Ancora sull’antisemitismo della casta dei giornalisti
Nicola Borzi – 14.02.2006
Scrivo perché anche altri sappiano cosa significa, ieri e oggi, antisemitismo in Italia, come il fenomeno sia carsico anche nel mondo dell’informazione, come molti “rispettabili” colleghi ne siano portatori più o meno palesi. Anche quando non si parla di noi stessi, si scrive sempre e solo per fatto personale. Queste parole non faranno eccezione. Scrivo perché gli avvenimenti della “Voce di Mantova” mi offrono un’occasione per testimoniare su cose alle quali ho assistito personalmente, una decina di anni fa.
Prendo questa opportunità perché anche altri sappiano cosa significa, ieri e oggi, antisemitismo in Italia, come il fenomeno sia carsico anche nel mondo dell’informazione, come molti “rispettabili” colleghi ne siano portatori più o meno palesi.
Perché ne scrivo solo ora? Perché da molti anni non leggo “La Voce di Mantova” e, se non fosse stato per l’articolo di “Diario” di venerdì scorso, non avrei avuto alcun modo di capire fino a che punto si fosse spinto il suo (ex) direttore.
È il mio modo per dissentire anche da chi, come la “Gazzetta di Mantova”, su questi avvenimenti ha preferito non dire nulla, assolutamente nulla. I colleghi di quel giornale, da me interpellati, mi hanno risposto che la decisione del silenzio è stata presa per non dare altra pubblicità (con tutta la forza dovuta al loro mai scalfìto primato nelle vendite locali) alle posizioni vergognose assunte della “Voce”.
Io credo invece che il silenzio non sia mai la risposta adatta. Ho scelto questo mestiere perché credo che la testimonianza, anche – o forse soprattutto – quella non richiesta, sia il solo modo di rendere giustizia.
Se è anche con la parola che si perpetua l’offesa, è solo con la parola che si rende giustizia alla verità. Una verità che, per me, non è astratta, ma in questo caso ha i nomi e i volti delle vittime, degli oltre 8mila ebrei deportati dall’Italia tra il 1943 e il 1945, dei quarantaquattro tra loro che vennero arrestati a Mantova.
So che qualcuno troverà da ridire. Da giornalista mi accingo a scrivere di colleghi (e già questo è un “tradimento” alla solidarietà di casta che raramente la categoria perdona, perché dei colleghi si può liberamente sparlare – uno sport molto praticato – a patto di restare anonimi) e soprattutto a scrivere male di colleghi “caduti in disgrazia” (il che è ancora più imperdonabile, poiché oggi si deve dimenticare comunque, ogni cosa e anche molto in fretta, visto che non c’è tempo e occorre sempre “passare ad altro”).
Ma non ho alcuna intenzione di scusarmi per quello che scriverò, il che mi porta a violare un’altra delle leggi non scritte della professione: «I giornalisti si scusano sempre con noi in privato per quello che hanno scritto contro di noi in pubblico». Perché sono d’accordo con chi ha affermato che «c’è questo da dire in favore del giornalismo moderno. Dandoci le opinioni degli illetterati, ci tiene in contatto con l’ignoranza della comunità» e, tuttavia, concordo pure sul fatto che «non è affare mio difenderlo. Giustifica la sua esistenza attraverso il principio darwiniano della sopravvivenza del più volgare».
Ho frequentato la “Voce di Mantova” ancora prima che uscisse in edicola: inviato dall’Istituto di formazione al giornalismo di Milano come stagista, venni assunto ventisettenne come praticante l’8 febbraio 1993. Nel palazzo Bonaccolsi ho lavorato fino al 30 agosto 1996.
Per tre anni e mezzo ho vissuto in prima persona quello che può avvenire nella redazione di un piccolo quotidiano di provincia. Da testimone diretto, avrei molte cose, e più di qualcuna poco edificante, da raccontare per dare un’idea dell’ambiente; da cronista, mi atterrò al tema.
