Secondo il racconto della Bibbia, Mosè nacque in un periodo terribile di persecuzione, in cui i maschi ebrei venivano uccisi alla nascita. Abbandonato sulla riva del Nilo in una culla galleggiante, fu scoperto e adottato dalla figlia del Faraone. Cresciuto alla corte come un principe, riscoprì le sue origini in età adulta. Costretto a fuggire dall’Egitto per aver ucciso un aguzzino, risiedette per molti anni in Midian, dove sposò la figlia di un sacerdote. In Midian ricevette la chiamata divina: tornare in Egitto e portare i suoi fratelli alla libertà. Compì la sua missione, segnata da eventi grandiosi. Quindi condusse il popolo nel deserto del Sinai, dove ricevette le tavole della Legge e dettò agli ebrei gli ordinamenti fondamentali. Mosè guidò il popolo ancora per i quaranta anni della loro permanenza nel deserto, ma non gli fu concesso di entrare nella terra promessa. La sua tomba non fu mai trovata.
Sempre secondo la tradizione, Mosè è l’autore della prima parte della Bibbia, il Pentateuco, tranne che per gli ultimi versi del quinto libro, che parlano della sua morte. Mosè è di fatto il protagonista del secondo, terzo e quarto libro del Pentateuco; il quinto, detto Deuteronomio, cioè “seconda legge”, è una ripetizione dei racconti storici e delle normative precedenti, che viene presentata sotto forma di grandi discorsi fatti da Mosè al popolo. È ben noto che la critica ha negato queste attribuzioni letterarie tradizionali, cercando di dimostrare la diversità di origine e di tempo delle varie componenti che formano l’insieme del testo biblico. Per quanto poi riguarda in particolare la figura di Mosè è stata compiuta da molti autori un’analisi tendente a scindere la componente mitica e leggendaria dalla possibile realtà storica. Solo per fare un esempio, la storia della culla galleggiante appare come un motivo comune nelle narrazioni di altri popoli sull’infanzia di personaggi segnati a un destino eccezionale. Gli studiosi delle generazioni più recenti hanno in realtà proseguito un immenso lavoro precedente, che si era interrogato sui diversi aspetti della figura e dell’opera di questo grandioso protagonista della storia religosa e morale. Le fonti dell’antichità, da Giuseppe Flavio alla letteratura rabbinica, hanno arricchito di dettagli e di interpretazioni la storia biblica su Mosè; in parte caricandola di elementi mitici accessori, pescati dal tesoro di una tradizione interna ed esterna all’ebraismo, in parte forse rivelando aspetti “veri” sui quali la Bibbia tace, ma che invece la tradizione orale era riuscita a conservare. Certo la figura di Mosè, per le sue impressionanti dimensioni morali, non è un problema di interesse esclusivo di critici storici e testuali. In ogni epoca, e la nostra non fa eccezione, si aggiungono opere anche vaste incentrate sulla sua figura. Davanti a tanta ricchezza, è chiaro che non è possibile tentare di parlare in modo esauriente di Mosè in poche pagine. Ma si può almeno tentare di sottolineare alcuni aspetti delle sua personalità, come emergono da dettagli del racconto biblico e dalla analisi che ne fanno le fonti ebraiche. Anche perchè in termini religiosi bisogna sempre tenere presente che la Bibbia anche se racconta molta storia, non deve essere considerata come un libro di storia, quanto piuttosto un libro carico di insegnamenti morali. In questa prospettiva hanno importanza non tanto la ricerca delle sequenze storiche reali, quanto il modo in cui queste vengono narrate e variate nella prospettiva, con le preferenze e le sfumature, i silenzi e le allusioni.
