Il Rabbino Capo di Milano replica alla lettera di Stefano Jesurum pubblicata dal Bollettino e che criticava alcune sue decisioni (clicca qui)
Alfonso Arbib
Contrariamente alle mie abitudini interverrò sull’articolo del consigliere Stefano Jesurum. Lo faccio perché alcune delle cose dette mi riguardano direttamente e riguardano più in generale il Rabbinato e il ruolo di un rabbino nella comunità ebraica. Jesurum insiste molto sul concetto di accoglienza e conclude il suo articolo dicendo “vogliamo che i nostri nipoti e i nipoti dei nostri nipoti abbiano la possibilità, domani, di trovare ancora una Comunità ebraica di Milano a cui iscriversi”. Sono perfettamente d’accordo, il problema è come si ottiene questo risultato. Lo si ottiene sicuramente accogliendo le persone, creando occasioni di incontro fra persone di origine e idee diverse, aprendo le proprie case, creando la possibilità di vivere insieme momenti significativi di vita ebraica e rafforzando i luoghi tradizionali di aggregazione della comunità il tempio e la scuola. Nel mio piccolo ho tentato sempre di farlo. La domanda però è se l’atteggiamento di accoglienza implichi il dire sempre di sì e non esprimere mai il proprio dissenso o la propria disapprovazione. Io credo che dire sempre di sì sia profondamente sbagliato. Qualunque educatore (un rabbino dovrebbe essere innanzitutto un educatore) sa che i no aiutano a crescere. Veniamo alle contestazioni specifiche che Jesurum fa, che riguardano decisioni rabbiniche. Il suo primo riferimento è al divieto durante le gite scolastiche di entrare nelle chiese. Questo divieto stabilito da Rav Laras fu ribadito da me quando divenni Rabbino Capo. Il divieto è la semplice applicazione di una norma di halakhà. Questa norma può essere sicuramente spiegata e mi è capitato di farlo ad alcuni genitori, non ritengo però che ci sia lo spazio sufficiente per farlo in un breve articolo. Ritengo però che sia il caso di ribadire che l’applicazione di una norma halakhica da parte di un rabbino sia un diritto e un dovere. Negare questo diritto/dovere significa negare la funzione stessa del rabbino. La seconda delle decisioni a cui fa riferimento Jesurum è una mia decisione. Si tratta del rifiuto di fornire il controllo del Rabbinato per un ricevimento di un matrimonio misto. Anche in questo caso mi sono limitato ad applicare una norma halakhica, una norma che vieta di collaborare al compimento di una trasgressione (questa norma mi fu insegnata circa 30 anni fa da Rav Toaff a cui posi una domanda su un caso simile a quello che ho dovuto affrontare in questi giorni). Ma il problema non è solo halakhico, il problema è che atteggiamento avere nei confronti del matrimonio misto: Negli ultimi anni si è andato affermando un atteggiamento di accettazione o legittimazione di questo fenomeno. È un atteggiamento relativamente nuovo, fino a non molto tempo fa il matrimonio misto era rifiutato, non solo nel mondo religioso ma anche in buona parte dall’ebraismo laico, perché era ritenuto un pericolo per la sopravvivenza delle comunità e del popolo ebraico in generale. Essere ebrei è difficile, trasmettere l’identità ebraica è complicato per tutti. la sopravvivenza del popolo ebraico in mezzo a culture diverse e preponderanti è un miracolo della storia umana. Gli ebrei si sono resi sempre conto della difficoltà dell’identità e hanno sempre ritenuto che la famiglia ebraica fosse l’elemento fondamentale di questa trasmissione. Ovviamente non ci sono garanzie, ci sono famiglie interamente ebraiche che non riescono a trasmettere l’identità ma il matrimonio misto rende tutto ciò di una difficoltà estrema. Alcune ricerche americane presentano dati spaventosi sulla continuità ebraica delle famiglie miste e anche i dati che possiamo dedurre dalla situazione dell’ebraismo italiano non sono certo incoraggianti. Per questi motivi io credo che sia un dovere di tutti noi fare ogni sforzo affinché si formino famiglie ebraiche, per fare ciò è però