Rav Prof. Giuseppe Laras, 9 novembre 2004
Questo testo è una versione non rivista di una conferenza data nell’ambito della serie “La Chiesa Cattolica e l’Ebraismo dal Vaticano II ad oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea presso la Pontificia Università Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al 25 gennaio 2005 in collaborazione con il SIDIC Roma e con il sostegno dell’American Jewish Committee.
Ho ascoltato con molta attenzione le parole di Mons. Forte e del Card. Martini, ed è difficile per me, dopo due interventi così intensi, proporvi un’altra tematica. I due interventi svolti puntano soprattutto sul futuro, puntano a guardare al di là del passato, mentre io – che andrò alla ricerca di quelli che sono stati i motivi delle contrapposizioni religiose e teologiche fra Ebraismo e Cristianesimo – farò un discorso più ancorato al passato. Tuttavia vorrei proiettare questo capitolo del passato su un futuro che ci riguarda insieme e verso il quale stiamo andando insieme. Data la complessità e la delicatezza dei temi affrontati, nonché la ristrettezza del tempo, articolerò il mio intervento in modo molto sintetico.
Vorrei premettere un’osservazione generale che vuole essere anche un augurio. Il dialogo ebraico-cristiano – nonostante i limiti, i difetti, le illusioni, le critiche e gli attacchi che continua ad alimentare – è una realtà dinamica; non siamo fermi, e vorrei ricordare applicandolo a noi un verso del Deuteronomio (5, 3): “Noi insieme oggi qui tutti quanti vivi”, armati più di buona volontà e di speranza che di sapienza e di certezze. Il confronto fra Cristianesimo ed Ebraismo dei secoli passati non è quello che è oggi: ieri c’erano le dispute teologiche, e gli ebrei erano unilateralmente convocati in pubbliche assemblee per giustificare la loro fedeltà alla fede dei padri; oggi, ebrei e cristiani nello spirito del dialogo si incontrano con ben altre premesse e con altri sentimenti. Pur tuttavia è difficile negare che da parte del mondo ebraico, rabbinico e non rabbinico, permanga una certa resistenza, una difficoltà ad entrare in relazione con il Cristianesimo nel quadro delle iniziative di dialogo, per una serie di motivi, alcuni chiari ed evidenti, altri solo avvertiti ma non per questo meno condizionanti.
In parte vi è ancora il timore o il sospetto che da parte cristiana si miri ad attirare gli ebrei al Cristianesimo attraverso il dialogo, o che comunque da quelle frequentazioni gli ebrei religiosamente meno motivati, e quindi più fragili, possano essere indotti ad abbandonare la loro religione per abbracciare il Cristianesimo. A me pare che, in modo preliminare e sostanziale, il motivo vero alla base di questa resistenza non sia legato a paure o suggestioni, ma sia connesso a considerazioni di tipo dottrinale: a differenza del Cristianesimo nei riguardi dell’Ebraismo, l’Ebraismo non ha bisogno del Cristianesimo per capirsi, per auto-comprendersi. Oggi si usa parlare di una “relazione a-simmetrica” che lega ebrei e cristiani sul piano del dialogo: in altre parole, se per il Cristianesimo incontrare Israele equivale a riscoprire le proprie radici, per sentirsi meglio definito, compreso e, se vogliamo, giustificato, lo stesso non varrebbe per l’Ebraismo nei confronti del Cristianesimo. Qui, al contrario, l’incontro con il Cristianesimo può diventare fonte di tensione e di contraddizione nel momento in cui emerga (e come può non emergere?) la figura di Gesù, che, divinamente o messianicamente concepita, è in contrasto con la concezione monoteistica o messianica di Israele. Bisogna aggiungere che nella dottrina religiosa del Cristianesimo, fatta di aperture e sviluppi ma anche di resistenze e incertezze, permangono nei confronti del popolo di Israele non lievi difficoltà a definirne e ad indicarne il ruolo. Mi riferisco, a titolo esemplificativo, all’interpretazione che la Chiesa dà del ritorno di Israele dopo duemila anni di galut (esilio) nella terra d’Israele: evento provvidenziale, all’interno di una visione teologica, ovvero evento storico e contingente, all’interno di una visione politica?
Potrei continuare a riflettere su questo terreno, aggiungendo altre considerazioni, ma intenzionalmente non lo farò, perché non è questo il tema su cui intendo soffermarmi questa sera. Vorrei infatti pormi su un piano diverso: non più su quello che valuta criticamente la teologia cristiana dell’Ebraismo, ma su quello che – dall’interno dell’Ebraismo – cerca di esporre e valutare le linee-guida o le coordinate di una teologia ebraica del Cristianesimo. Questa – ancorché essenziale – è non univoca, contraddittoria, in fase di elaborazione. Si tratta, infatti, di un lavoro difficile e delicato, che ha come momento preliminare la ricerca della definizione dei cristiani data dagli ebrei nel passato: mi riferisco in particolare al periodo talmudico e al periodo medievale.
