La cattiva memoria che divide Israele dal suo popolo
Piero Ostellino – Corriere della Sera
A me pare che il modo migliore di celebrare il «Giorno del Ricordo» consista nel non lasciare mai Israele solo di fronte a chi si propone di distruggerlo. Mi pare consista, cioè, nell’evitare di distinguere fra gli ebrei e Israele, fra il popolo israeliano e i suoi governi. Lo Stato di Israele è gli ebrei che non sono più disposti a lasciarsi uccidere dai totalitarismi e dagli autoritarismi politici, dagli integralismi religiosi e dai razzismi di ogni specie. Lo Stato di Israele è gli ebrei che hanno imparato a difendersi. I suoi governi, quale ne sia l’indirizzo, sono la democratica e libera espressione della sovranità popolare. Sarebbe bene non dimenticarlo.
Gli inglesi dicono: « Right or wrong, my country ». Che, tradotto, vuol dire più o meno: «Qualsiasi cosa faccia il governo, io sto col mio Paese». Noi italiani diciamo di essere con gli ebrei, ma precisando troppo spesso che gli ebrei e il popolo israeliano sono una cosa e Israele e il suo governo, soprattutto quando di quest’ultimo non ci piace il colore, sono un’altra.
Così, consciamente o inconsciamente, il nostro sostegno a Israele è ritmato dal succedersi dei suoi governi: Se il governo ha il colore che ci piace siamo incondizionatamente con Israele; se no, finiamo col bruciarne le bandiere. Senza chiederci se, per caso, quei roghi non sconfinino nel razzismo.
La distinzione fra ebrei e Israele, fra popolo e governo israeliani, è politicamente corretta e moralmente accettabile? Penso proprio di no. La distinzione implica, infatti, la negazione morale delle ragioni stesse della nascita dello Stato di Israele, il disconoscimento politico della sua legittimazione internazionale e del suo carattere democratico interno e, infine, della legittimità del suo governo. In realtà, anche se il governo israeliano che uscirà dalle elezioni di oggi rifletterà solo la percezione che una parte della popolazione ha dell’interesse nazionale e, soprattutto, dei modi di perseguirlo, esso rappresenterà l’intero Paese di fronte a chi ne persegue la distruzione. Questo è lo spirito che anima la democrazia israeliana. E che dovrebbe animare anche chi conserva nel proprio cuore il Ricordo.
Da qualsiasi parte la si guardi, la distinzione fra ebrei e Israele, fra governo e popolo israeliani, finisce con essere un modo moralmente e politicamente ambiguo di prendere le distanze da Israele, e da ciò che esso rappresenta per l’intera umanità, con la scusa di prenderle dal suo governo. Essa rischia, infatti, di tradursi, per un verso, in una forma «politicamente corretta» di solidarietà al popolo israeliano per le stragi delle quali è vittima quasi quotidianamente e, per l’altro verso, in qualcosa di più e di peggio della tacita insinuazione che il suo governo, in fondo, se li sia andati a cercare. In definitiva, nella giustificazione politica e persino morale degli attentati.
C’è un dovere speculare al legittimo diritto di criticare il governo israeliano per ciò che fa, ed è di non dimenticare. L’umanità intera ha un debito nei confronti degli ebrei – farsi perdonare, come ha chiesto anche il Santo Padre, le persecuzioni di cui sono stati oggetto – e si è assunta, dopo la spartizione della Palestina, un impegno nei confronti del giovane Stato di Israele: salvaguardarne da quel momento l’esistenza. E’ soprattutto in tempi come questi, di fronte all’insorgenza in tutto il mondo di pericolose quanto odiose manifestazioni di antisemitismo, che le coscienze di tutti noi sono chiamate a mantenere fede a quell’impegno, nel ricordo di quel debito. In Medio Oriente è in corso da oltre due anni una carneficina; siamo, forse, alla vigilia di una guerra con l’Iraq, che molti considerano inutile e foriera di pericolose conseguenze. Sarebbe davvero una forma di regressione politica e morale se, in nome di una malintesa aspirazione alla pace, si volesse rimettere in discussione il diritto del popolo ebraico alla propria esistenza e al proprio focolare nazionale.
Piero Ostellino
postellino@corriere.it
Prima Pagina
La democrazia ha bisogno del giorno della Memoria
di Paolo Bagnoli*
La Shoah: evento unico, centro del Novecento
Senza Memoria non c’è civiltà della democrazia
La storia ha bisogno della memoria, anche in Italia
Non si dimentichi: il fascismo fu pure odio razziale
Torna la Giornata della Memoria. Sappiamo benissimo a cosa ci riferiamo: alla memoria dell’ Olocausto; alla memoria di un evento che ha investito il destino di un popolo, ma che riguarda anche chi non appartiene al popolo ebraico perché esso occupa una posizione centrale nella vicenda storica dell’umanità. Giornata della Memoria per comprendere il senso di eventi che hanno segnato il secolo scorso; per comprenderli fino in fondo in uno sforzo continuo della Ragione di penetrare il perché ciò che è accaduto sia potuto accadere. La memoria, infatti, implica una sfida della Ragione per renderci conto di ciò che la capacità di raziocinio dell’uomo fatica a comprendere. La Shoah è il fatto centrale del Novecento ed essa non è riconducibile ad un semplice sterminio; ad uno dei tanti drammatici stermini che la Storia ha registrato. E’ un evento senza paragoni. Ecco l’obbligo della memoria.
