Bollettino della Comunità Ebraica di Milano – Marzo 2005
Basato su una sichà di ha-Rav Aharon Lichtenstein
La storia narrata nella Meghillà è incentrata ampiamente sul pericolo che minacciò la nazione di Israele e sul modo in cui, grazie alla misericordia di D-o, essa si salvò. Colui che legge il testo della Meghillà potrebbe domandare quale fosse la fonte e la natura di questo pericolo – come si presentò. Naturalmente, è possibile offrire una spiegazione naturale e razionale per il corso degli eventi: la nomina di Haman come viceré, la sua collera nei confronti di Mordechai l’Ebreo e, unendo questi due elementi – il suo desiderio di danneggiare Mordechai personalmente e, per estensione, anche “la nazione di Mordechai”.
I Saggi intendono la storia in generale e gli eventi narrati nella Meghillà in particolare non coincidono con la visione descritta sopra e con la causa e il contesto apparenti. Chiunque desideri capire il motivo del decreto divino non può fare riferimento semplicemente alla collera di Haman o al fatto che Achashverosh approvasse i suoi progetti. La storia deve essere esaminata nella prospettiva della provvidenza divina.
Nella Ghemarà (Meghillà 12a) si trova questo racconto:
Gli studenti di Rabbi Shimon bar Yochai una volta gli chiesero: “Per quale motivo gli Ebrei di quella generazione (ovvero, la generazione in cui si verificarono gli eventi di Purim) meritavano la distruzione?” Egli rispose: “Rispondetemi voi” Essi risposero: “Perché parteciparono al banchetto del malvagio (Achashverosh)”.
Egli disse loro: “Se è così, allora avrebbero dovuto essere uccisi solo quelli che si trovavano a Shushan– non gli Ebrei di tutto il mondo” Essi risposero: “Allora dillo tu”. “Perché si prostravano di fronte a un’immagine”. Essi dissero: “Allora non si tratta di un esempio di favoritismo” (ovvero, se si prostrarono veramente davanti a un’immagine, perché meritarono di essere salvati?”. Egli rispose: “Lo fecero soltanto per dimostrazione (ovvero, non agirono per convinzione ma per le pressioni, il timore e il terrore) e quindi anche D-o agì per dare una dimostrazione.
Da questa ultima risposta impariamo che la anche la risposta originale degli studenti era corretta. Egli non nega che fosse un motivo legittimo per il decreto di distruzione; sottolinea semplicemente che questa distruzione avrebbe dovuto essere decretata soltanto nei confronti di coloro che parteciparono – ovvero, gli Ebrei di Shushan – e non degli Ebrei che vivevano nelle altre province dell’impero. Perciò, Rabbi Shimon bar Yochai preferì spiegare che il peccato di prostrarsi davanti a un’immagine è stato comune per tutti gli Ebrei di quel tempo, così come lo fu il decreto di distruzione.
Analizziamo meglio questo atto, per cui meritarono di essere distrutti. Sembra che il peccato che riguardava l’immagine sia piuttosto chiaro… Di base, questo peccato consiste nel trasferire il rapporto con il Santo, che sia Benedetto, ad un altro essere. Non ha importanza se si siano effettivamente prostrati davanti a lui se questo rapporto abbia trovato espressione in altro modo; non ha importanza se questo rapporto riguardasse un oggetto normalmente adorato (come Haman) oppure no. Fintanto che il sentimento di dipendenza che dovrebbe caratterizzare il rapporto di ogni Ebreo verso D-o – il sacrificio di sé totale che è necessario, essere pronti a passare attraverso il fuoco e l’acqua – fintanto che tutto ciò è diretto verso qualcos’altro (una persona, un’istituzione, uno stato, o altro), si tratta in qualche misura di “prostrazione davanti a un immagine.
Si tratta, per un certo grado, di tradimento in termini di sacrificio di sé, di lealtà, di sentimento di dipendenza e di collegamento spirituale – “Soltanto a D-o!”.
