Dopo mezzo secolo con Mehta, la Filarmonica avrà un nuovo direttore. I concerti con la maschera antigas.
Giulio Meotti
Una volta, al New York Times, Zubin Mehta disse che la sua affinità con Israele aveva qualcosa di culturale, di spirituale, di profondo. Il grande musicista fa parte dei Parsi, i discendenti degli zoroastriani dispersi dalla Persia all’arrivo dell’islam. “Siamo chiamati gli ebrei dell’India”. La sua storia d’amore con Israele iniziò per caso, nel 1961, quando Mehta aveva venticinque anni e venne chiamato a sostituire Eugene Ormandy alla testa dell’Orchestra Filarmonica d’Israele. Non se ne è più andato. Il 2018 sarà il suo ultimo anno, prima del ritiro, dopo aver diretto per mezzo secolo la musica in Israele. Il successore è già designato: sarà il Wunderkind, il bambino prodigio della musica israeliana, Lahav Shani, trentenne allievo di Daniel Barenboim.
Mehta partì con la moglie Carmen per Israele, un paese che gli era totalmente sconosciuto. A quei tempi, l’orchestra era formata principalmente da fuorusciti fuggiti dall’Austria o dall’Europa dell’Est, prima e dopo l’Olocausto. “Tel Aviv, con quella sua confusione organizzata che travolge chiunque la attraversi, mi ricordava la mia città natale, Bombay, dove tutti parlano sempre contemporaneamente, tutti danno continuamente consigli, tutti hanno opinioni decise su tutto” dirà Mehta. “A Bombay, quando si apre la finestra, si vedono cinquemila persone per la strada; a Vienna questo non succede. In Israele mi sentii subito a casa”.
La Israel Philharmonic Orchestra era stata fondata nel 1936 dal violinista polacco Bronislaw Huberman e inizialmente si chiamava Palestine Philharmonic Orchestra. Huberman convinse settantacinque musicisti a emigrare, perché aveva visto avvicinarsi la tragedia immane che il nazionalsocialismo avrebbe rappresentato per gli ebrei. Un documentario e un libro di Josh Aronson, “Orchestra for exiles”, ha raccontato la storia di Huberman e di come abbia fondato una orchestra straordinaria e salvato molti ebrei dalla Shoah. Il direttore del concerto inaugurale, che si svolse il 26 dicembre 1936 in un hangar del porto vecchio di Tel Aviv, fu nientemeno che Arturo Toscanini.
Erano presenti David Ben Gurion e Chaim Weizmann, fra i politici più importanti del futuro stato israeliano. “Lo faccio per l’umanità” disse Toscanini. La prima comprendeva opere di Brahms, Beethoven, Schubert e – come provocazione verso la Germania nazista – il compositore ebreo Mendelssohn. Quando Whilhelm Fürtwangler seppe che Toscanini era andato a Tel Aviv, lo comunicò a Hitler, che rispose: “So tutto, ha rifiutato di suonare a Bayreuth e va in quella orchestra di sporchi ebrei”. Il 15 febbraio 2007, alla presenza della nipote di Toscanini, Emanuela di Castelbarco, i musicisti israeliani guidati da Riccardo Muti diedero un concerto per ringraziare Toscanini di quel gesto. Il direttore italiano fu uno dei pochi in Europa a sfidare così apertamente il nazifascismo. Per la sua performance, non volle compenso. I pionieri israeliani gli regalarono un frutteto d’aranci a Ramot Ha Shavim, dove il Maestro, in seguito, tornò a raccogliere le arance. Albert Einstein scriverà poi a Toscanini: “Lei non è soltanto l’interprete impareggiabile della letteratura musicale mondiale… Si è dimostrato un uomo di grandissima dignità”.
