Un’interpretazione personale del grande maestro
Massimo Giuliani
Senza alcun dubbio, quest’inizio di XXI secolo non esprime molta simpatia per il dialogo o l’incontro interreligioso. Alcuni esempi: a livello mondiale sta prevalendo l’analisi del politologo harvardiano Samuel Huntington sullo “scontro di civiltà”, e ora anche lo scrittore agnostico Salman Rushdie, forte della sua biografia di perseguitato dall’islam, gli dà ragione strizzando l’occhio ai nuovi profeti dell’agnosticismo, come Richard Dawkins (L’illusione di Dio, Mondadori, Milano 2007), Daniel C. Dennett (Rompere l’incantesimo, Cortina, Milano 2007) e più di recente Jan Assmann (Non avrai altro Dio, Il Mulino, Bologna 2007) per il quale “la religione è il generatore più importante di estraneità e di odio”. A livello italiano, il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti ha categoricamente negato la possibilità che le religioni possano davvero intavolare un dialogo tra loro: “Come si fa infatti a dialogare – si chiede ponendo una domanda retorica – con chi è pregiudizialmente convinto che la propria fede sia l’unica e assoluta verità? (…) Non c’è ebreo, non c’è cristiano, non c’è musulmano che non sia convinto che la propria fede sia la verità. Come fanno gli esponenti di queste religioni a dialogare tra loro?”.
Anche molti intellettuali ebrei, spesso mossi da un genuino amore per lo Stato di Israele, hanno in questi anni denunciato l’ingenuità di chi ancora crede nel dialogo tra ebrei (israeliani) e (arabi) musulmani, o di quanti ancora distinguono tra un islam radicale, fondamentalista e incline a usare il terrorismo come arma politica, e un islam moderato, non fanatico e capace di vedere le ragioni altrui oltre che di spiegare in modo pacifico le proprie. Il vicedirettore del più diffuso quotidiano italiano parla addirittura di complicità con il terrorismo da parte di chi non si schiera ‘contro’, da parte di chi tiene aperte le porte del dialogo
E a poco valgono i richiami storici a ben altri profeti dell’incontro interculturale e del dialogo interreligioso, per esempio (per stare al mondo ebraico) Jules Isaac (1877-1963), che pure ha scritto e fatto contro il pregiudizio antiebraico come pochi altri nel Novecento; André Chouraqui (1917-2007), un monumento alla chiarezza di identità ma anche alla disponibilità nel capire e accogliere l’altro da sé (si veda la sua bellissima Lettera a un amico arabo, da poco tradotto in italiano per i tipi di Medusa); Abraham Joshua Heschel (1907-1972), che accettò l’invito a presenziare alla chiusura del Concilio Vaticano II nel 1965, per il quale “il problema fondamentale non è la sopravvivenza della religione [o delle religioni] ma quella dell’uomo”. Nel mondo cristiano, un velo di oblio è calato in questi anni sul nome di Giorgio La Pira (1904-1977), che nel 1958 – esattamente cinquant’anni fa – promuoveva a Firenze il primo dei Colloqui Mediterranei aperto ad arabi, ebrei israeliani e cristiani d’Europa, evocando non a caso l’immagine della “tenda di Abramo”, una tenda metaforica i cui paletti sono costituiti dal rispetto reciproco, dalla mutua conoscenza, dalla pacificazione tra i popoli.
Sembra infatti che le religioni monoteiste siano oggi attraversate da una febbre o meglio da un’ossessione identitaria che impedisce loro di riconoscere i legami essenziali che le uniscono, e che le induce piuttosto a erigere nuovi steccati, confini più netti, bordi più rigidi e inattaccabili da confusioni o da contaminazioni o da scambi. “Ciò che è mio è mio, e ciò che è tuo è tuo”, direbbero i Pirqè Avot (V, 11), aggiungendo che chi sostiene questa posizione “è un mediocre, anzi, c’è chi addirittura lo assimila ai sodomiti”, in quanto – come spiega un commentatore – costui “non vuole beneficiare di ciò che appartiene agli altri, ma non vuole neppure che gli altri possano beneficiare di quanto è suo”.