L’atto di prostrarsi davanti a un immagine crea confusione tra le definizioni di “Regno del Cielo” e “regno terreno” e il rapporto con un re mortale e corporeo si crea a scapito del rapporto con il Re dei Re.
Il primo motivo per il decreto di distruzione riportato dalla Ghemarà, “poiché parteciparono al banchetto del malvagio (Achashverosh)” è di tipo diverso. Qui, la natura del peccato è meno chiara, e ritengo che siano coinvolte due diverse componenti. I nostri Saggi non affrontano direttamente l’aspetto puramente halachico della questione – dopotutto, nello Shulchan Aruch non c’è una regola che proibisce a una persona di partecipare a un banchetto regale. I Saggi sottolineano addirittura il fatto che, dal punto di vista halachico, coloro che parteciparono si sforzarono di osservare le regole di kasherut. La frase “E le bevande erano conformi alla legge, nessuno era obbligato” viene commentata nel Midrash “Nessuno li obbligò a bere ‘vino dei gentili’”. In altri termini, si sforzarono di bere soltanto vino strettamente kasher. In seguito, nella Ghemarà (Meghillà 13b) si ritrova un’altra prova dell’osservanza meticolosa delle leggi religiose: quando Haman dice a Achashverosh che “le loro leggi (degli Ebrei) sono diverse da tutte le altre nazioni” intende sottolineare fino a che punto il loro isolamento e la loro diversità nuocessero al regno: “Non conviene che il re li sopporti – essi hanno mangiato, bevuto e hanno disprezzato il tuo regno, perché se anche una mosca dovesse cadere nella coppa di uno di loro, butterebbe via la mosca e continuerebbe a bere, mentre se il signore, mio re, toccasse appena la coppa di uno di loro, la getterebbe a terra e non ne berrebbe neppure una goccia (perché per questo assumerebbe lo status di vino gentile)”
Effettivamente, fecero molta attenzione a non bere vino gentile; non è questo il problema. Ritengo che la loro colpa principale sia composta da due elementi: una è l’effettiva partecipazione al banchetto; la seconda è la partecipazione a un banchetto che non era ordinario, ma “il banchetto di un uomo malvagio”.
All’inizio della vicenda, ci chiediamo di fronte a che tipo di mondo ci troviamo. In che sfondo sociale e etico avvengono questi avvenimenti? Se leggiamo il racconto con attenzione, sembra che la storia si svolga in un mondo surrealistico, in cui le consuete preoccupazioni di un Ebreo normale – problemi di famiglia e di sussistenza, traguardi personali e comuni – non esistono.
In questa società nessuno lavora, nessuno si preoccupa di guadagnarsi da vivere. Di che cosa si occupavano tutto il giorno? Una lunga, continua serie di feste e banchetti. Immaginiamo: per mezzo anno, “centottanta giorni”, si trovano ad una festa ininterrotta. E’ questo che caratterizza la società; anche quando sono in corso delicati negoziati politici e vengono discusse questioni importanti, la prima preoccupazione di Achashverosh è per le bevande. Gli eventi si verificano nella metropoli di Shushan, la capitale del regno. Si potrebbero citare parecchie analogie storiche, sia dell’Occidente che dell’Oriente, riguardanti l’importanza delle celebrazioni festive collegate alle capitali e ai palazzi reali. Chiunque legga il racconto di un tale stile di vita dovrebbe fermarsi e chiedersi con stupore: dal punto di vista della giustizia sociale più elementare, che cosa sta accadendo in questo paese? Quante decine di migliaia di persone devono lavorare come schiavi, giorno e notte, per permettere a questo corpo corrotto di ministri, satrapi e governatori di assumere un comportamento sfrenato per mezzo anno? Dove sono gli uomini e lo sforzo che devono essere stati necessari per produrre “gli utensili, diversi l’uno dall’altro?” Tutti questi ministri delle varie province, ingordi e ubriachi, bevono e banchettano a spese dei poveri calpestati, sparsi per tutto il regno. I contadini portano il fardello dei bagordi reali a Shushan, la capitale. Questo è un modo di vedere la corruzione: un’ingiustizia che viene perpetrata sull’intera popolazione affinché un piccolo gruppo scelto possa banchettare e bere da recipienti d’oro. Ma il bere eccessivo ha anche una connotazione di sregolatezza, che trova espressione in una perdita di autocontrollo e dei limiti. “Quando il vino entra, escono i segreti”.