Mosè, eroe per eccellenza del racconto biblico, emerge non per la sua perfezione, ma per la natura umana sofferta e contraddittoria. Probabilmente, per un singolare paradosso, questo maestro della parola è segnato da un difetto fisico che gli impedisce di esprimersi correttamente, e deve ricorrere al fratello Aron per un costante aiuto. In diverse occasioni del racconto biblico su Mosè si sottolineano le sue esitazioni, le sue debolezze, i suoi cedimenti, i suoi accessi di ira. Mosè esordisce, come soggetto attivo della sua storia, con un omicidio, giustificabile quanto lo si voglia, ma sempre omicidio. Nell’oscuro episodio della circoncisione del figlio, sembra che Mosè abbia omesso il compimento di un fondamentale dovere della sua gente. Talora pecca di superbia, o di mancata fede, come quando riceve l’ordine di far scaturire l’acqua dalla roccia con la sola parola, e invece preferisce, per abitudine o scetticismo, percuotere la roccia con la sua verga. Mosè non è mai il supino esecutore della volontà divina. Fin dall’inizio cerca di sottrarsi alla missione alla quale è prepotentemente chiamato. Nella prima rivelazione del roveto ardente, Mosè oppone una straordinaria resistenza, adduce scuse, chiede garanzie. In ogni passo successivo, quando le difficoltà aumentano anzichè diminuire, e la persecuzione si fa sempre più opprimente, Mosè non si abbandona alla fiducia cieca, ma chiede e protesta ad alta voce. Si noti qui come siano possibili letture molto diverse, e quale invece è la prospettiva biblica. In un approccio non religioso alla narrazione biblica, l’intero processo di liberazione dall’Egitto -sempre che gli venga riconosciuto un nucleo di verità storica- viene immaginato come un’impresa politica ideata e condotta da Mosè che ha saputo sfruttare la sua educazione di corte e altre esperienze e intuizioni geniali -come l’osservazione della ciclicità di alcuni fenomeni naturali (le piaghe, le secche del Mar Rosso che serviranno per la traversata) per inscenare uno spettacolo terroristico che favorisca il cedimento degli egiziani. Nella presentazione biblica del racconto Mosè è invece come un gigante recalcitrante che ad ogni passo deve essere spinto al suo destino di leader da Dio, che promuove il processo di liberazione contro tutti: la malvagità degli uomini che mettono in schiavitù, la rassegnazione degli oppressi che non vogliono essere più liberati, la fuga dalle responsabilità dei leaders. Se tutto questo viene letto in chiave autobiografica, come la interpretazione che Mosè ha voluto dare all’intera vicenda, il dato che emerge con evidenza è invece quello della grande modestia del protagonista, che non si vuole attribuire alcun merito in tutta l’operazione, e l’insegnamento di una fede eccezionale, nel Dio promotore della libertà dell’uomo, e che anche contro la sua volontà interviene nella storia per innalzarlo e farlo progredire.
Questo aspetto centrale della personalità di Mosè guida le sue scelte in due momenti decisivi della storia degli ebrei nel deserto, che divengono esemplari nella tematiche del potere e nel perdono. Nel libro dei Numeri (capit. 16) si racconta della ribelione contro Mosè, partita da Qorach, levita come lo stesso Mosè e da altri rappresentanti di spicco del popolo; i ribelli contestarono a Mosè la legittimità delle sue cariche: se tutta la comunità è composta da persone sante, che diritto avete, venne detto a Mosè e Aron, di porvi alla testa di tutti gli altri? Si trattava in realtà di un argomento capzioso, al quale Mosè reagisce con dignitosa veemenza: “da loro non ho preso un asino, e non ho fatto male ad alcuno di loro”. Il suo esercizio del potere è stato imposto dall’alto; è disinteressato, e permeato da vero amore per la sua gente. Un amore che trova subito dopo espressione nella preghiera che Mosè leva Dio, perchè Questi minaccia un’estensione della punizione: “O Signore, Dio degli spiriti di tutte le creature: se una sola persona pecca, devi adirarti con tutta la comunità?”. Mosè qui riprende la straordinaria forza dialettica che già si era espressa in Abramo, quando davanti alla minacciata distruzione di Sodoma aveva protestato: “il Giudice di tutta la terra non dovrebbe fare giustizia?” (Gen. 18:23). Del resto quale concezione avesse Mosè delle prerogative e della esclusività del potere lo si era visto in un precedente episodio, quando era stata costituita una autorità di settanta persone per dividere con Mosè “il carico (sic) del popolo” (Num. 11:17). La cerimonia di ordinazione doveva svolgersi intorno alla tenda centrale dell’accampamento, dalla quale Mosè comunicava con la presenza sacra divina; qui i settanta eletti avrebbero ricevuto l’ispirazione superiore. Ma due dei convocati erano rimasti nell’accampamento, e quando lo spirito discese, cominciarono a profetare ispirati in mezzo alla gente. Corsero ad avvertire Mosè, e Giosuè gli chiese di reprimere la manifestazione, isolando i due profeti intempestivi; al che Mosè, con una splendida intuizione esclamò: ” Sei forse geloso per me? Magari tutto il popolo del Signore fosse di profeti, sui quali si posa lo spirito divino!” (ibid. v. 29).
Il disperato tentativo di frenare la prorompente collera divina aveva già distinto Mosè in un precedente episodio ancora più tragico, quello del vitello d’oro, dove la grandezza della personalità di Mosè emerge in vari momenti. Certamente il più alto è quello della tentazione cui Dio lo sottopone, dicendogli che il popolo è peccatore e non merita nulla; che sia pertanto distrutto, e al suo posto Dio lascerà la sola discendenza di Mosè (Es. 32:10). Ma Mosè rifiuta nettamente la provocazione, implorando dapprima la misericordia, e poi, davanti a una nuova minaccia divina, suggerendo quasi un ricatto: “se vuoi perdonare le loro colpe, bene; altrimenti cancellami dal libro che hai scritto” (ibid. 32). La vita e la missione di Mosè non hanno senso senza la sua comunità, nella quale la colpa è sempre in agguato, ma che non potrà essere corretta con misure estreme, bensì con la forza del pentimento e del perdono. L’umanità di Mosè riesce a imporre un nuovo modello di rapporti tra l’uomo e Dio.