La storia di questa orchestra coincide con quella di Israele, con il suo assedio, le sue guerre, la sua resilienza, la sua surreale normalità in una situazione anormale. Nel 1948, quando nacque Israele, l’orchestra cambiò nome e da allora in poi si chiamò Israel Philharmonic. Il 14 maggio 1948 suonò nel Museo di Tel Aviv l’inno nazionale, la Hatikvah; e nel novembre dello stesso anno, il giovane Leonard Bernstein diresse un concerto davanti a cinquemila soldati, seduti sulle colline del deserto di Ber Sheva. Suonò la “Rapsodia in Blue” di Gershwin al pianoforte tra le macerie. Il giorno prima, l’Onu aveva ordinato a Israele di ritirare le truppe dalla città di Negev, che era stata catturata il mese prima. Israele rifiutò di adempiere all’ordine delle Nazioni Unite e vi rimase. Fu in queste condizioni che Bernstein arrivò a intrattenere le truppe. La biografa di Bernstein, Susan Gould, cita un testimone oculare, lo scrittore sudafricano Colin Legum: “L’anfiteatro è vivo con i soldati che chiacchierano – uomini e donne dell’esercito di prima linea, ebrei della Palestina e del Commonwealth britannico e Stati Uniti, Marocco, Iraq, Afghanistan, Cina, Balcani, Baltico, persino uno dalla Lapponia”. Un violinista tenne la sedia a Bernstein mentre gli scivolava via lungo la piattaforma precaria. In un altro concerto di Beethoven a Rehevot, una sirena antiaerea interruppe la musica. Bernstein si fermò e disse: “Chi deve andarsene, lo faccia subito”. Nessuno lasciò il concerto. E Bernstein riprese a dirigere. Nel 1948 Bernstein aveva diretto un altro concerto sul Monte Scopus a Gerusalemme per i soldati e i feriti. Nel 1967 tornò durante la guerra per dirigere la “Resurrezione” di Mahler, mentre durante la guerra del 1973, quando Israele sentì che era vicino alla distruzione, Pinchas Zukerman volò per esibirsi come un atto di solidarietà in una sala buia e per i soldati in un ospedale di ustionati gravi.
Il Requiem di Verdi verrà eseguito da Zubin Mehta a Betlemme, appena liberata nel 1967, e per i soldati israeliani a Sharm el Sheikh, in Egitto. L’orchestra è stata decisiva anche per elaborare il lutto della Shoah nei rapporto con la Germania. Israel Zohar ha suonato il clarinetto per l’orchestra per 38 anni. Il momento più importante della sua vita fu un tour in Germania nel 1971, la prima visita dell’orchestra israeliana dopo l’Olocausto e la fondazione dello stato ebraico. Diversi musicisti erano sopravvissuti all’Olocausto e ci fu un acceso dibattito se fosse giusto andare. L’orchestra suonò i compositori ebrei, come Mendelssohn e Mahler. “Per una delle prime volte nella mia vita, ho avuto le lacrime”, ricorderà Zohar. Mentre suonava, ha aggiunto, pensò tra sé: “Siamo vivi”.
Negli anni seguenti molti direttori andarono in Israele per dirigere l’orchestra: Celibidache e Fricsay, Giulini e Markevitch, Mitropoulos e Kubelik, Krips e Koussevitzky. E poi i solisti: Rubinstein, Heifetz, Arrau e naturalmente uno dei più grandi amici dell’orchestra, Isaac Stern. Gli anni Cinquanta videro una crescita del prestigio dell’orchestra e l’inizio di molte amicizie durature con grandi musicisti, tra cui Menuhin, Heifetz e Francescatti, che rimasero in Israele anche dopo lo scoppio della guerra del Sinai nel 1956. Zino Francescatti, non ebreo, si rifiutò di fuggire da Israele durante la guerra assieme al maestro Francesco Molinari-Pradelli. Sono ancora ricordati per quel gesto.
Nel maggio del 1967, l’Egitto riunì massicci contingenti di truppe sul Sinai e chiuse l’accesso al porto di Eilat, vitale per Israele. Israele era accerchiato dagli eserciti arabi e si sentiva pesantemente minacciato. Il 5 giugno iniziò la Guerra dei sei giorni, con un attacco preventivo dell’aviazione israeliana alle basi aeree egiziane nel Sinai. I confinanti stati arabi avevano l’obiettivo dichiarato di annientare Israele, tuttavia a livello internazionale era diffusa l’opinione che Israele, per la sua grande superiorità militare, non avrebbe potuto perdere la guerra. In quei giorni, Zubin Mehta si trovava a Porto Rico. E capì immediatamente che doveva subito tornare in Israele. “Io volevo semplicemente esserci, nient’altro; ci tenevo talmente tanto che abbandonai a rotta di collo Porto Rico e volai a New York, per tentare di raggiungere Israele da lì”. Gli serviva urgentemente un visto. Vera, la moglie di Isaac Stern, si occupò personalmente di trovargli un posto sull’aereo per Israele. Mehta stava sorvolando il Mediterraneo, quando il pilota annunciò che la guerra era scoppiata e che pertanto avrebbero dovuto atterrare a Roma, perché agli aerei dell’aviazione civile non era più permesso proseguire fino a Israele. Mehta salì a bordo di una specie di aereo da trasporto della El Al, che avrebbe dovuto condurlo direttamente a Tel Aviv. Era pieno di israeliani che volevano tornare a casa, per aiutare il loro paese e le loro famiglie, o erano stati chiamati alle armi. Avevano viaggiato in un velivolo che dalla cabina di pilotaggio fino alla coda era pieno zeppo di armi, accuratamente imballate nelle casse che ci avevano fatto da sedili. Trascorse una notte al King David di Gerusalemme. La mattina dopo, il quadro sopra il letto era appeso storto. E aveva un foro di proiettile. Il primo giorno dopo la fine della guerra Abba Eban e il suo entourage si recarono al Muro del Pianto, e Mehta poté andare con loro. Fu uno dei primi civili ad andare a Gerusalemme Est.
