In “Autobiografia di mio padre”, “romanzo di migrazioni” del 1987 riproposto in italiano da L’Orma, Pierre Pachet tenta l’impossibile: scomparire dietro la voce di un altro
“Avevo quella voce in testa; anzi era l’unica che avevo. La percepivo in me come la più spontanea. Avevo quella voce in testa: folle presunzione. Ho creduto e voluto che fosse così. Mi sono aggrappato all’illusione per trasformarla in progetto, e incatenarmici. Ho voluto essere l’erede.” Restano a lungo, impresse nella mente, le parole frugali con cui Pierre Pachet introduce il suo libro dal titolo già piuttosto singolare, oltre che bellissimo, Autobiografia di mio padre – chi non ha sognato di scriverne una? – che Marco Lapenna ha tradotto per L’orma editore. Perché richiamano quella condizione ben conosciuta, di essere assillati dalla voce di un’ altra persona, scomparsa da molti anni, e di volere, a partire da quel suono inconfondibile, l’impossibile: parlare attraverso di essa, confonderla alla propria, quasi in uno stato di possessione, per permetterle di continuare ancora a parlare e a raccontare non la nostra, ma la sua storia, irriducibile e singolare quanto la grana della voce, quest’estrema traccia dell’altro che portiamo in noi.
E Pachet, scrittore e critico francese finora colpevolmente assente nelle nostre librerie, lo fa: ridà voce a Simkha Apatchtevsky o Opatchvesky, ebreo russo nato in Bessarabia (l’attuale Moldavia), la cui qualità di migrante è talmente radicale che c’è persino incertezza sull’esatta lezione del suo cognome, ricostruisce le peregrinazioni che da Odessa lo portano a Nancy e a Parigi, a diventare medico, marito, padre, profugo dalla Francia occupata dai nazisti che, scampato di misura ai rastrellamenti e allo sterminio, riprende dopo la guerra il filo di una vita in cui, tuttavia, non riesce mai a sentirsi veramente a casa. E questa odissea che va da fuori a dentro arriva al lettore passando per una sensazione straniante; dopo aver spiegato in una manciata di pagine quale senso può avere un’autobiografia scritta da un altro, addirittura entrando nella sua voce, Pachet si congeda, sparisce. Uno spazio bianco sulla pagina e la pagina successiva riprende dicendo: “Mia madre è morta quando avevo cinque anni”. Il lettore, a quel punto, ci mette un po’ a capire chi ora sta dicendo “io”. Proiettato, e ben presto smarrito, in quel mondo perduto che è la vita dello shtetl, il villaggio ebraico dell’Europa centro-orientale di cui i fratelli Singer hanno cantato l’epopea, comincia ad appassionarsi alle vicende di un orfano che ama il silenzio e le lunghe passeggiate in campagna.
Ma è costretto a tornare sui propri passi per rimettere a fuoco il disegno: quest’io che ausculta e racconta il proprio passato è il padre non il figlio, il personaggio non l’autore, Pierre Pachet è veramente sparito, nel seguito della narrazione se ne ritroveranno poche tracce sbiadite, un’interferenza sempre più remota. Da una parte, certo, è l’alchimia, o l’acrobazia, l’incantesimo o l’altissimo inganno, di ogni letteratura: nessuna prima persona è più instabile ed equivoca di quella che in un romanzo dice “io”. Solo che Simkha non è un personaggio di finzione – come Meursault ne Lo straniero di Camus – ma una persona, e non una persona qualunque ma quella che nel contempo è più vicina e più lontana dalla vita di chiunque: il padre, un nome che solo a pronunciarlo dà subito luogo a un’inestricabile confusione tra il reale e il simbolico. Si può veramente dire “io” slittando nella proverbiale assenza (e distanza) del padre? Non sarebbe più saggio tentare la via distaccata dell’egli o ricorrere a quel tu che nella tradizione letteraria occidentale sa sempre di preghiera o di invettiva, di desiderio e di lontananza (e che ancora risuona, dopo la kafkiana lettera al padre, ad esempio nel recente monologo di Edouard Louis Chi ha ucciso mio padre)? Ma il problema di Pachet non è né di parlare al padre, né di parlare del padre, o di ricostruirlo, sondandone il mistero nel silenzio della Storia, come fece Claude Simon nella prima parte de L’Acacia. Il suo problema è farlo scrivere.
