La strage avvenuta nei campi profughi palestinesi vicino a Beirut tra il 16 e il 18 settembre 1982 è un atto criminale di cui è necessario conservare il ricordo.
Quando si parla della strage di Sabra e Chatila, il primo tema è chi deve fare i conti con quella strage. Per raccontarla e prendere la misura di quella scena, anche per chi ha visto e non ha fermato gli stragisti, è occorso molto tempo. Da questo punto di vista nessuno come il regista israeliano Ari Forman col suo Valzer con Bashir (in ebraico: ואלס עם באשיר; Golden Globe 2009 per il miglior film straniero) è riuscito a rendere quegli eventi. La sintesi è che prendere la misura con quella scena non è stato immediato.
Ma torniamo a quel tempo.
Tutto accade in meno di due giorni, tra il tardo pomeriggio del 16 e la mattina del 18 settembre: migliaia di civili, donne e bambini palestinesi furono trucidati per mano delle milizie libanesi, che entrarono nei campi con il solo scopo di compiere una strage. Ufficialmente i morti sono 762, in realtà il numero è più vicino a 3500.
Il dato certo non lo si saprà mai per davvero, perché un conteggio esatto di quei civili non è possibile. Quella strage infatti, sotto questo aspetto molto simile a quelle che nella seconda metà degli anni ’70 riguardarono i civili in America Latina, è riassunta dall’ammasso dei corpi nelle fosse comuni. Un censimento dei morti non è possibile.
Sabra e Chatila presentano un dato ancora più radicale. Quei corpi nei fatti non ebbero sepoltura allora, e quelli che la ebbero, nella più grande e nota delle fosse, situata all’ingresso del campo di Chatila e a pochi passi dall’ambasciata del Kuwait, è da anni una discarica dove vengono gettate immondizie e detriti di ogni genere. Ovviamente non c’è una lapide, o un qualsiasi segno che abbia trasformato quel luogo in un luogo di memoria, tangibile, vedibile, misurabile.
Si deve a Robert Fisk, corrispondente di “The Indipendent” da Beirut, forse il giornalista più attento e informato per raccontare la lunga crisi del Libano dagli anni ’70 in poi, il primo «fermo immagine» di ciò che si trovò di fronte nel pomeriggio di sabato 18 settembre, quando ormai l’evento si era consumato a Sabra e Chatila.
Scrive Fisk:
Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare
Quella strage arriva come l’inizio dell’epilogo di un lungo confronto interno che dura dal 1976, una guerra civile fatta di milizie, di aree controllate da forze politiche. Un paese, il Libano, che ha una bandiera e ha dei confini, ma che è difficile definire uno Stato.
Un paese che già allora (e ancora) mostra la caratteristica di essere una sorta di terra di nessuno e di tutti, meno che dei suoi abitanti. È però anche il risultato di una guerra che scoppia il 5 giugno 1982, quando l’esercito di Israele invade il territorio da cui da mesi miliziani filo-siriani attaccano le città israeliane al di là del confine, e dopo che il 3 giugno dello stesso anno, a Londra, l’ambasciatore Shlomo Argov è gravemente ferito (morirà nel 2003 per le conseguenze dell’attentato), atto rivendicato da una cellula terroristica che afferma di essersi separata dall’OLP e di essere guidata da Abu Nidal.
Iniziata come una campagna di controllo per una fascia di 40 chilometri oltre il confine, all’inizio dell’agosto 1982 l’esercito israeliano arriva alle porte di Beirut. Si concorda un cessate il fuoco, durante il quale gli statunitensi garantiscono ai palestinesi che lasciano la città un rifugio in altri Paesi arabi. Per gestire l’evacuazione dell’OLP e del quartier generale di Yasser Arafat, leader palestinese, viene chiamata in causa una forza internazionale composta da Stati Uniti, Italia e Francia.
L’operazione dura poche settimane. Una volta che tutti i combattenti palestinesi risultano evacuati da Beirut (l’OLP con Arafat stabilisce il suo quartier generale a Tunisi), la forza internazionale lascia il Libano, ma subito dopo la guerra riprende. Israele, oltre agli obiettivi militari volti all’allontanamento dell’OLP, segue anche obiettivi politici: il suo scopo è veder instaurato a Beirut un governo amico. Per questo la presenza israeliana nel sud del Paese favorisce l’elezione a presidente di Bachir Gemayel (1923-1982). Quest’ultimo però viene ucciso in un attacco a nove giorni dal suo insediamento (14 settembre 1982). A succedergli è il fratello, Amin Gemayel. L’episodio innesca una nuova spirale di violenza interna.