necessario dire parole chiare sulla contrarietà al matrimonio misto. Se il messaggio non è chiaro i nostri sforzi rischiano di essere inutili. Come facciamo a dire ai nostri figli o ai nostri fratelli o ai nostri amici che è fondamentale fondare una famiglia ebraica se poi collaboriamo a organizzare un matrimonio misto o vi partecipiamo? Ci troveremmo davanti a quello che in educazione si chiama “doppio messaggio”, da una parte ci opponiamo a qualcosa, dall’altra dimostriamo con i fatti di approvarla. Un certificato di kashrùt dato al cibo che viene servito in un ricevimento è anche nei fatti un certificato di kashrùt a quel matrimonio e credo che ogni tanto bisogna avere il coraggio di dire di no. Si tratta di un atteggiamento antipatico? Sicuramente sì ma anche scrivere su un pacchetto di sigarette che il fumo fa male è antipatico ma evidentemente si ritiene che per la tutela della salute valga la pena di essere ogni tanto antipatici e credo che questo valga anche per la difesa della continuità ebraica. Jesurum dice anche citando una frase di Hillel di “vedere cosa fanno gli ebrei”. Questa frase citata fuori contesto ha il vago sapore di un invito al conformismo: Ho sempre avuto una grande considerazione di ciò che fanno gli ebrei ma credo che anche gli ebrei commettano ogni tanto degli errori e quando sbagliano sarebbe bene non prenderli ad esempio. Hillel, nel trattato di Berakhòt (63A) dice una cosa molto diversa, dice che quando una generazione ha la tendenza ad aprire bisogna mettere dei limiti, quando la tendenza è quella di chiudere bisogna essere capaci di aprire. Jesurum contrappone apertura e chiusura dando un significato completamente positivo alla prima e uno completamente negativo alla seconda. Quello dell’apertura e della chiusura rischia di diventare uno slogan. Ognuno di noi sa che nella vita reale la situazione è un po’ più complessa. Nelle nostre vite private, nei rapporti all’interno delle famiglie, nei rapporti con gli altri si alternano aperture e chiusure. Nella vita comunitaria è fondamentale aprire molte porte ma non tutte le aperture sono positive. Se apro un rubinetto d’acqua posso dare da bere a moltissime persone ma se lo lascio costantemente aperto rischio di provocare un disastro. Io non credo che le categorie dell’apertura e della chiusura siano utili per capire una comunità e agire in essa. Ne propongo un’altra, tipicamente ebraica, quella della ghemilùt chassadìm. La ghemilùt chassadìm è uno dei tre pilastri su cui, secondo i Pirkè Avòt, poggia il mondo. Fare ghemilùt chassadìm significa tentare di occuparsi delle necessità del prossimo, tentando di capire i suoi problemi, i suoi bisogni ma tentando anche di aiutarlo a correggere i suoi difetti. Il rapporto all’interno di una comunità è un rapporto tra fratelli e in un rapporto tra fratelli non è ammessa l’indifferenza. Dobbiamo essere capaci di aiutare i nostri fratelli sia materialmente sia spiritualmente. Il Talmùd dice che tutti gli ebrei sono garanti uno per l’altro e ciò significa che un’azione positiva compiuta da un altro ha un effetto anche su di me ma anche un’azione negativa commessa da me può avere un effetto sugli altri. Per concludere, un’ultima osservazione. Nell’articolo si dice che non ci si vuole occupare di problemi halakhici che sono di competenza rabbinica. Dopo però si affrontano due problemi squisitamente halakhici. Io credo che si sia trattato di un errore in buona fede, che non ci si sia accorti di essere entrati nel campo della Halakhà. Credo che questo errore vada volto in chiave positiva. Uno degli elementi centrali di ogni comunità ebraica è sempre stato lo studio della Torà. Studiare Torà e non genericamente cultura ebraica è fondamentale e può essere un elemento di coesione. Studiare Torà significa costruire un linguaggio comune, fare in modo che si discuta di qualcosa sapendo di che cosa si sta discutendo. Io spero ardentemente che questo possa essere uno dei risultati del dibattito comunitario.