In quel palazzo di Piazza Sordello si faceva un giornale che raccoglieva le posizioni politiche di molti, ma soprattutto dei filoberlusconiani della prima ora, degli ex craxiani (sia di quelli avversi a “Mani Pulite” che dei convertiti fans del “tintinnar di manette”), della destra traghettata da Fini in Alleanza Nazionale e, per un certo periodo, anche di quella Lega Nord.
Non era la collocazione politica a me più consona, ma tant’è: quando si è alle prime armi non si ha la possibilità di scegliersi la testata per cui si scrive, al massimo – se viene concessa l’opportunità – la si cambia appena possibile. Cosa che ho fatto.
Era proprio la Lega il partito al quale non faceva mistero di sentirsi vicino Davide Mattellini. L’entusiasmo con cui esibiva le sue convinzioni politiche era tale che, quando il movimento di Bossi fece cadere il primo Governo Berlusconi, Mattellini passò più di un guaio, e non di poco conto, con i vertici del giornale (più vicini ad An che a Forza Italia), poco inclini a riconoscere la libertà di pensiero dei giornalisti e ancor meno a tollerarne la libertà di espressione, quando questa rompeva “la linea” dettata dall’alto.
Forse è da quell’esperienza, che seguiva quelle non troppo dissimili che raccontava di aver vissuto quando collaborava con la “Gazzetta di Mantova” (il quotidiano concorrente, da cui proveniva come gran numero dei giornalisti della “Voce”), che ha dato a Mattellini lo spunto per sentirsi “perseguitato” per le proprie opinioni.
Quella “prima” Voce – ma forse occorrerebbe dire la seconda, visto che la prima era quella pubblicata nel Ventennio fascista – non ebbe successo, con vendite che non si allontanarono mai molto dalle cinquemila copie, e poco tempo dopo che me n’ero andato a lavorare in un’altra testata il giornale venne chiuso.
Ripartì qualche mese più avanti nella sua versione attuale, come cooperativa, con molti giornalisti in meno rispetto alla prima versione. Sulla poltrona di direttore della nuova testata finì per sedersi Mattellini, il “martire della libertà di espressione” che l’ha diretta sino a pochi giorni fa.
Alla “Voce di Mantova” l’antisemitismo c’era, eccome. Non ero personalmente presente al fatto, ma ricordo bene come mi vergognai quando – poche ore dopo gli avvenimenti – altri colleghi mi raccontarono l’episodio riferito a Marina Morpurgo da Fabio Norsa, il presidente della Comunità ebraica di Mantova, che vide protagonista Mattellini in Sinagoga nel 1995.
Ma c’ero quando in redazione a tarda sera le barzellette antisemite fioccavano, quando ogni occasione era buona, da parte di più che qualcuno, per ridere sulla Shoah, per farne oggetto di scherno e di dubbio. Ma Mattellini non era il solo a ridere di quelle infamie (raccontate ad alta voce in redazione da altri), anzi Mattellini non era forse nemmeno il più esagitato.
«Stiamo solo scherzando», ribattevano quando protestavo – inutilmente – per farli smettere. Spesso capitava che più protestavo, più ottenevo il risultato opposto a quello che cercavo, e qualche volta finivano per chiedermi con fare sprezzante se “per caso” fossi ebreo anch’io.
Quello che non sopportavo era il silenzio pressoché generale. Molti colleghi tacevano, di fronte a quelle bestialità, chi forse per paura delle rappresaglie delle gerarchie interne (anche qualcuno tra i capi si divertiva con quei lazzi), chi per evitare lo scherno cui si esponeva chi non stava zitto. O anche solo per non venire isolati, per non uscire dalle righe, per non alzare la testa.