Tale sregolatezza porta naturalmente con sé – e di ciò non mancano le prove, ne’ in letteratura, ne’ nei libri di storia – un diverso tipo di corruzione. Se bere è già di per sé un atto di natura orgiastica, la situazione degenera rapidamente e assume altre caratteristiche orgiastiche.
I Saggi insegnano (Meghillà 12b):
“’Il settimo giorno, quando il cuore del re era allegro per il vino’ – il suo cuore non era forse allegro fino a quel momento (tardivo!)? Rabba dice: il settimo giorno era Shabbath, il giorno in cui gli Ebrei mangiano, bevono e poi pronunciano parole di Torà e di lode (all’Onnipotente). Ma i pagani mangiano e bevono e poi parlano in modo dissoluto. E ciò accadde al banchetto del malvagio (Achashverosh). Qualcuno disse ‘le donne medie sono (le più) belle’, e altri affermavano ‘le donne persiane sono (le più) belle’. Achashverosh disse loro ‘l’utensile che uso io (un modo volgare per riferirsi a sua moglie) non è ne’ media ne’ persiana, bensì caldea. Volete vederla?’ Essi risposero: ‘Soltanto se comparirà davanti a noi nuda’”.
Assistiamo, dunque, al passaggio dalla sregolatezza relativa al vino a quella a sfondo sessuale. Questo è l’altro aspetto della “partecipazione al suo banchetto”, un aspetto che ci porta più vicini al nodo della questione, pur rimanendone ancora lontano.
L’asserzione secondo cui Israele meritava di essere distrutta “perché partecipò al banchetto del malvagio” si basa sulla loro immersione in questi piaceri. Tale affermazione si basa sul loro coinvolgimento profondo in una società basata sul piacere continuo, una società il cui carattere esistenziale e il cui stile di vita – per non parlare le conseguenze pratiche che ne risultano – prescindono totalmente dallo sforzo creativo, dal lavoro manuale e dall’attività. Questo insediamento di Israele nella voluttuosità avvolgente del banchetto di Achashverosh è il motivo per cui avrebbe meritato di essere distrutta. Che società; che mondo! Il livello della corruzione è percepibile come un grido tra le righe che descrivono il “pavimento di alabastro, marmo, perle e pietre preziose” Come può una società vivere in questo modo? I vertici politici si devono comportare così? E’ questo l’aspetto del quadro dominante di 127 province? Feste dopo feste e altri bagordi, settimana dopo settimana? Sarebbe questo l’esempio da dare?
Si tratta di qualche cosa di più dell’ingiustizia che reclama di essere corretta; più di una perdita di disciplina interna e di capacità di limitarsi; è più profondo di un indugiare nel vino e nella dissolutezza. Proprio la dedizione a una vita caratterizzata principalmente dalla ricerca del piacere, su tale scala, costituisce il motivo per il decreto di distruzione. E occorre sottolineare che non vi è alcun collegamento tra il piacere tratto dalla partecipazione al banchetto del malvagio Achashverosh e la visione del mondo o la dimensione ascetica della vita di una persona. E’ una questione che non dipende dall’atteggiamento di una persona nei confronti dell’ascetismo e del godimento: che un ‘nazir’ sia da considerare un santo o un peccatore, che il digiuno sia una mitzvà o un atto perverso, che si ritenga di essere destinati a rispondere a D-o per ogni piacere che ci si nega – ogni frutto di cui si sarebbe potuto godere e non si è goduto – o che si ritenga che la via del nazir, con il suo ideale di separazione e di privazione dei piaceri terreni, costituisca invece un modo di vita preferibile.