Il punto su cui convergeva e approdava la discussione, e quindi anche il nodo principale da sciogliere, era se i cristiani dovessero o meno essere considerati alla stregua degli idolatri. Nella testimonianza del Talmud emerge una distinzione fra i goyim (tra cui i cristiani) che abitano nella terra di Israele e i goyim che abitano fuori della terra di Israele. Perché i primi non fossero considerati idolatri, occorreva accertarsi che davvero non praticassero l’idolatria; riguardo ai secondi bastava la presunzione che non fossero idolatri. Vi è un passo, diventato paradigmatico, del trattato talmudico di Hullin (13b) che suona così: “Gli idolatri fuori di Israele non sono idolatri, perché essi in realtà praticano in modo abitudinario le ritualità dei loro padri”. Ho tradotto in italiano corrente un’espressione tecnica che significa questo: nell’eseguire certe pratiche essi non mostrano una chiara volontà di celebrare dei riti idolatrici. Perché questa differenza di valutazione verso, rispettivamente, coloro che sono in terra di Israele e coloro che ne sono fuori? Probabilmente, i cristiani della Terra Santa di cui parla il Talmud sono i primi cristiani, i giudeo-cristiani, la chiesa di Gerusalemme, la chiesa di Giacomo, coloro che avevano conosciuto e praticato la religione ebraica e poi l’avevano abbandonata. Questi, dunque, sapevano quello che facevano, sapevano di violare il precetto del yihud ha-Shem (unità di Dio), secondo cui Dio (ha-Shem) è Uno (ehad), un precetto che riguarda coloro che sono nati ebrei e non coloro che sono fuori del popolo di Israele. Secondo alcuni, vi è una distinzione sottile: i Noachidi [i discendenti di Noè: quegli individui non-ebrei che, come i cristiani, obbediscono a leggi morali universali, ndr.] hanno il divieto dell’idolatria, ma non l’obbligo del monoteismo. E dunque il shittuf (cioè l’associazione di altre figure divine al Dio unico, come nel caso di Gesù) può essere da loro praticato senza infrangere il divieto dell’idolatria, tenuto conto che essi non sono obbligati a professare il monoteismo.
Con il passare del tempo, soprattutto nell’Europa del Medioevo, la situazione muterà radicalmente. Intanto, l’idolatria vera e propria andrà scomparendo e, con essa, la necessità di combatterla. Cristiani ed islamici saranno i dominatori dell’Europa (gli islamici sino alla caduta di Granada nel 1492). Gli ebrei faranno i conti con loro nella duplice veste di governanti e di uomini di religione. Qual è l’approccio ebraico nei confronti dei cristiani e del Cristianesimo nel periodo medievale? Questo approccio risulta mutato o resta invariato rispetto al periodo talmudico? Si deve distinguere, in linea generale, fra rabbini residenti in aree ad influenza islamica (sefarditi) e rabbini residenti nei paesi cristiani (ashkenaziti).
Lo schieramento sefardita è autorevolmente rappresentato da Maimonide, il quale, rispetto alla posizione diversificata presente nel Talmud, assumerà un atteggiamento più radicale e univoco, eliminando la distinzione fra abitanti in terra di Israele e abitanti fuori da Israele, conferendo ai cristiani tout-court la qualifica di “idolatri”. Accanto a questa visione negativa della teologia cristiana, Maimonide esprime tuttavia un giudizio più moderato e possibilista sul ruolo del Cristianesimo e dell’Islam nel mondo in prospettiva messianica. Ecco il passo dal Trattato sui Re, che non compare in tutte le edizioni [del Mishneh Torah, ndr.] perché nella maggior parte di esse è censurato: “Comprendere i pensieri del Creatore del mondo non è nella possibilità dell’uomo, poiché le nostre vie non sono le Sue vie e i nostri pensieri non sono i Suoi pensieri (Isaia 55,8); tuttavia, tutte le parole di Gesù di Nazareth e dell’Ismaelita [Maometto] che sorse dopo di lui sono finalizzate a spianare la strada al Re-Messia e a preparare il mondo intero a servire Dio insieme, come è scritto: ‘poiché Io allora trasformerò la lingua dei popoli in una lingua pura, in modo che invochino tutti il Nome del Signore e lo servano in un solo blocco [tutti insieme, concordemente]’ (Sof. 3, 9)”. Inserendosi nella linea di pensiero inaugurata da Yehudah ha-Lewy nel Kuzari, Maimonide fa fare qui al Cristianesimo e all’Islam, per così dire, un “salto di qualità”: inserisce le due religioni all’interno di un piano provvidenziale che le vede protagoniste necessarie di un percorso preparatorio dell’umanità intera in vista dell’avvento messianico.
