Un libro di Jan Tomasz Gross documenta la persecuzione antisemita operata dai polacchi
Laura Mincer
Quando il vicino si trasforma in carnefice”F a male!/ Fa terribilmente male!/ Non è tanto l’odio/ che divora il nemico,/ non è tanto il colpo/ della sua barbara mano,/ non è il Magen-Dovid sul braccio./ Vergogna!/ Nella terra dei nostri avi!/ Vergogna!/ Non è il nemico straniero a colpirci,/ sono loro!/ I figli e le figlie della Polonia,/ la Polonia che un giorno/ ne proverà vergogna”
Nel 1940, a Cracovia, il poeta e chansonnier yiddish Mordechaj Gebirtig, in una prosa ansimante, spezzata, così lamentava il tradimento perpetrato “sulla terra degli antenati”. La comune esperienza di oltraggio, la sofferenza comune inferta dalla stesso nemico, sullo stesso suolo, avrebbe dovuto avvicinare quelli che il poeta ebreo polacco Antoni Slonimski ha definito “i due più tristi popoli al mondo”, eppure, nella maggior parte dei casi, le vicende si sono svolte in modo ben diverso.
“Loro come noi/ rimasti senza terra/ loro come noi/ sentono del nemico la mano crudele./ Ma loro ridono, loro gioiscono e ridono ora/ Mentre della Polonia la fierezza e l’orgoglio/ sono così oltraggiati”, seguita Gebirtig. Forse nessuno è riuscito come lui a riassumere, in così poche parole, la tragedia che, da quel momento in poi, avrebbe eretto una barriera fra questi due popoli. La ferita inflitta dal vicino di casa brucia molto di più di quella inferta dal nemico, brutale, straniero. E proprio Sasiedzi, (Vicini di casa) si intitola il nuovo libro di Jan Tomasz Gross, pubblicato in Polonia lo scorso maggio e definito da uno dei maggiori giornalisti polacchi “una bomba atomica a scoppio ritardato”.
Jan Tomasz Gross, pubblicista, professore di Scienze Politiche alla New York University, era certamente la persona più adatta a sollevare il velo del silenzio su una parte di storia ancora sconosciuta della Seconda Guerra Mondiale: ebreo da parte di padre, di nobile famiglia polacca da parte di madre, imprigionato nel 1968, da allora, anno delle rivolte studentesche e della tristemente celebre campagna antisemita del governo polacco, è esule negli Stati Uniti.
In Italia, lo scorso dicembre, ha scritto di “Vicini di casa” Adriano Sofri su “La Repubblica”. In Polonia, dove il libro è uscito a maggio, il dibattito sulle colpe dei polacchi nei confronti degli ebrei si è – finalmente – aperto già da qualche tempo.
Molti si sono lamentati di una cappa di silenzio sui crimini di Jedwabne: eppure “Gazeta Wyborcza”, il massimo quotidiano polacco, con circa due milioni di lettori, ha pubblicato nel popolare inserto domenicale numerosissimi interventi sul tema; ancora prima, il noto mensile “Rzeczpospolita” aveva pubblicato importanti saggi di uno dei suoi collaboratori (uno di essi è accessibile anche in inglese, nello Yedwabne Yizkor Book, al sito http://www.jewishgen.org/yizkor/jedwabne/yedwabne.html); infine, lo scorso maggio, l’Istituto di Scienze Politiche dell’Accademia Polacca delle Scienze ha organizzato un convegno sullo sterminio degli ebrei di Jedwabne, a cui hanno preso parte un folto gruppo di storici, di membri dell'”Alta Commissione di Studio sui Crimini contro il Popolo Polacco”, membri del gabinetto del Primo Ministro e del Ministero degli Esteri.
