LUOGHI DI CULTO
Nella storia religiosa dell’ebraismo la data del 70 dell’e.v. segna una radicale trasformazione. In quell’anno i Romani distrussero il Tempio (o Santuario) di Gerusalemme, che da allora non fu più ricostruito. La vita religiosa fino a quel momento ruotava intorno a quell’edificio, nel quale si offrivano i sacrifici quotidiani e festivi. Il ‘servizio’ o ‘culto’ in questo Tempio (in ebraico ‘avodà, e, nella traduzione greca, poi entrata in uso comune attraverso il cristianesimo, la liturgia ), era considerato uno dei tre pilastri su cui si poggia il mondo, insieme alla Torà (l’insegnamento della Bibbia e dei Maestri) e alle opere di bene. Il culto era regolato con precisione, da una normativa che ne stabiliva tempi e modi, e affidava ruoli distinti alle tre categorie in cui il popolo ebraico è distinto: Sacerdoti, Leviti ed Ebrei comuni; la gestione diretta era in realtà prerogativa quasi esclusiva delle prime due classi, mentre la terza aveva un ruolo di spettatore e talora di sostegno, e si organizzava in turni di preghiera e di digiuno. Quando il Tempio fu distrutto si creò un vuoto irreparabile; ma già da alcuni secoli, in forme sempre più definite, era nata una organizzazione di culto periferica, complementare ma distinta da quella del Tempio. La comunità dei credenti si incontrava in strutture chiamate Bathè Kenesiòth, ‘case di riunione’; questa parola fu letteralmente tradotta in greco come Sinagoga, e ha conservato fino ad ora questo nome. Nelle Sinagoghe i fedeli si riunivano sia per scopi non strettamente religiosi, come in una sede assembleare, che per scopi religiosi come lo studio e la preghiera in comune. Responsabili della struttura erano di norma dei laici, cioè persone di nascita non sacerdotale, e vi si distinguevano i rabbini, che erano gli esperti e i maestri della tradizione. Elemento centrale della nascente liturgia sinagogale, oltre alla preghiera, fu la lettura del testo del Pentateuco, divisa in sezioni settimanali che completavano il testo in cicli annuali o triennali. L’ organizzazione della preghiera prese a modello i ritmi e i tempi del culto nel Santuario, dove si offrivano due sacrifici quotidiani, quello mattutino e quello pomeridiano; da qui derivarono la riunione di preghiera mattutina (Shachrìth) e quella pomeridiana (Minchà), e, nei giorni festivi, in cui era prescritto un sacrificio aggiuntivo, una preghiera aggiuntiva (Musàf); la preghiera serale (‘Arvìth), proprio perchè non in rapporto a un momento sacrificale, rimase in qualche modo di secondaria importanza. Una volta distrutto il Tempio, queste preghiere divennero istituzionalmente l’ equivalente sostitutivo dei sacrifici, e i Maestri videro questa evoluzione già prefigurata nelle parole profetiche di Osea (14,3), che aveva detto che “le nostre labbra sostituiranno i tori”.
Da queste premesse, le Sinagoghe sono diventate uno dei riferimenti spaziali centrali della vita religiosa ebraica, ma non il suo centro esclusivo: all’importanza del luogo pubblico di preghiera, l’ebraismo associa, talora attribuendogli maggiore sacralità della Sinagoga, quella del luogo di studio, dove la tradizione viene trasmessa e rivitalizzata con nuovi continui apporti; nè la vita liturgica si esaurisce nella Sinagoga, perchè una sua ampia e non meno importante parte si svolge entro le mura domestiche, come luogo più naturale, o in altre sedi, diverse dalle Sinagoghe, che per vari motivi non accolgono, per consuetudine, o per esplicito divieto, certe manifestazioni liturgiche . Ad esempio la celebrazione di matrimoni si svolge nelle Sinagoghe soltanto in alcune comunità, come quella ebraica italiana; mentre le esequie funebri sono sempre estranee alla Sinagoga, perchè il defunto è considerato impuro e non può essere introdotto in un luogo consacrato.