In questa linea di rigida difesa della propria identità etnico-religiosa, che si esprime in un ambiguo e forse idolatrico ‘culto delle radici’, prendono non di rado posizione anche esponenti di rilievo della gerarchia cattolica e qualche rabbino ancora ferito dalla rivalità storica tra le religioni monoteiste, memore delle persecuzioni e dei tentativi di conversione coatta, o semplicemente preoccupato di confermare nella fede la propria comunità, di cui è religiosamente responsabile. Il risultato è un sospetto generale su ogni apertura, quasi che dire dialogo significasse dire compromesso sui ‘valori non-negoziabili’ (curiosa espressione di natura commerciale) o indebolimento o cedimento di qualcosa di irrinunciabile che ci costituisce come soggetti, come persone, come narrazioni identificanti. Il risultato è una sfiducia verso l’altro e una rimozione di ciò che unisce allo scopo di sottolineare ciò che divide, ciò che storicamente ha significato conflitto, competizione, scisma, scontro. L’invito di Chouraqui a “fare ritorno alle radici” non aveva e non ha il senso di un adottare lo scontro iniziale come chiave di lettura del presente e come criterio per agire in futuro; aveva e ha piuttosto il senso di un capire quello scontro – soprattutto il “malinteso” ossìa lo scisma giudeo-cristiano, foriero di tante sofferenze per gli ebrei nella storia – per superarlo, per superare pregiudizi e rivalità, interessi partigiani e false interpretazioni, e avviare un’èra di riconciliazione e di inedita collaborazione.
Ora, esattamente questa preoccupazione e il timore che un abbraccio tra ebrei e cristiani affrettato, storicamente ingenuo e inconsapevole, potesse diventare (ancora una volta) invito alla conversione e abbandono della propria identità stanno alla base del messaggio di Rav Joseph B. Soloveitchik (1903-1993), grande halakhista, leader del giudaismo ortodosso americano e filosofo della religione ebraica, allorché nel 1964, in un saggio dal titolo Confrontation (che non significa confronto ma scontro e polemica), scrisse che gli ebrei dovrebbero non intraprendere alcun dialogo teologico con i cristiani, ma limitarsi a discutere e collaborare con loro su questioni pubbliche, tipo giustizia sociale e diritti umani. L’ammonimento ebbe una grande influenza e per decenni tenne lontani, almeno negli Usa e in Israele, gli ebrei ortodossi dalle tavole rotonde e dagli incontri interreligiosi i cui temi fossero, appunto, di natura religiosa e teologica e non meramente sociale o economica. A lungo si è discusso sul senso vero di quella distinzione e in generale di quell’ammonizione. E già in vita un autorevole discepolo di Rav Soloveitchik, lo storico e rabbino Irving Izchaq Greenberg, gli fece umilmente notare che, proprio da un punto di vista halakhico, la distinzione religioso/teologico versus sociale/profano non regge, poiché la halakhà regola tutti gli aspetti della vita senza distinguo di natura etica o religiosa. Rav Soloveitchik non potè che concordare.