Questo importante dibattito è autentico e ha basi concrete; nelle parole dei Saggi, così come negli insegnamenti dei grandi pensatori ebrei – troviamo un’ampia gamma di vedute a questo proposito. Ma tutto questo dibattito, che spazia dal piacere a un estremo all’autoafflizione dall’altro, viene condotto con il presupposto di una vita di fondo basata sulla produttività e sulla creatività; una vita in cui la persona si considera responsabile di dare e non soltanto di ricevere, di creare e non soltanto di sperperare. Un’esistenza basata sulla consapevolezza che “l’uomo è nato per faticare” lascia spazio per una discussione su come considerare la condizione del nazir, sull’atteggiamento relativo all’auto-isolamento e su come – se è possibile – esaltare il consumo del ma’aser shenì e del kodshim come strumento e mezzo per servire D-o.
E’ evidente che questo non vale per Shushan, la “città che non si ferma” per centottanta giorni, al termine dei quali viene aggiunta un’altra settimana. Non stiamo parlando di enclavi di piacere nel contesto di un’esistenza creativa ma, piuttosto, di un’esistenza la cui essenza e base viene giudicata a seconda del livello di piacere. E’ un’esistenza in cui il lavoro e la fatica vengono percepiti come un fardello, un bagaglio di problemi che sono calati sull’uomo. Se questo compito può essere affidato ad altri, se il fardello economico può essere trasferito ai contadini delle province invece che a Shushan, la capitale, che sia fatto! In fondo, a chi non fa piacere liberarsi di un fardello?
Acclimatarsi a questo mondo, convertire questo stile di vita nella parodia di un sistema di valori, in cui l’obiettivo non è più contribuire al mondo e perfezionarle, la creatività e l’attività, bensì lo sperpero e la baldoria, bere e mangiare – tutto ciò si scontra con l’unicità di Israele in particolare e con l’unicità etica dell’umanità in generale. Noi riteniamo che l’uomo sia unico nella sua abilità creativa. La sua responsabilità umana si esprime nella costruzione e nel mantenimento. Il principio guida nel nostro cammino di responsabilità è seguire la strada di D-o. In più occasioni, i Saggi dicono che la mitzvà di “camminerai nelle Sue vie” (Deut. 28: 9) significa che l’uomo ha l’obbligo di imitare D-o, per così dire. Ecco uno degli esempi che si portano a questo proposito: “Così come Egli è misericordioso, così tu sarai misericordioso; così come Egli è compassionevole, così tu sarai compassionevole”. D’altro canto, il Sifri e la Ghemarà (Sotà 14) non citano soltanto aspetti caratteriali, ma anche azioni e fatti: “Così come Egli seppellisce i morti, così tu seppellirai i morti; così come Egli visita gli ammalati, tu visiterai gli ammalati…”
Nel Midrash sulla Parashat Kedoshim quest’idea viene sviluppata ulteriormente. Il verso (Lev. 19: 23) “Quando verrete nella terra e pianterete ogni tipo di alberi da frutto…” potrebbe essere interpretato come una semplice descrizione: che cosa farete quando verrete nella terra e non troverete nessun albero da frutto per i primi tre anni? Il Midrash, tuttavia, vede in questo verso un ordine Divino. “Quando venite nella Terra di Israele, non accontentatevi semplicemente di mangiare i suoi frutti e di saziarvi della sua abbondanza; ‘pianterete ogni tipo di alberi da frutto!’” Il Midrash considera che quest’ordine faccia parte della categoria “E camminerai nelle Sue vie”: “Così come D-o ha piantato alberi, come è scritto ‘E D-o piantò un giardino nell’Eden dall’est’, allo stesso modo tu pianterai alberi, come è scritto. ‘e pianterete ogni tipo di alberi da frutto’”.