Ma la cosa peggiore era un’altra: la dissimulazione di quegli stessi colleghi che si dilettavano di queste ignominie “in privato”, ma si guardavano bene dal ripeterle in pubblico. Davanti al direttore e agli azionisti della società editoriale, come anche ai lettori che ci venivano di quando in quando a trovare al giornale, non osavano ripetere i loro abomini. La loro vergognosa rappresentazione era riservata a un pubblico “scelto”, a tarda ora, quando il rischio di venire ascoltati da orecchie “inadatte” era pressoché nullo.
Ci sono molti modi per indicare questo antisemitismo “carsico”. Ne scelgo due, uno “alto” e uno “basso”, che a mio avviso lo connotano entrambe.
Nella “Mente prigioniera” Czesław Milosz ha descritto le diverse categorie del ketman applicate (dagli intellettuali, ma non solo) per sopravvivere nelle democrazie “popolari” dell’Europa dell’est. Il comportamento consiste nella dissimulazione delle proprie reali opinioni, fino al loro ribaltamento e alla loro negazione pubblica quando il silenzio non sia sufficiente a dare testimonianza di “fedeltà” al regime.
C’è poi un modo di dire, a Mantova, che illustra altrettanto bene questo comportamento. È passato in proverbio il consiglio che si dava al contadino che andava di notte per i campi: per evitare di finire nei fossi, lo si esortava sempre a “stare dalla parte del granturco”. Per evitare brutte cadute, inizialmente, ma col tempo a significare che conviene stare dove c’è comunque da mangiare, dove c’è “sicurezza”: dalla parte del più forte, insomma.
In quest’epoca di political correctness imperante, mi chiedo quanti, anche tra i giornalisti e gli intellettuali (ma non solo) non abbiano smesso di professare l’antisemitismo interiore e lo nascondano invece in pubblico, utilizzando proprio il ketman.
E mi chiedo anche quanti, a Mantova come altrove, siano disposti a seguire docilmente il gregge, oggi dalla “parte del granoturco” della “correttezza politica”, così come ieri dalla parte dei persecutori, magari per saltare di nuovo il fosso domani, se una mutata convenienza lo richiederà.
Una categoria, quella della “correttezza politica”, che trovo troppo facile da utilizzare. O strumentalizzare, come ha fatto Vittorio Sgarbi.
Il critico d’arte ex parlamentare (ed ex sottosegretario ai beni culturali) di Forza Italia, amico personale dell’ex direttore della “Voce”, per commentare la vicenda sul “Giornale” del 13 febbraio non ha trovato di meglio da scrivere che Mattellini sarebbe un “martire” della verità, un “difensore della croce”, contro la dittatura dell’ipocrisia:
«Oggi Davide Mattellini cade, è costretto a dimettersi perché è accusato di antisemitismo. Sembra un paradosso se si medita a quali posizioni ha assunto la sinistra italiana rispetto allo Stato di Israele, quali accuse sono state indirizzate agli israeliani in nome della resistenza palestinese, in difesa di Arafat e a giustificazione di atti terroristici contro Israele.
Una parte cospicua della sinistra è antiamericana e antisraeliana. Eppure l’antisemita è Mattellini. Intellettuali e anime belle, in nome di condivisibilissimi principi dei rappresentanti dell’Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, lo hanno riconosciuto colpevole per la leggerezza di avere adottato espressioni caricaturali per difendere il simbolo della Croce Rossa… È stato vittima del pregiudizio, del politicamente corretto che impone forme e linguaggi, spesso ipocriti, che nascondono crudeltà e violenza, in nome di un’ideologia prevalente.
Egli ha parlato per quell’istinto di difesa di ciò che è dentro di noi e di cui sembrerebbe ci dovessimo vergognare. Vergognarsi della croce, rimuoverla, cancellarla, rinnegare in essa il Cristo… L’ironia è considerata offesa. Così il politicamente corretto può eliminare una voce libera perché stonata. E, con ciò, impedirle di parlare».
Da cattolico (ancorché per nulla nostalgico della messa in latino, come lo è Mattellini) non credo che, semmai la croce abbia bisogno di difese, accetterebbe difese come queste.