Qual è dunque il senso di quell’autorevole scritto? Secondo Greenberg, si tratta di “un testo di tipo ‘marrano’, per così dire, nel senso che le parole in superficie veicolano un certo messaggio mentre la loro profondità sostanziale vuol esprimere un significato diverso”. Ossìa: questa presa di posizione tutelò il maestro dalle critiche e dalla pressioni dell’ala ultra-ortodossa, notoriamente autoreferenziale e chiusa a ogni dialogo con l’esterno sia religioso sia culturale, ma non precludeva affatto sul piano pratico la possibilità di incontro e di scambio tra teologi ebrei e cristiani, come il caso dei coniugi Irving e Blu Greenberg testimonia. “Nella sua onestà intellettuale – scrive Greenberg – Soloveitchik diceva che gli ebrei non hanno il diritto di intervenire nella dottrina cristiana o di cercare di migliorarla così come i cristiani non hanno alcun diritto di riforgiare il giudaismo. Ma noi [mia moglie e io] sentivamo che il solo modo grazie al quale il cristianesimo avrebbe modificato il suo tradizionale ‘insegnamento del disprezzo’ [emblematica espressione di Jules Isaac] verso gli ebrei e il giudaismo sarebbe stato quello di entrare in dialogo con i cristiani sul piano teologico. La nostra posizione era questa: il cristianesimo era troppo importante per essere lasciato solo ai cristiani. E ci sentivamo pienamente giustificati di esprimerci teologicamente poiché ogni insegnamento erroneo su ebrei e giudaismo da parte cristiana avrebbe avuto un impatto negativo diretto sull’integrità e la sicurezza dei nostri figli e dei nostri nipoti” (cfr. Irving Greenberg, For the Sake of Heaven and Earth. The New Encounter between Judaism and Christianity, Jewish Publication Society, Philadelphia 2004). Così Greenberg, pur essendo un rabbino ortodosso, rimase aperto all’ascolto e allo studio dei più significativi teologi protestanti americani della seconda metà del Novecento – in particolare Paul Tillich e Reinhold Niebuhr – e divenne amico di Alice e Roy Eckardt, dai lui definiti “profeti cristiani” per il coraggio di criticare tutto ciò che nella teologia della loro Chiesa (metodista) andava contro la verità storica e religiosa del giudaismo così com’è e come si percepisce. Quando si scriverà una storia dettagliata ed esaustiva dei rapporti ebraico-cristiani dopo la Shoah a livello mondiale, si vedrà la rilevanza di questa straordinaria coppia, unita nella vita e nella missione di ‘purificare’ la teologia cristiana dal peccato originale dell’antigiudaismo.
Torniamo a Soloveitchik e alla sua ammonizione a non intraprendere dialoghi in termini teologici. Essa è stata studiata a fondo anche da un altro rabbino ortodosso, che del Rav è stato allievo alla Yeshiva University, il rosh yeshivà David Hartman. Hartman ha evidenziato come tale ‘divieto’ fosse ispirato dalla particolare condizione storico-esistenziale del mondo ebraico negli anni Sessanta, ossìa a solo vent’anni dalla ferita della Shoah. A suo giudizio, il mondo ebraico era ancora troppo debole e poco preparato per affrontare questo dialogo, dal momento che gli intellettuali ebrei che sarebbero stati coinvolti erano ancora impregnati di un certo illuminismo, ossìa erano troppo influenzati da una visione religiosa aperta sì ai valori universali ma non sufficientemente educata ad apprezzare lo specifico e il caratterizzante del giudaismo stesso. Ciò li avrebbe resi scarsamente capaci di difendere quell’intimità tra Israele e il suo Dio, e il senso della brith di Dio con il popolo ebraico, che spesso non è traducibile nel linguaggio ‘universale’ e ‘universalizzante’ del cristianesimo. “Rav Soloveitchik non poteva accettare alcun tentativo di interpretare il giudaismo attraverso le categorie teologiche del cristianesimo… Giudaismo e cristianesimo – spiega Hartman – sono due comunità di fede distinte, ciascuna con una sua propria auto-coscienza [self-understanding]. Pertanto, ciascuna deve essere compresa nella sua radicale individualità. Nessuna delle due può assorbire l’altra. Ogni tentativo in tal senso violerebbe la dignità intrinseca e l’identità di ciascuna comunità religiosa. Il giudaismo deve essere apprezzato dall’interno e deve essere articolato attraverso le categorie che esso stesso ha sviluppato e non discusso in un linguaggio teologico che ne riduce lo specifico…” (cfr. David Hartman, Love and Terror in God Encounter. The Theological Legacy of Rabbi Jopseh B. Soloveitchik, Jewish Lights, Woodstock, Vt, 2001)