Non esiste un modello architettonico rigoroso per la costruzione di una Sinagoga, ma solo alcune regole generali da rispettare. Soprattutto l’aspetto esterno dell’ edificio non ha particolari regolamentazioni, e nella storia vi sono state soluzioni molto differenti; ciò è dovuto a complessi fattori, come la dispersione geografica del popolo ebraico, che ha risentito in tal modo di influssi culturali e architettonici disparati; la pressione del mondo circostante, che allo scopo di umiliare gli ebrei, e di dimostrare anche in questo modo la superiorità della religione dominante, ha proibito la costruzione di edifici sinagogali esternamente sontuosi; e infine l’ ideologia interna delle comunità ebraiche, che dall’epoca dell’emancipazione, proprio come reazione a cessate proibizioni esterne, ha voluto produrre edifici monumentali dalle più disparate influenze architettoniche. Per quanto riguarda la struttura essenziale di questi edifici, si considerano alcuni elementi. In primo luogo l’orientamento della sala, che deve consentire ai fedeli, in certi momenti della preghiera, di volgersi verso Gerusalemme; per questo in genere nel lato che è orientato verso Gerusalemme si colloca l’elemento più sacro dell’edificio, che è un armadio (aròn) dove sono riposti i rotoli in pergamena (sifrè Torà) sui quali è stato trascritto a mano, con particolari tecniche reverenziali, il testo del Pentateuco; questi rotoli sono rivestiti di tessuti preziosi, risposti in custodie di tipo e forme differenti secondo le varie tradizioni, e ornati con corone di metalli preziosi; quando nelle Sinagoghe si legge il Pentateuco è di questi rotoli che si fa uso, dopo averli estratti dall’ aròn e portati sul piano di lettura con particolare solennità e devozione. Altro polo essenziale è appunto la bimà , da cui il cantore dirige la preghiera e legge la Bibbia, e che abitualmente viene in qualche modo sopraelevata. La bimà può essere collocata in vario modo rispetto all’aròn ; solo nelle Sinagoghe monumentali più recenti è addossata all’aròn; nelle forme più tradizionali si colloca al centro della sala, o all’estremo opposto, come nelle piante ‘bipolari’ tipiche delle antiche Sinagoghe italiane. Il pubblico si colloca nella sala a seconda delle differenti piante. Uomini e donne siedono in due ambienti separati, su due piani differenti, o allo stesso livello, divisi da qualche struttura; solo nelle più recenti Sinagoghe dei gruppi Riformati o Conservativi non si cura più la divisione dei sessi, con viva protesta dei gruppi Ortodossi. Posti riservati e d’onore vengono tenuti per i dirigenti della comunità, e per i suoi dotti. Responsabile e animatore della vita sinagogale è il chazàn, un tempo “provveditore”, ora il cantore professionale che svolge le funzioni liturgiche più importanti; non è necessariamente il rabbino, cui invece nella Sinagoga spetta il ruolo di controllare la correttezza rituale dello svolgimento delle funzioni e di illustrare i contenuti delle Scritture con lezioni ed omelie.
Davanti all’aròn brilla in permanenza un piccolo lume perenne, a ricordo della lampada che ardeva nell’anticamera del luogo più riposto e sacro del Tempio. In tal modo si sottolinea una sorta di ruolo sostitutivo dell’antico Tempio, ma al tempo stesso si mantiene la differenza con altri segni, come ad esempio una parte di muro che si lascia senza intonaco, a ricordo del Tempio distrutto. Quando non si usa l’originale termine ebraico, la Sianagoga viene chiamata dagli ebrei, nelle diverse varianti locali, con il termine di “scuola”, che deriva dal significato medievale di questa parola. Di uso comune più recente, e piuttosto improprio, è il termine “Tempio”.
