Kippur 5768 – Il discorso dell’ora di Ne’ilà, 22 settembre 2007
Stiamo per entrare nel momento finale e più solenne di questa lunga giornata di preghiera. Con il sole all’orizzonte e gli alberi che proiettano l’ombra più lunga, inizia la preghiera di Neilà. Molti di noi stavano qui o in altre Sinagoghe già da ieri sera, e di nuovo da questa mattina. Molti altri accorrono in questi momenti e le Sinagoghe si riempiono al massimo. L’affluenza di queste ore ha come unico esempio la tarda mattina del primo giorno di Rosh haShanà. Questo non succede solo a Roma, succede in tutto il mondo ebraico. Almeno in questo non siamo diversi dagli altri ebrei del mondo. In ogni Comunità c’è chi viene al Beth haKeneset tutti i giorni, c’è chi ci viene due-tre volte all’anno, e questa è una di queste volte, e chi non ci viene mai.
Se ci guardiamo intorno possiamo pensare che solo in questo Beth haKeneset, in questo momento, ci sono centinaia, forse migliaia di nostri fratelli che si affacciano qui quasi solo in questa occasione. E’ a loro che mi rivolgo, prima, ma senza certo escludere tutti gli altri, con un saluto di benvenuto, berukhim habaìm. E vorrei continuare con qualche riflessione. Come tutti sapete il tema centrale di Kippùr è quello dell’espiazione delle colpe commesse. Abbiamo fatto degli errori, ne acquistiamo coscienza, ce ne pentiamo e il S. ci assolve, confermando la sua decisione proprio in queste ore con la sua chatimà, la sua firma, che speriamo sia chatimà tovà, buona per tutti. Perché la sentenza sia buona giocano il valore delle nostre azioni, la nostra volontà di correggerle, ma soprattutto la Sua paziente misericordia.
Il nostro processo di ravvedimento è accompagnato dalle preghiere, e tra queste assume un ruolo centrale la parte chiamata Widdùi, confessione. Nelle nostre regole è stabilita, con profonda saggezza, una procedura differente di Widdùi, a seconda del tipo di colpe. Se si tratta di rapporti tra le persone, chi ha sbagliato, individualmente ed esplicitamente, deve denunciarsi a chi ha offeso, deve dirgli: “ti ho fatto questo e questo, scusami”. Ma per quanto riguarda i nostri rapporti con D., quello che ognuno ha fatto se lo deve tenere per sé, mentre l’officiante, a nome di tutti, recita la formula del Widdùi, che è al plurale e in ordine alfabetico. Andiamocela a leggerla, avete tutti la traduzione italiana nel Machazòr, e scopriremo delle cose sorprendenti. Quali sono le colpe confessate collettivamente? Sappiamo tutti che l’ebraismo è fatto di centinaia di regole da rispettare. Molte di queste sono definite “rituali”: il Sabato, la Kasherùt, le norme sessuali ecc. Che sono poi le regole su cui di solito insistono di più i rabbini, e rispetto alle quali una parte del pubblico sembra resistere di più, con meccanismi di incomprensione e di rifiuto, arrivando qualche volta a parlare di “esasperato ritualismo”, una definizione molto elastica, che a seconda di chi la usa si può adattare a cose molto differenti: per qualcuno magari è il divieto di portare la borsa di Sabato, per altri lo è già il divieto del maiale.
Torniamo al Widdùi: leggete il testo, possibilmente partecipate alla sua carica emotiva, e scoprirete che di tutte queste cose non si parla, almeno esplicitamente: niente Sabato, niente maiale. Al loro posto concetti generali: siamo colpevoli, abbiamo fatto del male, soprattutto male sociale, ingannando gli altri, rubando, facendo maldicenza. Altri brani del Widdùi classificano le colpe secondo la loro gravità, o i modi con cui sono state commesse: volontariamente, per incoscienza, per ignoranza. Ma che succede? Allora è vero che i rabbini si occupano di cose marginali; l’importante è l’etica, come insegnano questi testi antichi.
Proviamo a rispondere con qualche considerazione importante. Prima di tutto prendiamo atto che queste regole etiche sono fondamentali nell’ebraismo, dove non nascono dalla necessità logica e filosofica della convivenza tra esseri umani, ma dall’essenza religiosa dell’ebraismo; noi confessiamo queste colpe pubblicamente davanti a D. perché disonestà, violenza e inganno ci sono state proibite dalla Torà e non dalla logica e sono colpe anche verso di chi ci ha dato la Torà. E’ un errore parlarne poco, e se lo commettiamo è perché pensiamo erroneamente che siano cose scontate. Non lo sono affatto; proprio per queste norme che coinvolgono altri scattano in ognuno di noi meccanismi di autodifesa e autoassoluzione: “ha cominciato lui”, “se lo meritava” ecc. Riflettere su questi meccanismi comporta una revisione radicale del proprio comportamento che è quella che dobbiamo fare oggi, sistematicamente. In che modo? L’ebraismo insegna, molto concretamente, che le chiacchere non bastano, ci vogliono delle regole. Il ritualismo del Kippùr è un esempio: c’è un giorno preciso, c’è una preparazione da seguire, ci sono norme di afflizione della persona, ci sono preghiere da recitare.
Ogni cosa ha il suo senso, il suo posto. Nell’ebraismo etica e ritualismo non sono due realtà in contrapposizione, sono l’una il compimento dell’altra, non possono fare a meno l’una dell’altra. Se siamo portati a pensare il contrario, a dire che una cosa vale e l’altra no, facendo finta di rispettare la prima e lasciando quasi tutto della seconda, è perché siamo vittime di un’antica tentazione che accompagna l’ebraismo da secoli, che si riaffaccia in ogni momento con un volto nuovo e che ha persino determinato, nelle forme più clamorose, la nascita di altre religioni e ideologie dal nostro seno. E ancora, se pensiamo che l’ebraismo debba essere spaccato in cose buone e altre senza senso, è perché manca lo strumento fondamentale per capire, che è lo studio della Torà, cuore della nostra sopravvivenza. Ogni gesto, ogni regola è per noi importante. E non solo per noi, per tutta l’umanità.
Pensiamo ad esempio alla regola che quest’anno va osservata in Eretz Israel, quella dell’anno Sabbatico, che proibisce lo sfruttamento economico dei prodotti agricoli. Ritualismo? Oppure affermazione attualissima del principio che ci devono essere limiti al nostro sfruttamento della terra e delle sue risorse?
Queste ultime due ore sono un’occasione unica di incontro tra di noi e tra noi e QBH. Cerchiamo di sfruttarle appieno, partecipando alla Tefillà, educandoci con il piccolo-grande sforzo del silenzio a controllare il nostro comportamento a cominciare da stasera, e soprattutto riflettendo sull’invito fondamentale del Kippùr: metterci in discussione. Impegnarsi a capire meglio il nostro ebraismo, non limitarsi a ripetere concetti scontatti che gli altri ci impongono. Aprirci allo studio e alla discussione. Impegnarci a partecipare. Non uscire di qui per dirci ci rivediamo tra un anno.
Si accusa la Comunità di essere respingente, in realtà così come è per molti non è attraente; ma ognuno di noi è parte corresponsabile della Comunità e se ne deve assumere le responsabilità. Magari fossimo così tutte le sere, magari almeno le sere e le mattine dello Shabbàt.
Un caro augurio a tutti di chatimà tovà.
Riccardo Di Segni
Un servizio di www.torah.it !