Anche Hartman dunque sostiene che la proibizione del Rav della Yeshiva University non era diretta contro il dialogo interreligioso in astratto ma contro quel dialogo che non rispetta l’autocoscienza di ciascuna religione. Per il giudaismo, appena uscito dal trauma storico della Shoah, questo equivoco avrebbe potuto risultare fatale. Nel 1964 la “teologia cristiana della sostituzione” – che vede nella ‘Chiesa’ il sostituto del popolo ebraico come partner nell’alleanza con Dio ed erede della sua promessa – non era, per così dire, ancora stata sostituita e cambiata in favore di una concezione che facesse spazio per ebrei e giudaismo in modo rispettoso e teologicamente non omicida. O almeno, tale cambiamento era solo all’inizio. Hartman ha sintetizzato al meglio il senso della presa di posizione soloveitchikiana con queste parole: “Il saggio Confrontation va considerato come un responsum politico a riguardo della questione delle discussioni pubbliche e con valore di simbolo politico tra il giudaismo e il cristianesimo in quanto istituzioni. Si tratta di un responsum sul modo in cui gli ebrei devono sopravvivere in una società aperta, che offre sia ricchezze spirituali sia il rischio da paventare dell’assimilazione. Egli non rifiutava l’attuale apertura dei cristiani al giudaismo, ma era conscio e preoccupato circa il modo in cui ogni discussione al riguardo doveva condursi. In quanto leader halakhico e politico di ebrei, che allora erano pochi e deboli, ancora traumatizzati dalla Shaoh, dalla minaccia di assimilazione e dalla perdita di così tanti correligionari nell’orbita dell’Unione Sovietica, egli sentì urgente il bisogno di raccomandare cautela nelle discussioni pubbliche con il mondo cristiano. Contemporaneamente, egli incoraggiò gli ebrei a scoprire il linguaggio dell’azione sociale e a mostrare alla cultura occidentale che gli ebrei non sono indifferenti ai problemi morali della società in cui vivono”.
E qui, forse, sta il livello più profondo del saggio di Rav Soloveitchik, per il quale un ebreo deve sempre sentire in sé la tensione della duplice appartenenza, da una parte alla storia intima e intraducibile con il proprio Dio (e in solidarietà altrettanto intima con l’intero popolo ebraico, sia diacronicamente sia sincronicamente) e d’altra parte alla storia degli uomini in generale, alla società cui l’ebreo appartiene in quanto uomo e ai problemi del suo tempo. Ciò significa vivere a due livelli, quello particolare e quello universale, quello intimo (da tenere quasi nascosto, per proteggerlo) e quello pubblico (da esibire, se richiesti, senza complessi di inferiorità né di superiorità). Lo scontro o la polemica del titolo del saggio non è tanto con il cristianesimo, come di primo acchito si potrebbe pensare, quanto piuttosto con se stessi, con lo standard etico e religioso che il destino ebraico impone, e che raramente è colto dall’esterno, anche in un dialogo ben intenzionato.
Spesso si è voluto vedere in Heschel, e nel suo impegno ‘spalla a spalla’ con i cristiani, il bersaglio delle parole supposte polemiche di Rav Soloveitchik, quasi che Heschel fosse un anti-lituano (la famiglia Soloveitchik viene dalla Lituania) in una moderna riedizione del conflitto tra chassidim e mitnagghedim. Personalmente credo che Rav Soloveitchik avrebbe sottoscritto queste parole di Heschel: “Ciò che occorre è un continuo sforzo per vincere la durezza del cuore, l’indifferenza, e soprattutto ispirare il mondo con l’immagine biblica dell’uomo, per impedire la disumanizzazione dell’uomo… Quanto allo scopo della cooperazione tra le religioni, esso non è l’adularsi né il confutarsi a vicenda ma l’aiutarsi l’un l’altro, mettendo in comune intuizioni e conoscenze, cooperare in imprese accademiche al più alto livello e, ciò che è ancora più importante, cercare nel deserto sorgenti di santità, tesori di silenzio, la forza dell’amore e della cura dell’uomo” (cfr. Abraham Joshua Heschel, Grandezza morale e audacia di spirito, collezione postuma di saggi [1996], ECIG, Genova 2000).
Per gentile concessione di Keshet.