IL CULTO DEL GIORNO DI SABATO
Nella vita religiosa dell’ ebraismo il Sabato ha un ruolo fondamentale. Questo giorno (che inizia con il tramonto del Venerdì e finisce con l’uscita delle stella della sera di Sabato) non è soltanto un momento festivo e di riposo. Nella storia dell’ umanità -che deve agli ebrei l’idea di un riposo settimanale- questa istituzione è stata una conquista rivoluzionaria; prima degli ebrei il riposo non era affatto regolato periodicamente; i Romani, quando scoprirono questa istituzione, accusarono gli ebrei di sprecare nell’ozio un settimo della loro esistenza. Con l’istituzione del Sabato inoltre l’intera società fu posta sullo stesso piano, con il diritto per tutti (schiavi e animali compresi) di riposare. Ma la prospettiva sociale, per quanto importante, non esaurisce il senso dell’istituzione, che porta nella sua essenza un profondo significato religioso. Il Sabato è legato alla storia biblica della creazione; il Signore, si racconta all’ inizio della Genesi, creò il mondo in sei giorni e nel settimo “cessò” (shavàt, in ebraico, da cui appunto Shabbàt, e quindi Sabato in italiano e nelle altre lingue). Riposarsi nel giorno di Sabato significa ricordare questa opera creativa, riconoscere Dio come creatore, e inserire l’uomo nella sua dimensione più propria e completa. Per realizzare questo programma, il Sabato, come viene prescritto nelle grandi linee dalla Bibbia, e quindi con dovizia di particolari dalla letteratura rabbinica, deve essere osservato con grande rigore. Il culto sabbatico si esprime in diversi ambiti: da quello pubblico, a quello privato domestico, fino a quello, più importante, del comportamento personale. Trattandosi di giornata festiva, in cui i fedeli non dovrebbero essere impegnati nel lavoro, si ha più tempo per le riunioni pubbliche di preghiera, che diventano più lunghe e solenni, abbellite da canti, accompagnate dagli interventi esplicativi dei rabbini, e talora coronate con piccoli rinfreschi pubblici nei locali adiacenti la Sinagoga. Per la maggiore presenza di pubblico, e per onorare la giornata festiva, molte occasioni festive dei privati (come la maggiore età per maschi e femmine) vengono solennizzate pubblicamente proprio nelle riunioni sinagogali Sabbatiche. Dopo la parte pubblica, i fedeli tornano nelle proprie abitazioni, dove la liturgia domestica assume un ruolo centrale. Da prima del tramonto vengono acccesi due lumi, in prossimità della tavola dove si mangia; tutto il cibo è già pronto, visto che di Sabato non si può cucinare; la mensa è festiva, addobbata con gli oggetti più preziosi della casa, e i cibi sono sempre i migliori. Prima di mangiare si segnala la particolare sacralità del momento con una solenne benedizione che si recita con un calice di vino; quindi si benedice il pane, che è doppio, a ricordo della manna che nel deserto cadeva il Venerdì in misura doppia e si conservava fino all’indomani, per consentire il riposo sabbatico. Alla fine del pasto si cantano degli inni religiosi, e la normale benedizione postprandiale viene recitata con particolare solennità. La stessa speciale solennità della cena si ricrea nel pranzo del giorno successivo.