“Tutti quelli con cui ho parlato, che hanno letto “Vicini di casa”, ne sono rimasti doloranti, intorpiditi. E’ un libro troppo crudele e troppo denso di emozioni, il carico della sua accusa è troppo pesante per poter continuare a vivere come prima anche dopo averlo letto. Anche se non sarà semplice, dobbiamo far sì che Jedwabne diventi parte della coscienza polacca.”. Esordisce così un noto giornalista sulle colonne di Gazeta Wyborcza.
Ma a Gross si fanno anche delle accuse: di superficialità e di poca precisione storica; si è tentato di confermare la versione già accettata, che i colpevoli del massacro fossero i tedeschi, e i polacchi semplici spettatori inermi; si è infine tentato, in modo paradossale e ripugnante, di “giustificare” l’eccidio con la presunta adesione ebraica all’invasione sovietica…
Sempre su Gazeta Wyborcza, ne ha scritto lo studioso Dariusz Czaja: “Tutti sembrano temere la semplice conclusione suggerita da “Vicini di casa”: siamo stati noi, polacchi, ad uccidere gli ebrei a Jedwabne.” Si agita di nuovo il fantasma di un odio irrazionale che gli ebrei nutrirebbero nei confronti dei polacchi, ma “questa storia e le sue conseguenze per l’identità collettiva mostrano chiaramente che il nostro problema non sono gli ebrei, siamo noi stessi.”
Oltre all’atrocità, alla tristezza senza pari della storia raccontata, colpiscono, in questa vicenda, alcuni elementi: è straordinario il desiderio spasmodico e spesso goffo di autogiustificazione da parte polacca, ma colpisce anche, come un dato estraneo e quasi “esotico” per il nostro paese, il senso di collettività che trapela da tutte le prese di posizione: sia da parte di coloro che ammettono le atrocità commesse, sia da chi tenta in modo più o meno maldestro di negarle. Infatti, nel dibattito su Jedwabne il tema centrale è proprio quello della responsabilità collettiva.
“Per responsabilità collettiva intendo l’obbligo alla riparazione simbolica delle colpe commesse, non il pagamento di una ricompensa, – ha scritto il noto storico Jerzy Jedlicki.- Nelle società umane la riparazione simbolica ha proprietà purificatrici, catartiche: impedisce che ci abbandoni all’odio, spegne il diritto alla vendetta.”
E’ questo il punto su cui ha insistito, con Gross, tutta la parte più sana della società polacca. “La forma certamente più efficace di riparazione simbolica consiste nell’insegnare la verità. – è stato scritto. – Gli spettri del passato sono ancora fra di noi; finché non li porteremo alla luce e non li accetteremo continueranno a vivere sotto la nostra pelle. Ormai non possiamo fare nulla per cambiare il nostro passato. Ma la conoscenza della verità ha proprietà purificatrici”
Come hanno vissuto, in questi anni, gli abitanti di Jedwabne? La regista Agnieszka Arnold da quattro anni raccoglie materiale sulla cittadina. Un suo sconvolgente documentario, “Dov’è mio figlio Caino?”, è stato trasmesso dalla TV polacca nell’aprile del 1999.
“Il silenzio che per 60 anni ha gravato su Jedwabne – ha detto Arnold in un’intervista – ha devastato questa gente, che ha continuato a vivere nell’ombra del crimine. Girando il mio film a Jedwabne ho incontrato una forte avversione, ma anche in America i pochi superstiti non volevano parlarmi. Essendo polacca, mi identificavano con i carnefici…”
Come si comportò la società di Jedwabne nel luglio del 1941? “Possiamo solo fare delle supposizioni – seguita Arnold – perché per ogni individuo esiste una verità diversa. (…) Ci sono persino quelli, ed è terrificante, che pensano ad una giusta vendetta dei polacchi contro gli ebrei. Ma c’è anche gente che ricorda i banditi infierire sugli inermi, gente che di notte si sveglia perché continua a sentire l’urlo dei bruciati vivi. C’è gente che si è messa a piangere, quando ho avviato la telecamera”.