È il più giovane superstite del campo nazista di Buchenwald ed è diventato Rabbino Capo di Israele. Amato da tutti, laici e religiosi, vero maestro della mediazione, spiega: «Bisogna educare alla conoscenza reciproca; senza non può esserci rispetto». Nella sua storia, un forte legame con l’Italia
David Zebuloni
Esistono poche figure concilianti quali quella di Rav Yisrael Meir Lau, specie in uno Stato complesso come Israele, specie in un’epoca tormentata come la nostra. Mettere d’accordo tutti, o quasi tutti, risulta pressappoco impossibile, considerato il solco profondo che divide il mondo ortodosso da quello laico: non solo da un punto di vista religioso, ma anche politico e culturale. Eppure Rav Lau sembra riuscirci senza troppi sforzi e senza fare sconti a nessuno. Con quel suo sorriso da nonno comprensivo e complice, le sue parole spesso taglienti vengono accettate con più tolleranza da chi solitamente non si manifesta bendisposto a esternazioni di natura religiosa.
Nato in Polonia nel 1937, Rav Lau, all’epoca conosciuto come il piccolo Lulek, era l’ultimo dei quattro figli del Rabbino Capo della Comunità di Piotrków Trybunalski, Rav Moshe Chaim Lau. All’età di otto anni Lulek entrò con il fratello Naphtali nel campo di Buchenwald e quando, il 12 aprile del 1945, il campo venne liberato, Lulek fu il più giovane prigioniero a sopravvivere. Lui e il fratello Naphtali furono dunque gli unici membri della famiglia Lau a rimanere in vita, nonché gli ultimi eredi di una delle dinastie rabbiniche più antiche d’Europa.
Nessuno all’epoca poteva immaginare che il bimbo rimasto orfano un giorno potesse diventare a sua volta Rabbino Capo dello Stato d’Israele, ma così accadde nel 1993, quando rivestì la carica dopo essere già stato Rabbino Capo della città di Tel Aviv e di Netanya.
Nel caso di Rav Lau, l’identità di superstite e quella di guida spirituale non si sono mai annullate a vicenda. Al contrario. In parallelo ai numerosi commenti sui testi sacri, Rav Lau non ha rinunciato a pubblicare la sua biografia Do not raise your hand against the boy (Non alzare la tua mano sul fanciullo), tradotto in sei lingue e diventato un best seller. In aggiunta alle lezioni di Torà, Rav Lau non ha mai smesso di raccontare la sua prigionia nei campi di sterminio. Insieme alle prestigiose cariche rabbiniche, Rav Lau è stato nominato anche Presidente Onorario del Museo della Shoah di Yad Vashem. Oggi, all’età di 82 anni, Rav Lau è tornato ad essere Rabbino Capo di Tel Aviv, mentre il figlio, Rav David Lau, ricopre la carica di Rabbino Capo di Israele, continuando così a sua volta l’antica dinastia rabbinica di famiglia. Lo incontro nel suo ufficio nel cuore di Tel Aviv, seduto dietro alla sua grossa scrivania ricoperta di libri. Rimango travolto dalla sua energia, dalla sua insaziabile voglia di raccontare. Dietro le spesse lenti degli occhiali, cerco lo sguardo di quel bambino che un tempo Rav Lau è stato. Quando ormai ogni speranza sembra perduta, proprio prima di congedarmi, un’ultima domanda posta quasi casualmente mi ha finalmente permesso di scorgerlo: eccolo, Lulek.
Rav Lau, negli ultimi decenni le è capitato di visitare numerose volte le Comunità ebraiche d’Italia. Lei è stato inoltre il primo Rabbino Capo d’Israele a incontrare il Papa, all’epoca Giovanni Paolo II. Qual è il ricordo più intenso che nutre di queste visite?
«Il mio rapporto con l’Italia ha un grande valore sentimentale, e ti spiego perché. Dopo la guerra sono stato adottato da Rav Mordechai Vogelmann, mio zio acquisito, ovvero marito della sorella del mio papà. Rav Vogelmann aveva fatto due dottorati a Firenze e penso che fosse l’unico Rabbino della storia ad aver insegnato i testi del Rambam in Vaticano. Suo fratello era Schulim Vogelmann, proprietario dell’unica tipografia ebraica italiana.
La Giuntina?
Esatto, proprio quella. So che esiste ancora. Come puoi capire io sono cresciuto ascoltando questi racconti e l’Italia rappresenta per me moltissimo sin dalla prima infanzia. Nel 1970 ricordo di aver pregato per la prima volta nel Tempio in Via Farini 4, il tempio di Rav Belgrado. Prima di lui c’era Rav Cassuto. Poi arrivò Rav Levi. Me li ricordo tutti. Ora mi credi quando ti dico che il mio rapporto con l’ebraismo italiano è molto speciale?