Ma la vera e più completa dimensione religiosa del Sabato si realizza nell’osservanza personale. Per un osservatore esterno risulta spesso difficile comprendere il particolare rigore di queste norme ebraiche. Infatti non è soltanto proibito genericamente lavorare, ma sono interdette molte altre attività che apparentemente non hanno rapporti con il lavoro: scrivere, cucinare, trasportare oggetti per la strada, accendere la luce, viaggiare in automobile. Tutto questo è dovuto al fatto che il concetto di “lavoro” come cosa proibita di Sabato, non è sufficiente a spiegare la dimensione e le implicazioni del divieto. Difatti non si tratta di lavoro nel senso ordinario del termine, ma di qualsiasi azione intelligente con la quale l’uomo modifica la realtà che lo circonda; ecco perchè il raggio del divieto è così ampio. Ma qual’è la logica del divieto? La risposta è semplice. Con questo tipo di azioni l’uomo dimostra la sua qualità di essere intelligente che domina la natura; e questa non è affatto un’ attività illecita, ma lo può diventare, se l’uomo non dimostra di essere capace, per un giorno a settimana, di liberarsi di questa sua potenza, che può diventare anche un vincolo che lo inchioda e una forma di idolatria; se invece l’uomo se ne libera per un giorno, da un lato riconosce che il vero creatore e trasformatore dell’ Universo è un Altro, ma dall’altro lato riscopre, insieme ai suoi limiti oggettivi, gli aspetti più profondi e più elevati della sua natura umana, che liberata dai vincoli del lavoro e della necessità di intervenire sul mondo, si concentra sulla spiritualità. Il Sabato quindi non è un rifiuto della tecnica, ma una sua collocazione nel ruolo che le spetta, mentre l’uomo si riappropria del suo essere e raggiunge la pienezza della vita spirituale. I testi rabbinici esprimono questo concetto con l’immagine simbolica di un’ “anima supplementare” che di Sabato si aggiunge a quella di ognuno. Proprio perchè all’uscita del Sabato quest’anima se ne va, lasciando i fedeli nell’angoscia della ripresa della quotidiana lotta per l’esistenza, anche l’uscita del Sabato viene segnalata con una breve cerimonia liturgica di “separazione”, in cui si odorano dei profumi per sostenere simbolicamente l’anima abbandonata, e si riaccende un fuoco per segnalare la riappropriazione della forza trasformatrice della natura.
PREGHIERE FONDAMENTALI DELL’EBRAISMO
La vita liturgica ebraica è scandita, come si è detto, da momenti di preghiera che hanno il loro modello originario nel culto del Tempio di Gerusalemme. In queste occasioni, sia che il fedele si trovi in Sinagoga, che altrove da solo, vengono recitate delle preghiere secondo un ordine ben determinato. Il processo di elaborazione di un formulario di preghiere è durato per secoli, con la progressiva aggiunta di brani di poesia religiosa; ma nelle sue linee essenziali le principali preghiere ebraiche erano state fissate già in epoca talmudica (V-VI secolo). In rapida successione consideriamone alcune delle più importanti. La prima, che non è essenzialmente una preghiera, ma una sorta di dichiarazione di fede, è detta lo Shemà’ , cioè “ascolta”, dalla sua prima parola; è una composizione di tre brani biblici (Deut. 6:4-8; 11:13-21; Num. 15:37-41), di cui il primo in particolare risalta per la sua importanza, proponendo il tema della fede in un Dio unico: “Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno. [qui al testo biblico viene aggiunta questa frase: Benedetto il nome della gloria del Suo nome in eterno]. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua persona e con tutto il tuo vigore. Queste parole che ti comando oggi saranno sul tuo cuore; le inculcherai ai tuoi figli e ne parlerai con loro, quando stai a casa e quando cammini per la strada, quando ti corichi e quando ti alzi. Le legherai come segno sul tuo braccio e saranno come segnali tra i tuoi occhi. Le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.” I brani successivi trattano il tema della punizione e della ricompensa, e del ricordo dell’ uscita dall’ Egitto. Lo Shemà’, proprio in ossequio letterale alle disposizioni contenute nel suo primo brano, viene recitato due volte al giorno, nella preghiera del mattino e in quella serale, e quindi privatamente a letto al momento di coricarsi. Nella lettura sinagogale viene preceduto e seguito da formule di benedizione, che esaltano l’ opera della creazione, il regno divino e l’amore divino per il popolo d’ Israele e ricordano gli interventi biblici miracolosi di salvezza. In tal modo viene esaltata l’importanza della lettura dello Shemà’, che diventa la dichiarazione elementare ed essenziale della fede ebraica, ripetuta, oltre che nella quotidianità, nei momenti finali del trapasso o del martirio.
