David Piazza
Qualche riflessione sul programma di riavvicinamento della comunità ebraica di Milano
È davvero strano come in una Comunità dove i problemi non mancano e il bilancio presentato mostrava preoccupanti (ma non certo nuovi) deficit alla voce scuola, in un’assemblea comunitaria le critiche degli assessori che hanno preferito abbandonare il consiglio nel novembre scorso, si siano concentrate ancora una volta sul programma Kesher che ha saputo risvegliare la Comunità da un torpore culturale che durava oramai da anni.
Sarà meglio precisare che il torpore a cui ci riferiamo non è certo quello dei numerosi gruppi che si sono ritagliati degli spazi autonomi, e che anzi sembrano vivacissimi, ma quello della Comunità in quanto tale, in quanto istituzione centrale.
Di fronte a una sala con le solite poche presenze, infatti, e dopo le lodi di rito stile “Bruto è un uomo d’onore”, si è sbeffeggiato Kesher sostenendo che con un programma di riavvicinamento degli ebrei “lontani” ci si sarebbe aspettato un’aula magna piena, o perlomeno un aumento delle iscrizioni a scuola. Altri hanno insistito sul fatto che, in fondo, i partecipanti a Kesher non siano tutti ebrei lontani dalle attività comunitarie, ma volti noti. Poi la stoccata finale: apprendiamo attoniti che qualcuno si aspettava che tale progetto fosse un investimento, da cui però si sarebbe avuto un ritorno economico, in altre parole gli ebrei “riavvicinati” avrebbero messo mano al portafoglio, cosa che invece il bilancio in deficit non mostra. In buona sostanza Kesher “rende” poco.
Ma quanti fantastiliardi di euro costerà mai questo Kesher, potremo domandare? 12.000 euro all’anno al netto del finanziamento avuto da Israele, hanno risposto gli amministratori in carica, che per un’attività che organizza incontri e corsi più di una volta a settimana, gite, shabbaton, ognuna con il proprio rinfresco, come si usa fare oramai da tempo per rendere più piacevoli le serate, non è proprio una cifra esorbitante.
Quello di cui non ci si rende conto (o peggio non si vuole) è che gli obiettivi di Kesher sono ben più ambiziosi e sicuramente meno immediati di quello che si vuole far credere. Riavvicinare gli iscritti persi nel corso degli anni vuol dire essenzialmente, non solo ricostruire un interesse verso le istituzioni perso per mille motivi differenti, ma anche riportare la Comunità al centro dell’arena culturale e formativa con la sua capacità di dare risposte valide a problemi identitari.
Sarebbe quindi poco saggio ridurre questi obiettivi a una mera partecipazione ad assemblee comunitarie che sappiamo da anni essere noiosissime e poco comunicative. Non da oggi dissentiamo profondamente con chi sostiene che “gli assenti hanno sempre torto”. Siamo un’associazione volontaria, e il torto sta anche dalla parte di non sa coinvolgere gli utenti.
E per coinvolgere, bisogna formare un gruppo trainante, come ha spesso sostenuto il direttore di Kesher, rav Colombo. Proporre attività comunitarie senza questo gruppo vorrebbe dire venir meno a quel bisogno di socializzazione che ne costituisce la base ed è naturale che alla rinnovata offerta culturale in comunità possano essere attratti anche vecchi e solidi frequentatori. Che facciamo: li rimandiamo a casa perché sono “volti noti”?
Riguardo poi alla pretesa che gli ebrei “riavvicinati” riprendano subito a contribuire, sembra proprio una barzelletta antisemita di pessimo gusto sugli ebrei e il denaro. Di quelle che solo gli ebrei sanno raccontarsi tra di loro.
Criticare è certo lecito e contribuisce a migliorare la gestione della cosa pubblica. Dedicare più della metà dell’assemblea a stigmatizzare il progetto Kesher ha il sapore di un accanimento politico del tutto strumentale.
Consigliere