La strage di Sabra e Chatila è l’espressione di questa nuova spirale. I miliziani cristiano-maroniti individuano due campi profughi dove si sospetta si nascondano alcuni affiliati superstiti dell’OLP. Si tratta dei campi di Sabra e Chatila, collocati nella zona di Beirut ovest, controllata dall’esercito israeliano.
Le milizie delle Forze Libanesi il 16 settembre 1982, intorno alle ore 18:00, entrano nel perimetro dei campi. Per circa quarantott’ore i combattenti maroniti rimangono al loro interno. Il 18 settembre le dimensioni della tragedia appaiono drammaticamente chiare.
Un primo rapporto delle autorità libanesi parla di almeno 400 vittime. Ma subito dopo un’informativa dei servizi segreti israeliani alza il numero a circa 800. Altre fonti, invece, negli anni hanno fatto riferimento ad almeno 3500 morti.
La comunità internazionale mette sotto accusa i capi dei cristiano-maroniti, ma le critiche sono rivolte anche verso i leader israeliani. Nello Stato di Israele, in particolare, diversi deputati attribuiscono al governo una responsabilità indiretta. In quel momento infatti la zona del massacro è sotto il controllo israeliano e i soldati non avrebbero fatto nulla per impedire le esecuzioni dei falangisti.
Il 28 settembre del 1982, il Consiglio dei Ministri israeliano – anche in conseguenza della manifestazione di protesta che si svolge a Tel Aviv la sera di sabato 25 settembre 1982 (passata alla storia come “manifestazione dei 400.000”) – decide di istituire una commissione d’inchiesta per indagare su quanto accaduto nei campi profughi palestinesi di Beirut e stabilire le responsabilità dell’establishment di Israele. La relazione della commissione, presieduta da Yitzhak Kahan, già a capo della Corte Suprema, insieme ad Aharon Barak, giudice della Corte Suprema, e dal generale Yona Efrat, sarà completata l’8 febbraio 1983 e attribuirà al premier Begin e al ministro della Difesa Ariel Sharon una responsabilità indiretta dei fatti.
Il 10 febbraio 1983 il movimento Peace Now convoca una manifestazione sotto il palazzo del Primo ministro Menachem Begin a Gerusalemme a sostegno dell‘adozione delle misure proposte dalla commissione Kahan, tra cui la richiesta di dimissioni del ministro della Difesa Sharon per aver ignorato i segnali che facevano presagire l’intenzione di commettere la strage da parte dei falangisti. La manifestazione è circondata da esponenti dell’estrema destra convenuti in sostegno del governo Begin, i quali iniziano a lanciare granate contro i pacifisti. Emil Grunzweig (1947-1983) è ucciso da una granata lanciata da Yona Avrushmi, militante dell’strema destra. Le granate feriscono altri nove militanti di Peace Now.
Ma per ritornare a quelle scene di Beirut, la possibilità del Libano di essere e di risorgere come Stato dopo la lunga notte iniziata nel 1976 non ha ancora trovato una soluzione. L’ultima volta è accaduto nel 2005, quando si è impedito un rinnovamento politico attraverso la partecipazione della società civile, e coloro che ci hanno provato e con generosità hanno impegnato sé stessi – tra gli altri: Rafik Hariri, Samir Kassir, George Hawi – sono stati sistematicamente uccisi. Nel corso del 2005, tra febbraio e giugno, tutti i tentativi di rinnovamento sono stati dissolti da interventi mirati a eliminare una possibile guida politica, interventi che spesso hanno avuto come mandanti i siriani. La possibilità della democrazia si è fermata allora, e con essa si è bloccata anche l’ultima prova di un rinnovamento politico che voleva dire al mondo arabo, alle forze moderate e a quelle democratiche che cambiare si può, che una nuova generazione politica era nelle piazze, che era possibile entusiasmare generazioni arabe senza il richiamo del vincolo della fede, che la politica poteva riprendere un cammino dopo che l’onda lunga del radicalismo religioso l’ha costretta da tempo in un angolo. Che era possibile – in altre parole – come scriveva Samir Kassir nel suo L’infelicità araba (Einaudi) – uscire dalla sindrome della sconfitta e riprendere un’idea di sviluppo.
Poi quella possibilità è morta, l’ultima volta con l’esplosione che si è verificata nell’area del porto di Beirut il 4 agosto 2020 intorno alle ore 18:08: 214 persone morte; 7000 feriti; 300.000 persone senza casa, ovvero 2/3 degli abitanti della città.
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