Dopo lo Shemà’, la più importante tefillà, o preghiera per antonomasia, è chiamata anche con il nome di preghiera delle “18 benedizioni”. 18 erano le benedizioni della prima raccolta, cui se ne aggiunse nel primo secolo un’ultima, portando il numero a 19, anche se il nome della preghiera non fu più cambiato. Questa lunga preghiera inizia con una breve e solenne citazione dai Salmi (51:17) (“O Signore, schiudi le mie labbra, affinchè la mia bocca narri la Tua lode”), ed è quindi divisa in tre parti. La prima comprende tre benedizioni di esaltazione (ricordo del merito dei Patriarchi; prodigi divini e resurrezione dei morti; proclamazione della regalità divina); dalla quarta alla sedicesima seguono una serie di richieste collettive: il perdono e la misericordia per i giusti, la fine delle sofferenze e la redenzione, la salute, la pioggia e la rugiada, la ricostruzione di Gerusalemme e il ritorno del regno di David; le ultime tre benedizioni sono di ringraziamento finale, ed esprimono la speranza nel ritorno divino a Sion, nella bontà e misericordia divina e si chiudono con questa formula: “Poni la pace, il bene e la benedizione, vita, grazia amore e misericordia su di noi e su tutto il tuo popolo d’ Israele; benedicici, nostro Padre, tutti insieme con la luce del Tuo volto […] Benedetto sii tu, o Signore, che benedice il Suo popolo d’Israele con la pace, amèn. Che i detti della mia bocca Ti risultino graditi, insieme a ciò che il mio cuore medita, o Signore, mio difensore e redentore. Colui che stabilisce la pace nelle altitudini celesti, con la sua misericordia conceda la pace a noi e a tutto Israele, amèn.”
Le “diciotto benedizioni” si recitano in ognuna delle tre preghiere quotidiane, in piedi, in silenzio, a piedi uniti, “con gli occhi aperti rivolti verso la terra e con il cuore rivolto al cielo”; dopo la recitazione individuale il cantore ripete a voce alta il testo per coloro che per qualche motivo non sono in grado di recitarlo. Durante la recitazione personale e silenziosa, prima della 17a benedizione, il fedele ha l’occasione per inserire nella preghiera le sue richieste personali e i suoi desideri di colloquio diretto con il divino; la preghiera autonoma è consentita e anche incoraggiata dalla tradizione ebraica, ma solo come una integrazione che non deve mai sostituirsi alle formule codificate, che hanno il ruolo di esprimere le esigenze della collettività, e proprio in questo trovano la loro forza. Durante le giornate festive, la parte centrale della preghiera delle “18 benedizioni” è sostituita da formule generalmente più brevi che sottolineano la particolare sacralità del momento che si festeggia.
Una breve preghiera, nata come formula di chiusura di riunioni di studio o di parti di preghiera, e che è successivamente è entrata nella preghiera pubblica istituzionale come componente importante e ricorrente, è il Qaddìsh (letteralmente: “la santificazione”). La nascita informale di questo testo ne spiega la lingua atipica, che è l’aramaico (mentre la maggior parte delle preghiere sono in ebraico), e la presenza di numerose varianti adattabili a diverse circostanze. Per la sua natura di preghiera collettiva, la recitazione del Qaddìsh può essere fatta solo in presenza di dieci adulti. Il testo del nucleo essenziale è questo: “Sia reso grande e santo il Suo grande nome, nel mondo che ha creato secondo la Sua volontà, e dove realizzerà il Suo regno, durante la vostra vita e i vostri giorni, e nella vita di tutta la casa d’Israele, presto e in un tempo vicino. [Il pubblico risponde: Sia benedetto il Suo grande nome, per sempre e in eterno benedetto]. E sia lodato, glorificato, innalzato, portato in alto, esaltato e celebrato il nome del Santo benedetto. Sia accolta la preghiera e la richiesta di tutta la casa d’Israele difronte al loro Padre in cielo e dite: amèn.” E’ fin troppo evidente la somiglianza con alcuni brani del Pater noster.
Le “18 benedizioni” sono solo una parte di un programma quotidiano di almeno cento “benedizioni” che il fedele è tenuto a recitare. Queste benedizioni hanno un nucleo essenziale comune: “sii benedetto Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che….” e al posto dei puntini si inserisce, di volta in volta, un espressione di ringraziamento per un bene che è stato dato in godimento all’uomo, come si fa ad esempio prima e dopo aver mangiato; oppure prima di compiere un atto rituale, ricordando appunto che quella azione si esegue perchè è stato il Singore a prescrivercela; oppure per solennizzare momenti o esperienze particolari della vita. Per ogni cosa nuova, ad esempio, si conclude la formula dicendo “…. che ci hai fatto vivere, ci hai mantenuto e fatto giungere a questo momento”. L’idea che sta alla base delle “benedizioni” è molto semplice: è una forma di educazione sistematica, che mette continuamente l’uomo in rapporto con il suo Creatore, al quale si attribuisce il dono del bene goduto, e la guida benigna e serena dell’ universo.