Nell’agosto del 1973, il famoso violoncellista Pablo Casals accettò un invito dell’allora primo ministro Golda Meir a dirigere un’orchestra a Gerusalemme. Anche se Casals aveva 97 anni, accettò di volare in Israele insieme a sua moglie Marta. Era l’ultima volta che Casals portava il suo violoncello fuori dagli Stati Uniti. Sarebbe morto due mesi dopo. Ma un bambino israeliano, Amit Peled, sarebbe nato nel Kibbutz Yizre’el, e in seguito gli sarebbe stato affidato il prezioso strumento musicale di Casals e lo avrebbe suonato in Israele e in tutto il mondo. In quei giorni del 1973, Mehta girò Israele per tenere concerti di solidarietà. Uno a Gerusalemme venne interrotto per un blackout elettrico. La sua orchestra perse sei musicisti che erano stati richiamati fra i riservisti. Mehta tenne un concerto anche al nord, in una base militare, con il comandante che si scusò in anticipo per l’acustica: la melodia sarebbe stata disturbata dalla partenza di aerei Phantom. Un’altra volta, entrando in Siria per portare aiuto ai soldati, incontrò un ufficiale. Mehta voleva offrirgli dell’acqua. L’ufficiale rifiutò, ma chiese al grande direttore d’orchestra: “Perché la scorsa settimana ha cambiato il programma musicale?”.
Zubin Mehta avrebbe eseguito tanti altri concerti in zone militari. Come il concerto nel gennaio 1982 sul confine tra il Libano e Israele, in mezzo a un campo di tabacco. Una specie di palcoscenico era circondato dagli schermi solari protettivi in dotazione all’esercito. Il pubblico, composto prevalentemente da libanesi, era seduto all’aperto. Mehta strinse amicizia con un capitano libanese, che sarebbe poi stato ucciso dall’Olp in quanto “traditore” e “collaborazionista”. Nel 2011, Mehta suonerà al confine con la Striscia di Gaza per sostenere la liberazione del caporale Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da Hamas per quattro anni.
Quando nel 1991 scoppiò la prima Guerra del Golfo, Mehta stava tornando da Vienna a New York, dove doveva suonare con la New York Philharmonic Orchestra. Capì che la guerra era imminente, e prese un volo per Tel Aviv. Mehta passeggiò per le strade della capitale finanziaria di Israele con la maschera antigas. Voleva vedere i crateri dei missili iracheni. Si temeva che Saddam Hussein potesse lanciare testate con armi chimiche. La Filarmonica di Mehta in quei giorni offrì conforto alla popolazione. L’oboista Bruce Weinstein disse che era importante “concedere alle persone un paio di ore di pausa dal preoccuparsi di sirene e maschere antigas”. Il bassista Micha Davis spiegherà che era stato costretto a limitarsi principalmente a brevi note rapide, perché le note prolungate potrebbero spaventare i vicini. Erano troppo simili al lamento della sirena.
In un concerto televisivo le maschere antigas erano visibili sotto quasi tutte le sedie dei musicisti. Quando le sirene antiaeree gridarono all’esterno, la Filarmonica lasciò il palco e il pubblico si mise le maschere antigas. Un imperturbabile Isaac Stern, nel frattempo, prese il violino e continuò a suonare da solo. Fu una delle immagini più sorprendenti di quella guerra. Per sette minuti, Stern riempì la sala da concerto con le maestose note di una sarabanda di Bach. Una scultura di Stern è esposta oggi nella galleria permanente del museo dell’arte di Baltimora.
L’artista che l’ha realizzata, Gerald Hawkes, si è ispirato alla performance del violinista del 1991. “Questo è il più grande atto del secolo”, dirà Hawkes.
Ma non tutti ebbero lo stesso coraggio. Il musicista Eric Leinsdorf, senza dire nulla a nessuno, mentre nel 1967 la radio egiziana annunciava lo sterminio degli ebrei, invece di andare a dirigere prese un taxi per l’aeroporto e se ne tornò a casa. Abbandonò Israele così velocemente che lasciò anche lo smoking all’Opera di Tel Aviv.
E’ ancora lì quello smoking, a ricordarci l’abbandono di Israele.
Il Foglio, 10.2.2018