È proprio l’amore per i suoi fratelli uno dei moventi essenziali dell’azione di Mosè, dai primi momenti della sua vicenda: la Bibbia racconta che il primo gesto di Mosè, divenuto adulto, fu quello di “uscire verso i suoi fratelli, e vederne le sofferenze” (Es. 2:11); questa sollecitudine si ripercuote in tutta la sua legislazione sociale, che rispetto alle leggi dell’epoca, e anche a quellle di molti sistemi attuali, si segnala per la necessità della giustizia, per l’attenzione verso gli oppressi e i diseredati; l’esperienza di sofferenza egiziana deve diventare un ammonimento e un esempio negativo da non imitare nei rapporti con gli stranieri (Es. 22:20); e d’altra parte, malgrado tutto, proprio nei rapporti con gli egiziani bisogna ricordarne gli aspetti positivi (Deut. 23:8). La stessa immagine che viene data di Dio, come protettore dei poveri e dei diseredati, e più in generale come custode protettivo del suo popolo (Deut. 32:10), riflette questa esperienza mosaica.
I suoi contemporanei, il suo popolo, però non arrivarono a comprenderlo e ad amarlo, e in ripetute occasioni gli si ribellarono, cercando di sottrarsi al destino storico che Mosè per ordine divino aveva segnato; alcuni cercarono di tornare in Egitto, altri di accellerare l’arrivo nella terra promessa; molti, a più riprese non accettarono la disciplina morale e legale che Mosè tentava di imporre; e Mosè stesso, malgrado le sue disperate difese, si prese l’accusa infamante di “aver ucciso il popolo di Dio” (Num. 16:41). Non a caso la Bibbia dice che alla morte di Aron “tutta la casa di Israele lo pianse per trenta giorni” (Num. 20:29), mentre per Mosè è detto “che i figli di Israele lo piansero per trenta giorni” (Deut. 34:8); il leader protagonista della liberazione era anche stato l’uomo che con tutto il suo amore per il suo popolo non aveva accettato compromessi, e per questo inevitabilmente non poteva essere amato da tutto il popolo.
Questo modello di santo imperfetto e tormentato è, per un ulteriore paradosso della concezione biblica, non solo il grande uomo politico che libera il suo popolo, o il grande legislatore che detta agli ebrei e all’umanità un codice fondamentale di comportamento; è anche l’uomo che nella storia riesce a stabilire un contatto con l’esperienza divina superiore a quello di qualsiasi altro essere umano, precedente e seguente. Questa idea è sottolineata dalla tradizione interpretativa rabbinica, dai filosofi e dai mistici; ma è presente a chiare lettere nel Pentateuco, in almeno tre brani differenti (Es. 33:17 ss.; Num. 12: 6-8; Deut. 34:10). Mosè è colui al quale Dio ha parlato in modo svelato, senza l’intermediazione di sogni e di visioni; che è riuscito a stabilire un colloquio diretto e unico con l’aspetto rivelato di Dio, “faccia a faccia”. È l’unico che ha avuto la massima risposta possibile, per un essere umano, alla ricerca e alla comprensione del sacro; una richiesta che fu Mosè stesso a formulare in questi termini, quando fu conscio del fatto che la grandezza della missione che gli era stata affidata richiedeva conoscenze che non sono consentite ad un comune mortale: “Fammi conoscere la Tua strada, e così ti conoscerò, perchè io possa piacerTi; e considera che questa gente è il tuo popolo” (Es. 33:13). Mosè arriva alla sua richiesta spinto da una insaziabile sete di sacro, ma comprende che la richiesta si giustifica solo nella prospettiva del bene comune, nella possibilità che attraverso questo conoscenza si effonda al popolo il bene della conoscenza della strada che il Signore vuole che si percorra. In una spiegazione proposta dai commentatori è come se la conoscenza della realtà divina fosse mascherata da una serie progressiva di veli e cortine; ogni uomo, secondo le sue capacità riesce a penetrarvi più o meno internamente, sollevando alcune di queste cortine; ma mai nessuno è riuscito, come Mosè a spingersi tanto avanti nella ricerca e nella conoscenza dei misteri del sacro.
Nota bibliografica
La prima fonte per la storia di Mosè è, nella Bibbia, il Pentateuco. Tra le numerose opere recenti che sono disponibili in lingua italiana, si segnalano, per la sensibilità alla tradizione ebraica: André Neher, Mosè, Mondadori, Verona, 1961; Augusto Segre, Mosè nostro maestro, Esperienze, Fossano 1975; Martin Buber, Mosè,Marietti, Casale Monferrato 1983.