LE PRINCIPALI FESTE EBRAICHE
Oltre al Sabato, che è certamente la più importante, anche se la più frequente delle feste ebraiche, il calendario religioso contiene numerose altre occasioni festive. Un primo gruppo di tre grandi ricorrenze ha lontane radici bibliche, e prima ancora della Bibbia è legato alla celebrazioni di eventi naturali del ciclo agricolo. Il popolo ebraico, legato originariamente a una terra particolare, anche se ne è stato successivamente distaccato, e nel corso delle su peregrinazioni non si è più prevalentemente dedicato all’ agricoltura, ha comunque mantenuto il ricordo di queste origini e di questi significati. Le tre feste, che quando esisteva il Tempio erano l’occasione di pellegrinaggi di massa a Gerusalemme, sono, nell’ordine di citazione biblica, Pesach (la Pasqua), Shavuòt (la festa delle settimane), e Succòt (la festa delle Capanne o dei Tabernacoli); i riferimenti agricoli originari sono rispettivamente la primavera, la prima mietitura e la vendemmia. Su questi significati ne sono stati sovrapposti altri di carattere storico e religioso; Pesach è diventata la festa in ricordo dell’ uscita degli ebrei dalla schiavitù egiziana, Shavuòt la festa della promulgazione del decalogo sopra al monte Sinai, e Succòt il ricordo della permanenza degli ebrei nel deserto, nella strada dall’Egitto alla terra promessa, quando furono ospitati in capanne. La celebrazione di queste feste segue tuttora degli schemi rituali prescritti già nella Bibbia. La Pasqua cade il 14 di Nisan, cioè nel primo plenilunio di primavera, e dura sette giorni (8 nella Diaspora); non si fa più, mancando il Tempio, il sacrificio dell’agnello pasquale, ma se ne ricorda l’istituzione. Due i riti fondamentali della festa: l’astensione da tutte le sostanze lievitate e quindi il consumo di solo pane azzimo, cioè non lievitato, a ricordo della miseria del pane della schiavitù e della fretta dell’uscita dall’Egitto che non lasciò il tempo per la lievitazione normale; e poi la cena della sera del 15 di Nisàn, segnata da un ordine preciso e minuzioso di atti e cibi rituali (oltre alle azzime, quattro bicchieri di vino, erbe amare -a ricordo dell’amarezza della schiavitù- e un impasto dolce di frutta a ricordo della malta per i mattoni che il Faraone faceva fabbricare); lo scopo di tutto questo, insieme alla lettura della haggadà, una interpretazione rabbinica degli eventi della salvezza, è quello di conservare e di trasmettere alle generazioni future la memoria della liberazione ottenuta. A sette settimane di distanza segue la festa di Shavuòt, che dura un solo giorno (due nella Diaspora), un tempo caratterizzata dalla presentazione delle primizie al Tempio, ma che non ha oggi segni particolari di distinzione, se non quelli di tipo folclorico di alcune comunità (come quella italiana) di arricchire di addobbi floreali gli interni delle Sinagoghe. Essendo la festa legata alla promulgazione del decalogo, questo avvenimento viene solennemente ricordato con letture bibliche nelle Sinagoghe e con riunioni domestiche di studio. La festa delle Capanne cade in autunno, al plenilunio del primo mese dell’anno ebraico, e si segnala per la costruzione di capanne, ove ognuno ha l’obbligo di dimorare, o almeno di consumare i propri pasti durante tutta la durata della festa (7 giorni, o 8 nella Diaspora). E’ un modo per ricordare un episodio della storia biblica, ma più ampiamente per segnalare la caducità della condizione umana, insieme alla fede nella protezione divina. Durante la preghiera festiva i fedeli, per esplicita prescrizione biblica, agitano un mazzo di