Anna Guaita
Fra la promulgazione delle leggi razziali e il sabato nero del ghetto di Roma corrono cinque anni. Per i 40 mila ebrei che vivevano nel nostro Paese, gli anni fra il 1938 e il 1943 segnarono la fine di una parentesi felice e la progressiva discesa agli inferi. Pochi si salvarono. Circa 5 mila riuscirono a scappare e lasciare l’Italia, e 2 mila arrivarono negli Usa. Erano scienziati e musicisti, docenti universitari, intellettuali, e difatti si parla spesso di quella fuga come della prima “fuga di cervelli”. Ma ci furono anche tanti piccoli imprenditori, medici, commercianti, avvocati. E spessissimo coloro che trovarono in America una “nuova terra promessa” dovettero reinventarsi, rinunciando alle loro brillanti carriere, pur di racimolare il necessario per vivere.
Le testimonianze di quelle vicende, quelle rinunce, quei sacrifici, quel coraggio sono state raccolte negli Stati Uniti da Gianna Pontecorboli, e l’editore Brioschi le ha pubblicate nel volume “America, Nuova Terra Promessa”.
Confesso di aver seguito da vicino la nascita di questo progetto: nell’aprile del 2010, andai a vedere al Jewish Community Center di Manhattan il documentario in cui Gianna Pontecorboli aveva raccolto le voci di questi italiani ebrei, alcuni oramai vecchissimi. Erano testimonianze destinate a essere dimenticate, se Pontecorboli non le avesse registrate, e poi ordinate in un libro che si legge tutto d’un fiato combattuti fra l’orrore della persecuzione e l’ammirazione per il coraggio dei fuggitivi e la generosità di chi li aiutò. Nell’introduzione, Furio Colombo scrive con mordente semplicità: “La fuga è parte della persecuzione”. E nelle parole dei nostri connazionali iniquamente disconosciuti dalla loro patria trovi conferma di questa verità: fuggire non era facile. Ci voleva il visto di ingresso negli Usa, difficilissimo da ottenere. Ci volevano soldi. Ci volevano contatti, indispensabili per superare l’ostilità di una buona fetta dell’opinione pubblica americana. Alex e Carla Pekelis ci impiegarono due anni ad arrivare negli Usa, prima di superare l’ultimo scoglio: la resistenza del console americano a Lisbona, dove la famiglia era approdata dopo che anche la Francia era caduta. Lina Vitale racconta come suo padre si fidò dei suggerimenti dei cugini già da tempo negli Usa e cominciò ad arrampicarsi nottetempo sui passi alpini al confine con la Svizzera, per portare contante alle “guide” che poi per conto suo li depositavano nella filiale della Bank of America di Zurigo: un’avventura che poteva rivelarsi un gigantesco imbroglio, ma che invece funzionò benissimo e permise alla famigliola di far giungere alle autorità Usa i duemila dollari che avrebbero garantito il visto.
E poi c’era l’ostilità americana: gli Usa uscivano dalla Grande Depressione e vedevano di malocchio i nuovi immigrati che “rubavano loro i posti di lavoro”. Non basta: gli italo-americani stessi non accoglievano con favore gli italiani ebrei, perché la nostra comunità era allora filofascista. Solo con la nascita della Mazzini Society – voluta da Gaetano Salvemini, Lionello Venturi, Giuseppe Antonio Borgese, Michele Canterella Carlo Sforza, Aldo Garosci, Max Ascoli, Alberto Tarchiani, Randolfo Pacciardi – la popolazione italiana d’America esprimerà nette posizoni antifasciste.
Cade quest’anno il 75esimo anniversario delle leggi razziali. E’ una data che nella mia famiglia ebbe un poderoso impatto: vedendo amici e compagni di scuola di colpo bollati come nemici, i miei genitori sentirono rafforzati la loro convinzione e il loro impegno nella lotta antifascista. Mia zia, Maria Luigia, che di lì a poco diventerà una staffetta partigiana, rischiò la vita tante volte per aiutare amici ebrei – fra questi ci fu anche Carlo Levi – a ottenere carte d’identità false che potessero permetter loro di scappare. Ringrazio dunque Gianna Pontecorboli per averci restituito le voci dei nostri connazionali perseguitati e fuggiti. Che duemila di loro abbiano trovato in America la loro “nuova terra promessa” non alleggerisce la macchia indelebile che le leggi razziali lasciarono sulla coscienza del nostro Paese. Sono passati 75 anni, ma Furio Colombo ci ricorda quanto attuale sia la storia di quegli eventi “davvero accaduti, che non possono essere dimenticati, e che è giusto passare a coloro che allora non c’erano”. “Si vedrà, sul fondo – aggiunge Colombo – la grande folla di coloro che hanno visto e taciuto. E ciascuno potrà porre a se stesso una domanda che non si può eludere: io che cosa avrei fatto?”
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