Alessia Ardesi
Per capire come gli ebrei pensano la morte e l’Aldilà bisogna andare nel ghetto di Roma. Uno dei posti dove è passata la Storia. Il cuore della più antica comunità ebraica del mondo fuori dalla Terra Promessa, violato il 16 ottobre 1943 dai rastrellamenti dei nazisti, è custodito da quasi vent’ anni dal rabbino capoRiccardo Di Segni. Gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori, come diceva Giovanni Paolo II, e per sapere come immaginano l’oltretomba e la vita eterna ho parlato con lui.
Rabbino Di Segni, com’è l’Aldilà per gli ebrei?
«Al riguardo abbiamo molte idee, e anche principi di fede; ma non è un tema definito con estrema precisione dottrinale. Si parla in particolare di un principio: la resurrezione dei morti».
C’è una vita oltre la morte?
«In un momento della storia o dopo la storia, tutti coloro che hanno vissuto in questo mondo torneranno a vivere. Questo è un principio che noi ripetiamo tre volte al giorno nelle preghiere, benedicendo il Signore che resuscita i morti. Quando questo accada, però, non lo sappiamo. C’è un’idea fondamentale: l’Olam Abbà, cioè il mondo a venire, la dimensione dove entrano tutte le persone che sono state su questa terra e che ora non ci sono più».
Ci spiega meglio, rabbino, l’Olam Abbà?
«Cosa sia esattamente è un po’ azzardato definirlo. È il luogo in cui i giusti saranno premiati, mentre chi non si è comportato giustamente dovrà scontare delle punizioni. Ma nella religione ebraica l’attenzione e la concentrazione sono sulla vita in questo mondo, su quello che dobbiamo fare qui. È molto raro che un maestro dica: “Fate così, perché così andrete nel (cosiddetto) Paradiso”».
Ma allora anche per gli ebrei esistono il Paradiso, il Purgatorio e l’Inferno?
«La parola Paradiso, che a quanto pare è di origine persiana, in ebraico rabbinico è il Pardes, che indica un frutteto. Usiamo piuttosto il termine “giardino dell’Eden”, dal quale l’uomo è stato cacciato e che può essere il luogo in cui le anime tornano. Alcuni autori hanno parlato di qualcosa che assomiglia ai gironi infernali danteschi, su cui si dilunga lo Zohar (il libro dello Splendore, nda), mentre altri hanno omesso queste rappresentazioni».
E lei, come se lo immagina l’Aldilà?
«Non ci sono mai stato, per cui… (il rabbino sorride). Non è al centro delle mie attenzioni. Mi preoccupano di più le difficoltà terrene».
È vero che la resurrezione della carne deriva dall’Antico Testamento e dalla visione di Ezechiele?
«Il profeta Ezechiele (37, 1-14) la rappresenta in una profezia molto suggestiva: immagina una valle piena di scheletri e il Signore, parlando loro, li fa tornare piano piano in vita, infondendoli di spirito e ricoprendoli “di muscoli, tendini, carne e pelle”».
Chi spera di riabbracciare per primo nell’Aldilà?
«Bisognerà vedere se ci sarà un abbraccio, una contemplazione o un incontro. Non sappiamo quello che accadrà. Come principio di fede affermiamo che i morti torneranno a vivere. Come, dove, quando, in quali condizioni resta un grande punto interrogativo. L’idea essenziale è che con il passaggio della morte non finisce tutto perché è una transizione da uno stato all’altro».
Cosa intende per stato?
«Una situazione. Qualcuno per raccontarlo ha proposto un esempio molto suggestivo: la vita fetale, dove c’è una creatura che vive. Poi a un certo punto con il parto si esce in un mondo differente, si entra in un’altra dimensione».
E la morte? Come sono i funerali nell’ebraismo?
«Una persona che sta per lasciarci viene accompagnata negli ultimi momenti dai suoi cari o da un maestro che gli fa recitare alcuni dei nostri testi fondamentali. E lo invita a una confessione generica, senza entrare nei dettagli: “Abbiamo fatto… abbiamo peccato”. Ognuno, nel suo rapporto con il Creatore, ci mette quello che vuole. Senza raccontarlo agli altri».
E poi cosa avviene?
«Dopo il decesso, è prescritto nella Bibbia, bisogna provvedere il più rapidamente possibile, nello stesso giorno, a una sepoltura in terra. Quanto sia antica questa prescrizione lo documenta anche la notizia dei Vangeli su Gesù che dopo la crocifissione venne subito sepolto, prima del tramonto, nel rispetto dell’usanza ebraica. I riti sono essenziali, accompagnati dalla lettura di alcuni salmi e dalle manifestazioni di lutto, a cui sono tenuti i familiari stretti».
Di cosa si tratta?
«Per sette giorni dalla sepoltura chi ha perso un proprio caro deve rimanere in casa, ricevere gli amici e i parenti che lo consolano, rispettando alcuni divieti. Dopo una settimana può riprendere lentamente una vita normale, ma sobria. Ad esempio resta per un periodo l’interdizione a partecipare a feste e eventi pubblici».
Esistono anche altri riti?