quattro specie vegetali (un ramo di palma, due di salice, tre di mortella e un cedro). Alla fine di Succòtun giorno a parte viene dedicato a festeggiare, con particolare allegria e solennità, la fine e il nuovo inizio del ciclo annuale di lettura sinagogale del Pentateuco. La festa di Succot, a sua volta viene preceduta da due altre ricorrenze imprtanti. All’ inizio del mese si celebra per due giorni il Rosh haShanà, il capodanno, che per quanto sia una occasione festiva, è centrato sul tema del pentimento e del ritorno a Dio. Per richiamare i fedeli alla penitenza, in tutte le Sinagoghe si ascolta il suono di un corno di montone, lo shofàr. Quindi al decimo giorno del mese cade l’altra ricorrenza importante, il Kippùr, il giorno dell’ espiazione, cui si attribuisce il significato di giorno di verifica finale del proprio comportamento in attesa del giudizio divino che ogni anno stabilisce la sorte dell’uomo. Il Kippùr è giorno festivo, ma viene celebrato con un digiuno assoluto di 25 ore, da una sera all’altra, e con una lunga seduta di preghiera che si interrompe solo nella notte. Lunghe recitazioni penitenziali, ampie illustrazioni rabbiniche e una speciale solennità in tutti i riti segnalano la eccezionale natura di questa giornata. Alla fine del digiuno, dopo una breve suonata dello shofàr i fedeli si riuniscono nelle famiglie per una cena festiva di interruzione del digiuno.
Il calendario ebraico comprende ancora altre ricorrenze festive. Il 25 del mese di Kislew (che cade in un giorno di Dicembre) inizia la celbrazione della festa di Chanuqqà (“dell’ inaugurazione”), che ricorda la vittoria in una guerra di indipendenza contro i Seleucidi, che governavano la terra d’Israele nel II secolo av. e.v. La guerra scoppiò per la difesa dell’indipendenza religiosa dell’ ebraismo, contro l’imposizione forzata dell’ Ellenismo; portò alla restaurazione del Tempio e all’insediamento di una monarchia ebraica di stirpe sacerdotale. La festa si celebra oggi privilegiandone soprattutto gli aspetti religiosi, con il rito dell’ accensione di una lampada particolare a otto braccia, iniziando con un lume il primo giorno e poi ogni giorno aggiungendone un altro fino ad otto.
Un mese esatto prima della Pasqua si celebra, per un giorno, la festa più allegra del calendario ebraico, quella di Purìm, (“le sorti”) che ricorda un episodio narrato nel libro biblico di Ester: lo scampato pericolo da un tentativo di sterminio del popolo ebraico, durante il regno del re persiano Assuero. Il rito essenziale della festa è la lettura pubblica del rotolo di Ester; quindi ciascuno festeggia con la famiglia e gli amici, banchettando, scambiandosi doni e facendo offerte speciali ai più bisognosi.
Il calendario liturgico conosce anche diverse occasioni di tristi riflessioni pubbliche, accompagnate da digiuni, che ricordano alcune sciagure storiche che hanno colpito il popolo ebraico. In particolare si segnala il giorno del 9 di Av (Luglio – Agosto) in cui si fa pubblico lutto per ricordare la distruzione dei due Tempi di Gerusalemme (quello distrutto dai Babilonesi, nel 586 av. e.v., e quello distrutto nello stesso giorno dai Romani nel 70) e altre calamità nazionali occorse al popolo ebraico nel corso della sua storia. In tale occasione si legge il libro biblico delle Lamentazioni, e numerosi altri componimenti mesti di circostanza.
Sul versante opposto, in molte comunità ebraiche del mondo è prevalso l’uso di considerare in qualche modo come una giornata festiva la ricorrenza civile del 5 di Yiar che ricorda la proclamazione di indipendenza dello Stato d’ Israele.
