Un articolo del Foglio del 2009 ci racconta che cosa pensasse veramente del dialogo interreligioso il cardinale appena scomparso al quale a Milano vengono anche dedicati giardini del Keren Kayemet Leisrael
Giorgio Israel
E’ significativo che il violento attacco con cui il rabbino capo di Venezia Richetti ha accusato Benedetto XVI di aver demolito 50 anni di dialogo ebraico-cristiano sia apparso sul mensile dei gesuiti Popoli. Peraltro, basta attenersi ai fatti, senza ricorrere alla mediocre pratica della dietrologia, per rendersi conto che in questa diatriba vi sono moventi che con il merito hanno poco a che fare.
Si noti che nessuno degli argomenti opposti ai duri attacchi di parte del rabbinato italiano è stato mai preso in considerazione. Anzi, dopo che il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha apprezzato l’affermazione del Papa secondo cui, in senso stretto, il dialogo interreligioso è impossibile – perché, dice Di Segni, è meglio evitare il dialogo teologico – ecco che Richetti la indica, all’opposto, come prova che non si vuol dialogare! Il fatto è che, mentre Di Segni, per quanto cauto e diffidente, segue una linea di razionalità – “Il dialogo è un processo che deve andare avanti malgrado le difficoltà. Papa Benedetto XVI continua a dare un originale e determinante contributo, anche se le sue posizioni non sempre sono condivisibili” – c’è chi ha deciso che bisogna litigare a tutti i costi col Papa e non fatica a trovare dall’altra parte chi risponde con simmetrico zelo, anche a costo di riattizzare mai spenti sentimenti antigiudaici. Qui siamo in presenza di uno scontro interno al mondo cattolico in cui una parte del mondo ebraico italiano si sta prestando alla funzione del Settimo Cavalleggeri.
Vorrei citare un episodio sintomatico che risale a un anno e mezzo fa. Mi colpirono allora alcuni passaggi del libro “Le tenebre e la luce” del cardinale Martini. Vi si faceva riferimento al processo a Gesù come alla prova del “crollo di un’istituzione (il Sinedrio) che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove” e che invece testimoniava la “decadenza di un’istituzione religiosa”: “si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare”. E si concludeva duramente circa la “necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche” indicando la seguente visione del dialogo: “il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso” – parole espresse nel Discorso della montagna, “assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate”. Chiesi come si potesse accettare una simile visione del dialogo basata su un’idea di conversione: altro che preghiera del Venerdì santo! Oltre alle prevedibili stizzite risposte di qualche seguace del cardinale, l’attacco più virulento mi venne dalle colonne del Bollettino della Comunità ebraica di Milano, dove fui addirittura accusato di “pugnalare alle spalle” vilmente un amico degli ebrei e con esso tutto il dialogo…
Poi sono venute le polemiche sulla preghiera del Venerdì santo che hanno condotto all’attuale sospensione del dialogo, decretata anche nei termini di un divieto alle Comunità di incontrare ecclesiastici. Da tale sospensione dissentimmo Guido Guastalla e io in una lettera al Corriere della Sera (26 novembre 2008) dai toni pacati e senza ombra di polemica. Ne ricevemmo in cambio una violenta risposta firmata dal rabbino Laras (Presidente dei Rabbini italiani), dal Presidente dell’Unione Giovani Ebrei e (fatto significativo) non dal Presidente ma da un ex-Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche, nella persona di Amos Luzzatto. In questa lettera – in cui si intimava a non occuparsi del dialogo, in quanto di esclusiva competenza dei rabbini (soli “interlocutori” e “ufficiali responsabili della rappresentanza religiosa”) – la “capitale” del dialogo ebraico-cristiano veniva indicata in Milano e nelle persone dei cardinali Martini e Tettamanzi da un lato e da Laras e altri; e si osservava che in tale elenco noi mancavamo… Guarda caso, si tornava sempre lì, a Milano, attorno al cattolicesimo ambrosiano e a un certo ebraismo di sinistra.
Si affermava inoltre che “i rapporti tra ebraismo e islam generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra ebraismo e cristianesimo” ricevendo subito un’entusiastica risposta da parte di alcuni rappresentanti della Grande Moschea di Roma, che attestavano quanto la lettera fosse stata apprezzata. Naturalmente, in questo idillio la domanda del perché mai quegli stessi rappresentanti non ne vogliano sapere di varcare la soglia della Sinagoga di Roma resta inevasa, anzi non viene neppure fatta. Si tratta di atteggiamenti che appartengono a una categoria arcinota. Sono gli atteggiamenti di chi preferisce andare assieme a coloro con cui ha consonanza politico-ideologica “a prescindere”. E’ la consonanza ideologica tra un certo cattolicesimo di stile ambrosiano – lo stesso che assiste condiscendente alle parate islamiche – e un ebraismo di sinistra indifferente al sentirsi proclamare “tradizione religiosa degradata”: l’importante è colpire assieme il comune nemico, l’odiato ratzingerismo neocon. Inoltre, è sempre meglio dialogare con l’islam che con il Papa, e perfino meglio che con se stessi, come ha bene espresso su queste pagine Alberto Melloni dicendo che ebraismo e cristianesimo sono religioni pesanti, complicate ed esagerate, mentre l’islam è semplice, essenziale e chiede poco (chissà perché non si converte).
A questo punto salta anche agli occhi di un cieco che le questioni di merito c’entrano come il classico cavolo a merenda. Esse sono soltanto un pretesto per saldare uno schieramento politico e rafforzare una battaglia interna al mondo cattolico, ma anche per colpire l’attuale dirigenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche e della Comunità di Roma, ritenute “troppo di destra”. Che in una situazione drammatica come questa ci sia chi ha voglia di fare simili manovre, a costo di provocare scontri, divisioni e anche di riattizzare vecchie incomprensioni e risentimenti contro i quali il dialogo dovrebbe essere perseguito con la stessa cura con cui si assume un medicamento, è un segno di come l’ideologia possa condurre alle più gravi manifestazioni di irresponsabilità.
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