Discorso di Rosh Hashanà 5704 – 1938
Mai, forse, in nessun Rosh ha-Shanà, il nostro Tempio è stato così deserto e abbandonato e non ho visto, come di consueto, l’afflusso dei fratelli alla Casa del Signore; per contro, mai come in questo Rosh ha-Shanà, noi vi siamo entrati con l’animo così appassionato e fervente di ardore religioso, col desiderio intenso di trovarci vicino a Dio e di trovare in Lui pace e conforto. Possiamo ben dire di essere noi, qui riuniti, gli autentici rappresentanti di quella comunità d’Israele che mai mentisce se stessa, anche nelle più gravi e dolorose vicende della vita.
Perché è certamente vero che questo resterà forse il più grave, il più triste Rosh ha-Shanà di questo periodo di guerra e forse di tutta la nostra vita; ma appunto per ciò noi abbiamo oggi l’occasione di valutare tutta la profondità e la pienezza del sentimento religioso che pervade le Tefillod di queste giornate, perché anche per noi è giunta un’ora seria e difficile della vita e di solito mai come nei più tristi frangenti l’animo umano si sente vicino a Dio e anche ad incontrarsi con Lui.
Gravi avvenimenti si sono determinati nel corso di questo anno ebraico; gravi per l’umanità e per Israele. Dinanzi al succedersi rapido ed incalzante di questi avvenimenti, il nostro animo è rimasto sconvolto, turbato, oppresso; spesso noi abbiamo perso il controllo di noi stessi. Sfiducia e smarrimento sono i due termini in cui si può riassumere la vita degli uomini in questi duri tempi: il fallimento di tutti gli ideali, le aspirazioni, le mète che gli uomini si erano tracciati nei loro deboli e vacui programmi terreni; la catastrofica esperienza di una guerra che tutte le altre ha superato per vastità di estensione e per le proporzioni dei suoi effetti micidiali, tutto ciò ha ingenerato negli animi un senso di profondo disagio spirituale e come una rinuncia a quella specifica funzione che l’uomo ha sulla terra; per contro nessun contenuto di vita profondamente spirituale ha potuto occupare gli animi e perciò un senso di sbigottimento si è ingenerato e diffuso, e purtroppo dobbiamo dire che anche noi, figli d’Israele, non abbiamo fatto eccezione e ci siamo anche noi abbandonati in preda all’angoscia e al tormento.
E questo è ancora, anzi proprio ora, lo stato d’animo in cui versano gran parte dei nostri fratelli; ma dove è allora quella forza dell’anima ebraica, quella capacità di resistenza che lo spirito ebraico aveva da secoli ereditato dai padri e che si era temprata alle più dure prove?
Ma dove è quello spirito di sacrificio e di rinuncia, di fede e di abnegazione all’idea che pure noi abbiamo imparato a conoscere, ad ammirare nelle pagine meravigliose della storia d’Israele?
È forse questa la riprova del forte decadimento della nostra religiosità? Un fatto è certo: che molti, forse troppi di noi, sono stati inferiori a loro stessi, dimenticando le più grandi verità della vita d’Israele e le più grandi esperienze della nostra storia: la vita e la storia d’Israele ci hanno sempre insegnato l’alternarsi della dura e della fausta sorte, ci hanno sempre fatto conoscere la precarietà e la caducità di queste terrene vicende a cui invece noi diamo straordinaria importanza; esse ci hanno insegnato invece l’eternità dello spirito e la sopravvivenza dell’idea di Israele.
Se noi uomini siamo soggetti ed esposti al bene e al male, alla fortuna e alla sfortuna, alla vita e alla morte, sono verità che mai dovremmo dimenticare, anche se siamo così disperatamente attaccati alla vita nel suo significato più materiale e terreno; sono verità che ci vengono rilevate in modo eloquente da queste solenni giornate, anzi da queste tremende giornate, Yamim Noraim, che stiamo attraversando e celebrando, della cui severa denominazione ora possiamo misurare tutto il significato. Severe e tremende giornate perché in esse si pesano i destini degli uomini e dei popoli, perché in esse si decide la sorte degli individui, la sorte delle collettività; e noi in questi ultimi anni abbiamo avuto la riprova, che proprio nel giro di questo periodo si sono verificati grandi eventi e grandi decisioni.