E’ ovvio che questa attività non ha nulla in comune con la percezione del lavoro come maledizione. Questa “opera”, questo dare, questo piantare costituiscono la creatività che porta con sé una benedizione. In questo modo D-o ha creato il mondo, e questo è il compito che Egli ci ha affidato. Prima che fosse creata qualsiasi creatura, il mondo era caos e vuoto. Il caos fu scacciato dalla creazione stessa e, al suo posto, aleggiò lo spirito di D-o – lo spirito che costruisce, crea e cura tutto ciò che esiste. D-o ha posto davanti a noi un mondo in cui il nostro destino è “lashevet” (cf. Yeshayahu 45: 18). I Saggi spiegano che con questo termine non si intende “sedersi” (yeshivà), bensì insediarsi in modo costruttivo nel mondo (yishuv). Non significa che bisogna trovare una sedia, accomodarsi e rilassarsi, ma che bisogna insediarsi nel mondo in modo costruttivo e creativo.
Questa è la natura della creazione, e questo è il compito che D-o ci ha affidato. Forse esiste una dimensione di lavoro e fatica che può essere considerata un “fardello”, una punizione impartita all’umanità – “Con il sudore della tua fronte mangerai il pane”, “rovi e cardi (il terreno) produrrà per te”. Ma tutto questo si riferisce al modo e al livello in cui si lavora. L’effettiva necessità di lavorare non ha alcun rapporto con questa maledizione e la filosofia ebraica non la concepisce come un fardello. Ancor prima di narrare del peccato originale, nella Torà si dice già che D-o mise l’uomo nel giardino dell’Eden per “lavorarlo e mantenerlo” (Gen. 2: 15).
Nella filosofia edonistica vale il contrario –allontanarsi il più possibile dal lavoro e dalla fatica. La visione della vita come “idillio di centottanta giorni” rappresenta una seria deviazione morale dalla nostra percezione del mondo, dal nostro stile di vita e dalla nostra filosofia. Sottolineiamo ancora che non si tratta di un problema di natura halachica. Una persona può bere vino kasher la-mehadrin e mangiare carne glatt-kasher e, nonostante ciò, sguazzare “partecipando al banchetto del malvagio” Il cattivo padrone del banchetto sa anche comprare la carne da un macellaio kasher; non è questo il punto. Una persona che ritiene che sia permesso ogni eccesso e ogni piacere – purché non sia in contrasto con le leggi del cibo kasher o delle mescolanze di carne e latte – commette un errore grossolano. Pur sforzandosi di applicare i minimi dettagli delle regole di kasherut, si può completamente perdere di vista il servizio Divino.
Quanto detto finora non si riferisce allo scopo del lavoro. E’ ovvio che, se una persona ha la capacità di essere creativa, produttiva e costruttiva nell’ambito spirituale, attua sicuramente un ideale eccelso. Il Rambam (alla fine delle sue Regole dei Re) descrive l’era messianica come una situazione in cui “ tutti i beni saranno diffusi come la polvere”, non ci saranno più considerazioni di tipo politico o militare e “Il mondo non si occuperà di altro che di conoscere D-o e perciò gli Ebrei saranno (considerati) molto saggi, conosceranno segreti nascosti e conseguiranno la conoscenza del loro Creatore che è alla portata delle capacità umane, come è scritto “Poiché la terra sarà colma della conoscenza di D-o, come le acque coprono il mare”.
Qui troviamo un passaggio da un tipo all’altro di lavoro. Ma proprio dedicarsi alla creatività e all’attività, alla costruzione, allo sforzo e al lavoro costituisce il denominatore comune. Questa è la condizione di base in ambito universale e, a maggior ragione, in ambito ebraico. Nel Midrash sulla parashà di Lech Lechà, i Saggi si chiedono che cosa rendesse la terra di Israele attraente per Avraham: non la sua santità metafisica, non la sua natura mistica, bensì l’esperienza di salire in cima a una roccia e osservare il forte contrasto tra il clima sociale a cui si era abituato a Ur Kasdim (che, in seguito, sarebbe diventato il regno di Achashverosh) e quello di Eretz Israel. A Ur Kasdim vedeva la gente mangiare, bere e comportarsi in modo frivolo mentre, in Eretz Israel, osservava gli abitanti “arare al tempo (giusto) per l’aratura, seminare al tempo della semina, sarchiare al tempo della sarchiatura, zappare al tempo della zappatura”. Naturalmente, quando veniva il momento, li osservava anche “raccogliere al tempo della raccolta e mangiare al momento di mangiare”. Questa – capì Avraham – era una società creativa e costruttiva, che compieva grandi sforzi, una società con un etica del dare e non solo del prendere, di fare e non solo di sperperare. Vedendo tutto ciò, pensò di coloro che eccellevano in frivole decadenze “Che la mia parte non sia con loro” mentre, a proposito della terra della sarchiatura e della zappatura, della semina e dell’aratura, disse “Che la mia parte sia in questa terra.
