiesa, rifiutato la posizione di Marcione, nel secondo secolo dell’era volgare, il quale chiedeva di separare i testi sacri delle due religioni.
Se la posizione marcionita avesse vinto, argomenta logicamente Leibowitz, non ci sarebbe stata la storia dell’antisemitismo, o comunque i rapporti sarebbero stati migliori. Dunque l’incompatibilità tra giudaismo e cristianesimo è totale. Non solo, ma il filosofo si scaglia duramente contro quegli “ebrei cristianizzanti” che cedono proprio sul terreno dell’osservanza halakica. Anche il giudaismo riformato rientra in questa categoria, e come tale è da riguardare come una potenziale apostasia. La religione ebraica, dice il filosofo, non ha molto a che vedere con la pretesa di “salvare il mondo” tipica dei cristiani, e in questo senso non c’è salvezza, perché non c’è possibilità che la religione cambi la condizione umana.
Le stesse attese messianiche ‑ come tutta la storia del giudaismo illustra spesso non hanno un significato genuinamente religioso, e sono l’anticamera delle apostasie. La pretesa cristiana di conoscere la natura di Dio ‑ seppur affermata come mistero di fede ‑ è qualcosa che sta agli antipodi del pensiero teologico di Leibowitz, che, fedele a Maimonide, confessa al riguardo una non possibilità per la mente umana di accedere a Dio.
Questa posizione gli è valsa l’accusa di agnostico, se non addirittura di ateo, un ateo praticante tutte le mizwot. Diffidenza e rigore, sul piano teoretico, verso il cristianesimo non impediscono però un rapporto di amicizia e un confronto tra persone, tra ebrei e cristiani, e l’amicizia, umana ancor prima che accademica, tra Dubois e Leibowitz resta una delle più intense e significative icone dei nuovi rapporti tra giudaismo e cristianesimo in questo secolo, il secolo della Shoà.
L’EREDITÀ: LE SFIDE “META‑HALAKICHE”
Leibowitz lascia indubbiamente una grande eredità non solo alla società israeliana ma a tutto il giudaismo. Spesso, con le sue posizioni critiche, ha ispirato o “tolto qualche castagna dal fuoco” anche gli ebrei della diaspora. Ma è sul terreno specifico della sua riflessione che tale eredità costituisce un patrimonio da investire. Leibowitz ha insegnato “che” e “perché” si devono fare le mizwot. Il rapporto tra halakhà e popolo ebraico è il fulcro della sua filosofia del giudaismo. Ebbene proprio a riguardo di questa circolarità egli ha indìyiduato un problema, che a ben vedere “il” problema del giudaismo futuro (e anche del futuro del giudaismo), vale a dire: storicamente è sempre stato il popolo ebraico a definire cosa fosse halakhà, e al contempo era la halakhà a definire il popolo ebraico qua talis.
Ora, da due secoli a questa parte, cioè dall’epoca della haskalà, dell’illuminismo, il popolo ebraico ha cominciato a definirsi anche a partire da altri referenti , a sviluppare un’autocoscienza diversa da quella strutturalmente halakica del passato.
Ciò ha comportato e comporta che quella circolarità si è interrotta. E sorto quello che Leibowitz stesso chiama il problema della meta‑halakhà. Nelle sue parole: “Il problema meta-halakico può essere formulato così: come agire dal punto di vista della halakhà a fronte di un popolo che non è più il popolo ebraico di cui parla la halakhà?”. Nella sua ortodossia il professore era pienamente consapevole che il giudaismo è una realtà non solo nella storia, ma anche della storia, che vive e cresce con le dinamiche proprie della storia. Il principio di ragione significa anche questo. Dunque il giudaismo ‑ cioè la halakhà non può sottrarsi alla storia in nome di nessuna metafisica.
Cosa significa questo per la religione ebraica? Come e dove la halakhà deve “cambiare” in rapporto, in proporzione ai cambiamenti avvenuti nell’autocoscienza del popolo ebraico? Infatti il popolo ebraico si trova oggi dinanzi a realtà inedite (politiche, culturali, etiche) che la halakhà ignora. Lo stato d’Israele come “stato ebraico” e la questione del ruolo della donna nella comunità religiosa sono le due sfide metahalakiche più urgenti secondo il professore, che proprio su tali temi si trovò “contro” l’establishment ortodosso. Come deve comportarsi un ebreo religioso davanti a questioni inedite, se non può trovare risposte pronte nella halakhà?
Domande che stanno al cuore dell’eredità intellettuale di Leibowitz. Domande non periferiche ma costitutive dell’identità del popolo ebraico, perché hanno a che fare con il più costitutivo dei suoi doveri, il dovere halakico. La lezione accademica si fonda qui con la lezione esistenziale, vale a dire religiosa.
Le strade indicate da Leibowitz portano due nomi, i nomi di due figure che contengono in qualche modo i criteri per non soccombere davanti alla gravità delle domande: la figura biblica di Abramo e a figura filosofica di Maimonide. La religiosità abramica e la vis rationalis maimonidea sono stati, durante la sua lunga battaglia umana, i tratti distintivi – all’apparenza contraddittori, in realtà profondamente solidali – della personalità di Yeshayahu Leibowitz.
l’Assessorato alla Cultura della Comunità, il Bené Berith, Morashà, per il ciclo Con/testo incontri su libri autori e lettori, invitano all’incontro su
Yeshayahu Leibowitz
Le feste ebraiche
Il rigore del precetto e la mitizzazione della storia
Dialogo a più voci con: Maurizio Camerini, Mino Chamla, Marco Ottolenghi
http://www.jacabook.it/ricerca/schedalibro.asp?idlibro=3554
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