Nel mondo cosiddetto ashkenazita, dove emergono personalità come Rashi, i Tosafisti, e altre autorità rabbiniche molto autorevoli dell’ambiente franco-tedesco, si sottolinea e si ribadisce che i cristiani (nei cui paesi gli ebrei vivevano) non sono idolatri. Possiamo, dunque, cogliere una distinzione piuttosto marcata fra la valutazione dei cristiani che dà il mondo sefardita rappresentato da Maimonide e la valutazione che ne danno, in generale, le massime autorità del mondo ashkenazita europeo. Secondo queste ultime, i cristiani non sono idolatri, oppure non conoscono le pratiche idolatriche, oppure – riprendendo quella nota sentenza di Rabbi Yohanan prima citata [dal trattato Hullin del Talmud, ndr.] – “non fanno che ripetere le usanze praticate dai loro padri”, senza alcuna intenzionalità di compiere con ciò una pratica idolatrica. In questo contesto così delicato, va segnalata una strana circostanza. Il decisore e giurista Yosef Karo, mentre in un testo halakhico molto importante (il Tur di Ya‘aqov ben Asher), afferma esplicitamente che “i cristiani nel tempo presente [siamo nel XVI secolo] credono nel Creatore del mondo e pertanto non sono da considerarsi idolatri”, nell’altra sua opera di codificazione (lo Shulhan Aruk), egli non menziona affatto come norma halakhica generale questo suo convincimento.
All’interno di questo panorama variegato, un caso a parte è rappresentato dalla posizione assunta da un celebre maestro provenzale del XIV secolo, Rabbi Menachem ben Shelomò ha-Meiri (1249-1315). Egli ritiene che il Cristianesimo non abbia nulla a che fare con l’idolatria e che i divieti elencati nel Talmud a proposito degli idolatri non concernano i cristiani. Scrive infatti: “anche se la loro fede è diversa dalla nostra, essi non rientrano nella categoria degli idolatri”; e ancora: “essi credono nell’esistenza di Dio Benedetto, nella sua unicità e nella sua onnipotenza, anche se in alcuni punti commettono errori nell’ottica della nostra fede”; e ancora: “nel nostro tempo, nella maggior parte dei casi, anche se talvolta essi giurano nel nome di taluni personaggi importanti defunti [i santi], essi tuttavia non li considerano divinità [e quindi non c’è idolatria]”. La posizione del Meiri è sicuramente notevole e autorevole, anche se queste sue conclusioni, che escluderebbero del tutto che il Cristianesimo possa essere coinvolto in un discorso idolatrico, appaiono piuttosto isolate.
In un simile contesto tormentato, di posizioni e pensieri contraddittori, orientati ora verso un giudizio moderato ora verso un giudizio critico nei confronti della religione cristiana, l’opinione ambivalente di Maimonide – negativa sul piano teologico, ma apertamente positiva nella prospettiva messianica – sembra essere il pronunciamento più chiaro e più netto sul coinvolgimento del Cristianesimo in un ruolo provvidenziale di tipo messianico-universale. E quest’opinione continua a rappresentare una pietra miliare nel cammino che Cristianesimo ed Ebraismo percorrono insieme, ancorché lungo piani paralleli e distinti. Forse anche la categoria dei Noachidi, in parte inadeguata e debole, può ancora essere usata per pensare il Cristianesimo in termini ebraici e per conciliare concettualmente, e non solo, le due religioni.
Non dimentichiamo che nel secolo appena trascorso, nel cuore di un’Europa che alcuni ritenevano civilissima, è esplosa la Shoah con il suo carico di sofferenza e di morte; e che l’idea del dialogo è scaturita proprio a seguito della Shoah. Il dialogo, come dicevo, va avanti e deve essere sostenuto, perché è un’occasione unica per pensare e parlare insieme: l’unica strada aperta che entrambi possiamo percorrere per essere presenti, insieme, quando Dio vorrà. “Le cose nascoste appartengono al Signore nostro Dio” (Deut. 29,28). Per quanto ci riguarda, e come ha sottolineato anche il Card. Martini, non dobbiamo avere fretta; non dobbiamo avere troppe certezze (personalmente, ho più domande da fare che risposte da offrire); non dobbiamo essere tentati di “risvegliare l’amore” (Cant. II, 7) prima del tempo. Dobbiamo essere ottimisti, fiduciosi e convinti per trasporto di fede che, quando giungerà il momento, Dio saprà aprire i nostri occhi e i nostri cuori, mostrandoci la verità. Dunque, dobbiamo essere “vivi” e camminare insieme in direzione di quella meta con sentimenti di amore, di rispetto e di umiltà.