Nel periodo in cui l’autobiografia, o la cosiddetta auto-finzione, occupano un vasto spazio nella letteratura (Annie Ernaux, Edouard Louis, Ocean Wong) e persino nel teatro (ad esempio in autori come l’argentino Sergio Blanco), mentre il romanzo “finzionale” si appresta a lanciare una controffensiva, nel periodo in cui, insomma, il personaggio e la persona ingaggiano una battaglia che ha per posta in gioco la verità dell’essere, Aubiografia di mio padre, romanzo che viene dal lontano 1987, rompe i confini della disputa, e si impone per la sua capacità di far entrare una voce nell’altra, di generare una voce dall’altra, anche se si tratta di una generazione al contrario, che sovverte l’ordine del tempo e porta l’autore a diventare il padre di suo padre. D’altronde, quello di Pachet è un “romanzo di migrazioni”, dove l’esilio, l’atto di uscire dal recinto dell’identità per essere spinti o gettati altrove, è talmente connaturato al protagonista dal renderlo ignoto a sé stesso. Fin dall’inizio del racconto, Simhka giustifica i difetti di un carattere plasmato da una solitudine irriducibile (che niente, nemmeno il matrimonio o la paternità, riescono a scalfire) sostenendo di essere più un figlio delle circostanze che della propria volontà o dei propri desideri. Carezzato dall’idea di scrivere, o di diventare un grande oratore come il leader sionista Theoder Hertzl, finirà invece per abbracciare la carriera medica, specializzandosi, forse non casualmente, in stomatologia, cioè nello studio della bocca e del cavo orale: la lingua, o meglio le lingue – il russo, il tedesco, lo yiddish, il francese – attraversano il romanzo da parte a parte. Pachet, come poi spiegherà in un saggio intitolato L’atto di emigrare, è tornato sui passi perduti del padre, cercando di riempire i vuoti della sua biografia, per diventare quello che lui non è riuscito o non ha potuto essere, cioè uno scrittore: “Ho voluto far uscire tutto dalla mia testa, non soltanto dare mitologicamente la nascita a mio padre facendolo uscire dalla mia testa e dalla mia voce mentale, ma darmi una voce di scrittore a sue spese, istituendolo come personaggio, lui che non era né un personaggio né un eroe, poiché era mio padre.” Ogni eredità presuppone un vuoto e si predispone all’infedeltà di un’interpretazione, a un tradimento, a una traduzione, tanto impropria quanto necessaria.
C’è un momento in Aubiografia di mio padre in cui figura e sfondo si ricongiungono e il ritratto di Simkha Apachetvsky (o Opochetvsky) coincide senza resti con l’agghiacciante solitudine in cui il popolo ebraico viene sprofondato non solo da chi lo vuole distruggere ma da quella stessa cultura europea nemica del nazismo che aveva promesso di proteggerlo dalla distruzione. E’ il momento in cui la storia contemporanea, come avrebbe scritto Hannah Arendt, crea “una nuova specie di essere umani – la specie che si vede messa nei campi di concentramento dai suoi nemici, e nei campi di internamento dai suoi amici” “Poco a poco” scrive Pachet della Francia ormai pavesata di vessilli nazisti “ la Francia mostrava il volto che avevo sempre temuto di veder apparire: frivolo, passionale, xenofobo. Il vociare delle famose discussioni politiche, orgoglio di tutti i caffè, si era dissolto di colpo e nel silenzio si consumava la metamorfosi: Parigi era occupata, degradata al rango di metropoli secondaria: come Vienna, Varsavia, Praga, presto altre. Ma la Francia della rivoluzione era l’unico paese a conservare un governo sotto l’occupazione straniera, e tale presunta indipendenza era la sua vergogna.” Se la prima parte del romanzo racconta lo sradicamento di un uomo chiuso in sé stesso che alla persecuzione reagisce con il pessimismo e che, tranne una fede abbastanza generica nel sionismo socialista, possiede solo la cognizione del dolore che lo spinge a farsi medico, la seconda è la vera grande acrobazia realizzata della voce alterata, e tuttavia “sommessa e ostinata” come l’ha definita Emmanuel Carrère, di Pachet. Fino a un certo punto, infatti, lo scrittore segue il padre alla stessa reticente distanza che quest’ultimo, nemico giurato della psicoanalisi freudiana, mantiene con sé stesso. Ma nel crescendo della sua decadenza fisica (più precisamente neurologica) anche la lingua accelera il passo: poche descrizioni appaiono più precise e commoventi di quella che nel libro accompagna quasi musicalmente il progressivo smottamento del corpo nella vecchiaia – quel passo, descritto da Pachet, di chi scendendo le scale teme sempre che il piede incontri il nulla – particolarmente straziante quando colpisce persone (per lo più maschi) che, come Simkha, ignorano l’arte di comunicare con gli altri. Ed è proprio in questo distacco crepuscolare tra il corpo e la coscienza, in questa agonia centellinata nella pazienza dello sguardo, che la scrittura del figlio brucia ogni residua distanza con l’intimità del padre, e si riunisce al silenzio del suo corpo.