Ebbene, dopo un anno di travaglio, eccoci di nuovo al traguardo, eccoci di nuovo dinanzi al Tribunale celeste e dinnanzi a quel Padre che noi ardentemente invochiamo, ma della cui grande giustizia e verità mai dovremmo dubitare. Ora proprio in questi giorni in cui noi dovremmo astrarci dal mondo e chiuderci nel nostro Io più vero, proprio in questi giorni di preghiera e di ravvedimento, noi dovremmo ricordare che in mezzo a tanta rovina, a tante distruzioni e a tante delusioni, una cosa è rimasta intatta e inviolata, una cosa sacra, alta e pura: la nostra coscienza. In mezzo alle sparizioni di tanti beni, noi dovremmo ricordare questo, che è il nostro bene più prezioso e più caro, veramente eterno, di fronte alla vanità di tutto.
Noi possediamo questo bene, ma spesso non sappiamo valorizzarlo: invece proprio ora dovremmo custodirlo, potenziarlo, farne uno scudo e una difesa per le tristi avversità della vita. La nostra coscienza, la nostra fede, la nostra sicurezza di Dio dovrebbero sempre sostenerci, proprio in queste ore gravi della vita: chi si abbatte, chi prega, chi non resiste, ha perduto la sua coscienza e la sua fiducia nel suo Dio.
«Lo kheelle chéleq Ya’aqov – non così dovrebbe essere la sorte d’Israele». La coscienza di sé, il valore assoluto ed eterno della vita ha sempre sostenuto Israele nelle sue ore più gravi e così deve essere anche oggi per noi; e ci risuona l’eco del grido appassionato del poeta ebreo, che, di fronte alle tragiche esperienze della sua esistenza, esclamava nel duro esilio per sé e per i suoi fratelli di sventura: «Ma tishtochachi nafshì umà tehemì ‘alày hochìli lelohim – perchè sei così triste, o anima mia? perché gemi per me? Spera in Dio». «Spera nel Signore», questo è il grido dell’anima ebraica che non vuole piegare sotto sventura. Sperate nel Signore, fratelli vicini e lontani, rivolgetevi a Lui in questi giorni di Tefillàh, implorate la Sua clemenza e il Suo perdono; immergetevi nella profondità di queste nostre sublimi preghiere, di queste la potenza accorate invocazioni di cui difficilmente si potrebbe superare e la sincerità, ritrovare nei loro accenti tutto il pathos dell’anima secolare di Israele, tempratasi a tutte le avversità della vita. Unitevi a noi nella preghiera e pregate con intensità e commozione nelle vostre case, ovunque vi troviate.
Un’onda di conforto scenderà sui vostri animi e su quelli dei tanti nostri fratelli, infinitamente più di noi provati da questa dura procella della vita: è vero, purtroppo, che molti dei nostri fratelli han dovuto soccombere, è vero che le comunità sono disperse e frazionate, che alcuni dei nostri Templi sono distrutti; è vero che le famiglie smembrate e che molte madri sospirano e pregano per i figli lontani, che la desolazione e l’ansia dell’immediato domani amareggiano la nostra esistenza; ma è altresì vero che anche le grandi calamità hanno il benefico influsso di temprare e purificare e rafforzare gli animi, riportandoli a Dio, è vero soprattutto che grande e misericordioso è il Padre che è nei cieli, che infinitamente provvidenti e salutari sono le Sue vie e che Egli, anche attraverso la sventura e il dolore, può far nascere e spuntare i germi del conforto e della speranza della vita.
E, questa speranza della vita, Israele non ha mai perduto, non ha mai dimenticato, anche quando la vita sembrava allontanarsi da lui; questa speranza di vita noi ricordiamo nel grido appassionato: «Zokhrénu lechayim mélekh chafétz bachayim – ricordaci per darci vita, Re cui è grato accordar la vita». Con questa verità nel cuore, fatevi forti, fratelli, ed io sono certo che il Dio d’Israele, dei nostri Padri, che ci ha guidati e sorretti fino a questo giorno, che ci ha preservati in vita da tanti pericoli e insidie, Egli, Padre clemente e misericordioso, ricorderà ancora noi tutti per la vita in questo fatidico giorno di Rosh ha-Shanà e vorrà benedire noi, le nostre famiglie e i nostri cari e vorrà ancora, come dice il poeta, consolarci un giorno in proporzione di quanto ci ha addolorati, e farà sì che se nel pianto abbiamo seminato, possiamo raccogliere nel giubilo e veder spuntare presto quell’epoca di shalom, di pace e di salvezza, di conforto e di speranza, di guarigione e di risollevamento, che noi imploriamo nel nostro «qaddìsh » per qaddish » per Israele e per l’umanità: ba’agàla ubizmàn qarìb = presto e ai nostri giorni, Amen.