«Al ritorno dal funerale i vicini portano alle persone in lutto cibi simbolici: caffè, lenticchie e un uovo sodo, che rappresentano tra l’altro la circolarità della vita».
Potete cremare i vostri morti?
«Prima della sepoltura facciamo un lavaggio del corpo, ma non la cremazione. È la scelta di una tradizione millenaria: il corpo deve tornare alla terra da cui è stato preso».
E andate a trovare chi non c’è più?
«Ci sono momenti speciali in cui si va al cimitero – in ebraico è chiamato Beth ha-kevaròth, “la casa delle tombe”, ma anche, metaforicamente, “la casa dei viventi” – come gli anniversari e le vigilie di alcune ricorrenze. Ma senza esagerare: il rispetto per i morti non deve trasformarsi in culto».
Dove va a finire l’anima?
«Alcuni dicono che abbiamo cinque anime; ma secondo qualche cabalista sono decine. L’anima dovrebbe tornare alla fonte originaria, a quello che è chiamato tecnicamente il deposito originario delle anime».
E la metempsicosi, la reincarnazione delle anime?
«Nell’ebraismo questa idea compare molto tardivamente. Si è fatta strada nella tradizione, ma non è accettata da tutti i maestri che stabiliscono la dottrina».
Come ha reagito la sua comunità alla pandemia? E al lockdown?
«Come tutti: vivendo preoccupazioni, angosce, nevrosi indotte. E le difficoltà economiche che in alcuni casi sono state disastri micidiali. Per l’organizzazione comunitaria abbiamo dovuto fare sacrifici molto grandi».
Quali?
«La vita religiosa in sinagoga e in grandi riunioni familiari è entrata in crisi, come il sistema di insegnamento. Però il mondo digitale ci ha spalancato platee di persone interessate che nemmeno pensavamo esistessero».
Avete perso molti membri della comunità?
«Sì, d’altro canto il virus del Covid non è razzista».
Qualcuno tra voi ha pensato che il Covid fosse una punizione divina?
«Quando si parla in termini biblici di epidemie, esiste anche il tema della punizione. Ma oggi, nel nostro modo di concepire le cose, questo non è accettato. Piuttosto è il tema della responsabilità, che non può essere eluso».
Responsabilità da parte di chi?
«Se le cose vanno male esiste sempre una parte di responsabilità umana».
Prima ha evocato altre pandemie della storia. A quali si riferisce?
«La pestilenza del 1656 arrivò a Roma da Napoli. Ho tradotto le pagine del diario di un rabbino, Zahalon, che era anche un medico, che fu incaricato di gestire l’emergenza della comunità in quel momento. Le autorità pontificie sbarrarono i cancelli del ghetto e nella piazza antistante eressero una forca per dissuadere dalla disobbedienza. All’interno costruirono un lazzaretto. Era un regime terroristico. E ci furono tantissimi morti».
La prova terribile della Shoah non ha indotto il popolo ebraico a dubitare dell’esistenza di Dio?
«La Shoah è stata attraversata da non credenti che sono rimasti tali, da persone che prima credevano e poi non hanno più creduto, e da tanti altri uomini e donne che invece si sono rafforzati nella fede. Il popolo ebraico ha un rapporto dinamico con il suo Creatore. Sa bene che la sua è una storia difficile, fatta di conflitti. Malgrado questo in molti di noi c’è una fede incrollabile».
La strage accanto alla Sinagoga di Vienna è l’ennesimo ritorno dell’antisemitismo?
«Ancora non è ben chiaro cosa sia successo. Abbiamo di fronte un avversario per il quale l’odio antiebraico è solo un condimento di una pietanza più complessa, in cui ci sono l’Occidente, il cristianesimo, l’ebraismo».
Esiste un antisemitismo di sinistra?
«Come no, è quello che gioca sull’equivoco dei poveri contro i ricchi, identificando erroneamente gli ebrei come detentori dei poteri economici. Un vizietto che già compare nel giovane Marx, per quanto fosse il nipote di un rabbino».
Chi è Gesù per gli ebrei?
«Prima di tutto un figlio del nostro popolo. Neghiamo che sia Dio e che sia il Messia, o un profeta. Ma comunque lo riconosciamo come parte della nostra storia».
Quando venne papa Francesco in sinagoga le disse che voleva discutere di teologia…
«E io risposi di no, perché ognuno ha la sua. Avere un dialogo non significa necessariamente andare d’accordo».
Cosa è la speranza per un ebreo?
«Intanto diciamo che c’è speranza. Poi ci possono essere speranze individuali e collettive. Ma soprattutto non basta dire speranza, deve essere buona speranza».
Perché buona?
«È un termine antico che compare nelle nostre preghiere, c’è speranza e speranza. E non è un caso che quando nel 1487 Diaz raggiunse un punto molto a Sud dell’Africa e gli diede il nome di capo delle Tempeste, alla corte portoghese qualcuno suggerì di non chiamarlo con un termine così negativo, ma con un nome beneaugurale. E dalla memoria inconfessabile di qualcuno che aveva imparato le preghiere ebraiche uscì, appunto, Buona Speranza».