BIBLIOGRAFIA
Questa breve lista non ha alcuna pretesa di essere esauriente. La bibliografia sull’ebraismo oggi disponibile in lingua italiana è ormai estremamente ampia; i titoli qui elencati sono solo dei suggerimenti essenziali, in varie direzioni interpretative, su alcuni capitoli principali di cultura ebraica.
Introduzioni generali all’ ebraismo: I. Epstein, Il Giudaismo, Feltrinelli, 1967; E. Fromm, Voi sarete come dei, Ubaldini 1970; G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, 1986. Per le enciclopedie, un testo specializzato è J. Maier – P. Schäfer, Piccola enciclopedia dell’ebraismo; Marietti 1985; le voci “Ebraismo” e “Giudaismo” e gli ulteriori rimandi nell’ Enciclopedia delle Religioni, Vallecchi 1970. Di originale forma divulgativa C. Szlakmann, L’ebraismo per principianti, La Giuntina 1987; sul pensiero moderno M. Brunazzi e A.M. Fubini (cur.) Ebraismo e cultura europea del ‘900, La Giuntina 1990;.
Storia: I.A. Soggin, Storia d’Israele, Paideia 1984 (per la parte antica); L. Sestieri, Gli ebrei nella storia di tre millenni, Carucci, 1980; R. Calimani, Storia dell’ebreo errante, Rusconi 1987. Sull’ebraismo italiano, oltre al classico A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, A. Toaff, Il vino e la carne, ; R. Bonfil, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Sansoni 1991; importanti aggiornamenti nei tre volumi diItalia Iudaica.. Sui problemi di storiografia, Y. H. Yerushalmi, Zakhor, Pratiche, 1983.
Letteratura rabbinica: Mishnayyoth, in traduzione italiana di V. Castiglioni, tip. Sabbadini 1962; Le Massime dei padri, a cura di J. Colombo, Carucci 1975; Il trattato delle Benedizioni del Talmud Babilonese, a cura di S. Cavallotti; Il Talmud di A. Cohen, Laterza, Bari; Bereshith Rabba, trad. d. A. Ravenna; le traduzioni italiane del Commento di Rashi alla Genesi e all’ Esodo. Stimolanti le lezioni sul Talmud di E. Levinas: Quattro lezioni talmudiche, il melangolo, 1982; Dal sacro al santo, Città nuova 1985 L’ aldilà del versetto, Guida 1986,.
Introduzioni ai riti: Un classico in lingua italiana del XVII secolo è Leon da Modena, Historia de’ riti hebraici, ristampa fotolitografica, Forni 1979; A.J. Heschel Il Sabato, Rusconi 1972; E.S. Artom, La vita d’Israele;; R. Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Carucci 1986; AAVV. Berakhòth introduzione alle benedizioni e Regole ebraiche di lutto, Carucci- DAC 1980.
Testi liturgici con traduzione italiana: La nuova traduzione dell’intero formulario liturgico, non ancora del tutto completata è il Machazor di rito italiano, Carucci, vol. I 1990, vol. III, 1988, a cura di M.E. Artom; per le preghiere quotidiane la traduzione di D. Prato, Preghiere di rito italiano, La Giuntina 1949 (con successive ristampe anastatiche), e per i giorni festivi e il Kippur le traduzioni di D. Disegni, in varie edizioni. Recente è l’edizione per il capodanno: Machazor di Rosh ha-shanà (rito tedesco), Comunità Ebraica di Trieste 1991.
Mistica e Kabbalah: A. Safran, La Kabbalà, Carucci 1981 e Saggezza della Kabbalah, Mondadori 1990; G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica; il Saggiatore 1965; idem, La Cabala, ed. Mediterranee, 1982.
Chassidismo: A Mandel, La via del Chassidismo, Longanesi 1965; J. Langer, Le nove porte, Adelphi 1967; A. H. Heschel, Passione di verità, Rusconi 1980; M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, 1979; Schneur Zalman di Liadi, Liqqutè Amarim [Tanyà], in 4 volumi, Merkaz l’inyanei chinuch, 1968-70; Nachman di Breslav, La Principessa smarrita, Adelphi 1981.