Effettivamente, qui si ritrova una dimensione in qualche modo universale, una dimensione di piantagione e di fatica che è valida tanto nell’ambito del mondo di D-o in generale quanto in quello delle “quattro amot” della Halachà. Questa dimensione attrasse Avraham e ne caratterizzò il mondo, ed è la dimensione che riflette la filosofia e l’esistenza della nazione di Israele.
L’abbandono di questo ambito, il declino spirituale e esistenziale da un mondo in cui si mangia e si banchetta, un mondo di ”centottanta” giorni di festa e altri sette giorni di libagioni di vino – questo atto di mangiare e bere (nonostante le etichette “kasher la-mehadrin” su tutte le bottiglie) fu il motivo per cui fu decretata la distruzione.
Qui fu coinvolto un altro fattore: non solo mangiarono e si abbuffaronoprofusamente, ma lo fecero nell’ambito del banchetto di una persona così malvagia… Questa identificazione con l’ambiente riflette un’assimilazione con la società circostante; una neutralità morale nei confronti del mondo di Achashverosh. Tuttavia, anche a prescindere da questo aspetto aggiuntivo – anche se avessero preso parte a un banchetto simile tenuto da un ospite non così malvagio – avrebbero comunque meritato la distruzione.
Il messaggio dei Saggi, in questo caso, è un invito alla moderazione, con richieste severe rivolte alla nazione ebraica. Le parole dei Saggi sono pertinenti e applicabili a ogni generazione, compresa la nostra, ai nostri tempi e nei nostri luoghi. Una delle caratteristiche di spicco di coloro che hanno dato il via al moderno “ritorno a Zion” e allo Stato di Israele degli inizi fu il serio impegno lavorativo e, al tempo stesso, l’allontanamento dal lusso e dall’eccesso. Alcuni espressero questo fenomeno in termini ideologici, come A. D. Gordon e altri. Tuttavia, persino chi non aveva mai sentito parlare di Gordon viveva comunque in questa realtà e faceva parte di una società le cui caratteristiche morali – in particolare il valore del lavoro, del contributo e della creazione – erano basilari. Tanto ideologicamente quanto praticamente, erano questi i beni preziosi delle varie ondate di alià, ed è grazie a loro che emerse uno stato di carattere morale, con ideali. Anche se non concordiamo con il sistema ideologico nel suo insieme, queste componenti – l’applicazione, la fatica e gli sforzi, il sudore e il duro lavoro (anche se, all’epoca, venivano attinte da fonti straniere) – riflettevano in qualche misura ciò che vide Avraham Avinu – ovvero la differenza tra una società vuota e capricciosa e una società che compieva sforzi, costruiva e creava.
Con nostro grande rammarico, recentemente si è verificato un declino serio e significativo in questo campo. Il declino da una filosofia e uno stile di vita di creatività a un mondo di ricerca del piacere, di “partecipazione al banchetto” è un processo deplorevole, per cui possiamo solo sperare nel perdono Divino. E’ un processo che ci sta travolgendo e che sta iniziando a caratterizzare la nostra società. Non vorrei che le mie parole fossero fraintese: non desidero in modo nostalgico che la nazione ebraica viva come i pionieri che risanavano le paludi. Non sto suggerendo, basandomi su visioni retrospettive e romantiche, che bisognerebbe mantenere in eterno lo stesso livello di modestia materiale che ha caratterizzato i primi anni dello stato. Accetto completamente che, se la torta diventa più grande, se si ha una crescita economica, se si rendono disponibili lavori più creativi e più produttivi, il livello di vita deve aumentare in proporzione, affinché la nostra vita divenga più facile e più gradevole in termini umani e reali, fintanto che ciò possa avvenire in modo corretto.