Sento completamente mie, invece, le parole di don Primo Mazzolari, un grande prete e scrittore della mia stessa Bassa, che non smise mai di interessarsi ai “lontani”, che non temeva di parlare e di spendersi a favore del dialogo tra cattolici, ebrei, protestanti, non credenti, socialisti, comunisti. Uno che scriveva «combatto il comunismo, amo i comunisti».
Nel “Compagno Cristo – Il Vangelo del reduce” (scritto a partire dal 1942 e pubblicato nel 1945, immediatamente dopo la fine della guerra) Mazzolari evocava la shoah come «uno degli aspetti più disumani della guerra», ma ricordava anche il «tragico e vile silenzio» di tanti.
Ma oggi la situazione è grave, anzi è più grave di allora. Lo aveva già scritto anni fa (sul “Manifesto”) il compianto Cesare Cases:
«Come mi disse una volta Primo Levi, noi due non ci saremmo mai accorti di essere ebrei se non ce lo avessero dimostrato in modo alquanto persuasivo. Lasciamo andare la questione “italiani brava gente”… oggi le cose stanno diversamente, cioè peggio: da una parte il nazismo ha offerto un capitale di antisemitismo moderno cui si può sempre ricorrere; dall’altra il prosperare del fondamentalismo [ebraico e musulmano, ma anche cristiano, cfr. il caso Pivetti] rimette all’ordine del giorno un tipo di antisemitismo che si sperava [almeno quello!] superato. Inoltre la creazione dello Stato d’Israele favoriva la confusione tra antisionismo e antisemitismo.
Paradossalmente, quindi, c’era in giro meno antisemitismo in Italia quando esso era ufficiale che adesso, tanto che dopo il libro di De Felice sugli ebrei durante il fascismo si annoverano le persecuzioni antisemite tra le cause del distacco delle masse italiane dal regime… Ma per quanto sapesse di copiato, l’antisemitismo italiano aveva la sua efficacia, oggi sottovalutata grazie alla nuova prosperità e arroganza del neofascismo accordatosi al berlusconismo e divenuto ben accetto ai salotti borghesi e in parte, ahimè, anche a quelli di sinistra, non in nome del comune anticapitalismo ma in nome della comune appartenenza all’ambito “democratico”. Il comunismo essendo ormai all’acqua di rose, anche il fascismo pretende di essere tale, anzi di esserlo sempre stato prima del 1938 e dello sciagurato influsso dell’alleato antisemita. Ma questo influsso fu in realtà, come gli studi mostrano sempre più chiaramente, una capitolazione totale da parte dell’Italia.
Per fortuna ci sono ancora testimoni che conservano, per dirla con Primo Levi, la “memoria dell’offesa”. Certo l’offesa non ebbe spesso la gravità e la tragicità di quella toccata a Primo Levi, né si possono mettere sullo stesso piano il sopravvissuto di Auschwitz e il ricco ebreo per cui la persecuzioni significò soltanto un “dorato” esilio in Svizzera. Ma l’intenzione di umiliare e offendere tutti gli ebrei c’era sempre, perché il segreto dell’efficacia del razzismo sta nella possibilità di rivincita che esso offre agli umiliati e agli offesi».
Proprio per evitare di dare nuova voce alla canea di quelli che, come Davide Mattellini, si ritengono “umiliati e offesi”, oltre che per non lasciare senza sostentamento la sua famiglia, mi auguro che l’ex direttore non perda il suo lavoro alla “Voce di Mantova”.
Alla redazione sportiva, ora che la squadra biancorossa frequenta i piani alti della serie B di calcio, hanno certamente bisogno di una mano. Spero solo che, anche in quella collocazione, non trovi il modo per fraternizzare con certi lugubri personaggi da curva che sempre più spesso espongono svastiche e altre simili “raffinatezze” nei nostri stadi.
http://www.ilbarbieredellasera.com/article.php?sid=15079