Credo che lo sia in particolar modo quello con la Comunità ebraica di Roma. Giusto?
Da giovane mai mi sarei sognato di parlare al Tempio Maggiore di Roma. Capitò invece, numerose volte. La prima fu in onore dei cinquant’anni della carica di Rav Elio Toaff come Rabbino Capo. Oggi invece sono in contatto con il Rabbino Riccardo Di Segni, lo ritengo un caro amico. Il Papa Giovanni Paolo II invece lo incontrai a Gerusalemme, quando venne in visita al Muro del Pianto. Lasciò tra le antiche pietre un biglietto in cui chiedeva perdono per il male che la Chiesa aveva inflitto al popolo ebraico, definendoci “fratelli maggiori”.
Nel tempo che ci è concesso vorrei riportarla indietro nel tempo. Lei è il più giovane superstite del campo di Buchenwald. Cosa vedono gli occhi di un bambino di otto anni che i prigionieri più grandi non riescono a vedere?
Un bambino vede tutto. Un bambino capisce tutto. Tutto.
Rav Lau, la guardo, la osservo e mi domando che cosa sia rimasto di quel bambino separato dalla mamma e diventato prigioniero, nell’uomo sorridente seduto di fronte a me.
Beh, è rimasto l’ebreo che è in lui.
E cos’altro?
Qualche anno fa, in occasione del mio compleanno, Benjamin Netanyahu venne a casa mia a farmi gli auguri. All’entrata di casa vide appesa una fotografia che mi raffigurava insieme alla mia famiglia. Io ho otto figli, con la tua immaginazione cerca di moltiplicare il numero di nipoti e pronipoti presenti nella fotografia e cerca di visualizzare la quantità di persone che mi circondavano. Ecco, dopo due minuti che fissava la fotografia senza distogliere lo sguardo, Netanyahu si girò e mi disse: «Incredibile che tutte queste vite provengano da un bimbo di otto anni orfano ed affamato. Si tratta proprio di un miracolo». Ecco cosa è rimasto di quel bambino.
C’è un fenomeno che personalmente mi preoccupa moltissimo e che riconosco sia in Israele, sia nelle Comunità ebraiche della diaspora. Esiste una crepa profonda, una spaccatura tra il mondo ortodosso e quello laico. Una spaccatura che genera odio e rancore. Esiste una cura capace di rimarginare questa ferita?
La cura esiste e si chiama educazione. Bisogna educare alla conoscenza reciproca. Senza conoscersi non ci si può rispettare. Ciò mi riporta al mio periodo di insegnante nelle scuole pubbliche, prima che diventassi Rabbino. All’epoca non esisteva allievo che non studiasse la Bibbia. Oggi invece gli allievi finiscono il liceo senza aver aperto un testo sacro, neppure il più semplice e basilare. Come ci si può rispettare senza conoscere le proprie radici?
So che in ogni intervista le pongono la stessa domanda sulla fede dopo l’Olocausto e io vorrei evitarla in tutti i modi, perché so che la fede lei non l’ha mai persa. Mi permetta tuttavia di domandarle: pensa che ci sia spazio per un grido di rabbia nel dialogo con Dio?
Lo spazio c’è e non necessita di una spiegazione. Esiste, è naturale. Ma quando analizzo la vicenda dalla giusta prospettiva, mi rendo conto che ci sono cose che noi non possiamo sapere, che non possiamo capire. Ed è giusto così. Possiamo vedere il sole, vero? Ma possiamo forse toccarlo senza bruciarci? Se vivrai secondo questo principio, David, riuscirai a riconoscere la grande differenza che c’è tra la logica e la fede.
Prima di salutarci vorrei tornare con lei al giorno della liberazione dal campo, quando il Rabbino dell’esercito militare americano, Rav Hershel Schachter, la vide e le chiese con le lacrime agli occhi quanti anni avesse. Lei rispose: «Sono più vecchio di te, perché tu piangi e ridi come se fossi un bambino, mentre io non piango e non rido ormai da molto tempo». Rav Lau, quando ha ricominciato a piangere e a ridere come un bambino?
Ah! questa è proprio una bella domanda, non me l’avevano mai posta prima. Purtroppo devo ammettere che non ho una risposta da darti, ero troppo piccolo per ricordarmi un dettaglio simile.
Trovo curioso tuttavia che tu mi abbia posto questa domanda proprio oggi. Sai, finita la nostra intervista vado a Gerusalemme, al museo di Yad Vashem ad incontrare il figlio di Rav Hershel Schachter, arrivato oggi in Israele dal Canada. Sì, trovo davvero curioso che tu mi abbia posto questa domanda. Davvero molto curioso».