Quella della Shoah non va, infatti, affidata alla categoria del ricordo, raccolta nei confini di sviluppo che la riguardano, ma essa va collocata all’ interno di un più ampio discorso, di riflessione e di approfondimento, della nostra civiltà contemporanea; di una civiltà che, pur con tutte le sue conquiste, non ha cancellato il concetto di alterità, ossia della diversità intesa sotto vari aspetti: religioso, etnico, sociale, sessuale per cui i diversi sono, sempre e comunque, gli altri.
La crisi del liberalismo europeo, la nascita e l’ affermazione dei nazionalismi, hanno prodotto una concezione aberrante dell’idea e della pratica della sovranità nel senso di interpretarla come un dato che si realizza solo nel momento in cui qualcuno annienta l’altro. Così, la distruzione totale di un qualcuno non è solo un fatto teorico: il diritto alla vita, la libertà politica, quella di essere se stessi possono concretamente, in un certo momento – o forse, per meglio dire, in un qualsiasi momento – essere sottratte all’ uomo da parte di un altro uomo. Credo che Auschwitz, tra le tante cose che insegna, insegni soprattutto questa. Ecco un’altra conferma del valore della sua unicità e centralità: il ricordo di Auschwitz, la memoria cioè, costituisce il momento di legame con il dovere di testimoniare la civiltà della democrazia e della pace. La memoria, quindi, diviene fattore operante che riguarda tutti: rispetto ad essa chi fa pratica di libertà e di democrazia ha sempre un dovere: quello di oggi diviene testimonianza per il dovere di domani. Da questo dovere, dalla sua esplicazione, nasce il modo di essere del mondo perché la libertà non è un dato astratto, ma vive solo se si realizza concretamente; da questo dovere nasce il mondo, quello di oggi e quello di domani.
La storia ha, quindi, bisogno della memoria. Elie Wiesel ha detto che l’oblio è il contrario della storia. Aggiungiamo noi che lo è pure la sua falsificazione; parlando delle ragioni della memoria abbiamo il dovere di ricordarlo. Oggi, infatti, nel nome di una non meglio precisata pacificazione e di una ridefinizione del concetto di patria, si assiste all’evolversi di un progetto che, forzando proprio la storia, tende a mettere in equilibrio di valore l’Italia fascista con quella che non lo era e che, anzi, la combatteva; l’Italia della dittatura e delle discriminazioni razziali con quella della libertà; la parità sostanziale dei valori patriottici rappresentati da schieramenti contrapposti. Si tratta di un’operazione che mira a delegittimare la Repubblica e ciò che essa significa per la nostra democrazia le cui radici hanno precisi luoghi storici di riferimento.
Ma sul punto va detto di più. Infatti, se nel dopoguerra, la coscienza collettiva degli italiani non si sentì implicata in una questione quale quella che si verificò in Germania – il famoso dibattito sul cosiddetto passato che non passa – lo si è dovuto proprio all’ antifascismo, alla Resistenza, alla Guerra di Liberazione. Se in Italia il passato è passato è perché la coscienza collettiva del Paese è stata riscattata; perché l’ antifascismo aveva già fatto i conti con un periodo storico le cui conseguenze vedevano già assegnati i ruoli e ciò non può essere oggetto di revisione.
Circolano false letture del nostro passato. Una di queste è che in Italia, sostanzialmente, la questione razziale fu blanda. Quasi tutti i memorialisti della scelta di Salò hanno tenuto a precisare che hanno saputo delle camere a gas dopo la fine del conflitto e ciò è sicuramente vero; ma sia quelli che hanno abiurato alle ragioni della loro scelta giovanile, sia coloro che invece ancora le difendono, non potevano non sapere come, con le leggi razziali del 1938, il fascismo avesse imboccato ufficialmente la ripugnante via della discriminazione antisemita. E fu grazie a quelle leggi che in Italia, a differenza per esempio di quanto avvenne in Francia, i tedeschi non ebbero bisogno di alcuna fase preparatoria per attuare le deportazione del 1943 e 1944.
Giornata della Memoria, perciò, anche come giornata della conoscenza: di ciò che ha prodotto l’ odio razziale, del significato della lotta antifascista, della natura dell’ occupazione tedesca e di come i fascisti vi collaborarono. Fare memoria vuol dire, infine, schierarsi con decisione contro ogni razzismo. Il premio Nobel polacco Isaac Bashevis Singer, forse il più grande scrittore yiddish del Novecento, ha scritto: “Quando tutte le nazioni si renderanno conto che sono in esilio, l’esilio cesserà di essere; quando le maggioranze scopriranno che anch’ esse sono minoranze, la minoranza sarà la regola e non l’eccezione”. Sembra quasi una profezia sulla nostra difficile attualità.
* Professore Ordinario di Storia delle dottrine politiche a Siena, già direttore del Gabinetto Vieusseux di Firenze
http://www.ilnuovo.it/nuovo/foglia/0,1007,167957,00.html
Grazie a Raffaele