Tuttavia, il punto non è questo. La questione non è se oggi dovremmo vivere in capanne e in baracche di metallo ondulato perché così si viveva sessanta anni fa, ma ha a che fare con la nostra visione e le nostre aspirazioni. Vediamo il lavoro come fardello, e il nostro ideale è ridurlo al minimo, raggiungendo in questo modo il massimo livello di piacere (memori dell’ideale che caratterizza a tal punto la cultura di oltremare, del mondo occidentale, a cui siamo esposti e che ci influenza)? Secondo questa opinione, il lavoro è noioso e bisognerebbe cercare di sfuggirlo. Se questa fuga avvenisse in direzione del Bet Midrash o di una sinagoga, non sarebbe così male. Ma la fuga avviene più spesso in direzione di circoli e bar. La gente cerca di “dimenticare” il mondo, fuggendo così dal lavoro creativo e costruttivo verso un mondo di piaceri, desideri e baldorie. E sappiamo anche troppo bene che questo piacere diventa un’aspirazione; l’ideale è mantenere il lavoro al minimo e aumentare il livello di piacere al massimo. Questo crea problemi ai nostri sistemi di valori. Inoltre, esiste anche un problema morale – dal punto di vista della giustizia sociale, che non può tollerare questa filosofia anche se Israele dovesse raggiungere un livello di “lusso”, di grande abbondanza di tutto, in modo che lo stato non possa più contare sulla generosità degli Ebrei di altri paesi.
Ieri ho sentito che si parla di investire 70 milioni di dollari nella costruzione di un albergo a Tiberiade che costerà 500 dollari a notte. L’imprenditore ha annunciato che la maggior parte della clientela proverrà dall’estero, ma che ritiene che anche un certo numero di Israeliani ne sarà “attratto”. Abbiamo bisogno di questo? Come potranno gli abitanti di Tiberiade permettere che questo abominio li guardi in faccia? A prescindere dall’aspetto della giustizia sociale, lo stesso crogiolarsi in questo ideale è in contraddizione rispetto alle basi del nostro pensiero e alla nostra essenza.
In particolare, per coloro che studiano la Torà, il valore della creatività e della fatica assume un significato aggiuntivo. I Saggi dicono “’Se camminerai nei miei statuti’ – ovvero, se ti affatichi nella Torà”. Questo reca con sé due benefici: il valore della fatica in generale e un valore in più perché si tratta di una fatica svolta per la Torà”. Ci viene raccomandato non solo di impegnarci nel yishuv ha-olam (insediamento nel mondo) in senso fisico, ma anche in senso morale.
In quanto Bené Torà, abbiamo l’obbligo speciale di impegnarci nel mondo della creatività e dell’attività. Dobbiamo assicurarci, il più possibile, che questa creatività avvenga nell’ambito del mondo della Torà – la creatività spirituale; una creatività che reca con sé un contributo verso la realizzazione della visione dell’era messianica. La visione del Rambam della redenzione è ancora lontana – forse perché non si sono ancora verificate alcune condizioni preliminari; i beni di valore non sono ancora disponibili come la polvere, e avvertiamo ancora pressioni esterne da varie fonti. Ma la speranza di realizzare quella visione, per quanto possiamo farlo noi, fa certamente parte del nostro compito e della nostra responsabilità nel presente. Questa è la visione che dovrebbe trovarsi al centro della nostra coscienza, come parte del nostro contributo all’avvicinamento del giorno in cui quella splendida profezia si realizzerà: “E la terra sarà colma della conoscenza di D-o, così come le acque coprono il mare”.
(Questa sichà è stata pronunciata per la prima volta a Purim 5750 – 1990)