Giuseppe Pederiali – Padania Felix, Reggio Emilia, Diabasis 1999, ISBN 88-8103-080-2, p. 52-60.
La sera del 26 gennaio 1778 un bambino ebreo di diciassette mesi, Leon Osimo, entrava nel carcere di Finale Emilia, la possente rocca che era stata fortezza di confine tra Longobardia ed Esarcato, poi castello degli Estensi, loro palazzo di villeggiatura e infine, dopo il passaggio di quella famiglia a Modena, di nuovo avamposto militare e tetro carcere.
Subito la mattina del 27 gennaio, il giovane padre, Jacob Osimo, inoltra una disperata supplica-memoriale al duca di Modena, Francesco III d’Este, affinché ordini la scarcerazione del piccolo Leon e la sua restituzione ai genitori. E possiamo bene immaginare lo stato d’animo con cui i genitori del bambino seguono il percorso burocratico della supplica.
La carcerazione di Leon non era il risultato di un processo o un folle abuso di potere. Le autorità del Finale non avevano evidentemente altro luogo dove sistemare il piccolo in attesa che si chiarisse la sua posizione. Leon Osimo era infatti un bambino oblato, cioè offerto alla “fede salvatrice” tramite il battesimo, contro la volontà dei genitori ebrei. I casi erano abbastanza frequenti: serve, balie, parenti fattisi cristiani, credevano di fare opera buona battezzando bambini ebrei.
La Chiesa era contraria ai battesimi forzati, ma dal momento in cui l’infante era offerto alla fede salvatrice, egli non poteva più appartenere al piccolo gregge degli Ebrei, ma a quello grande dei Cristiani, e perciò sottratto ai genitori.Anche nel Ducato estense, tra i più “liberali” d’Italia, questi casi si ripeterono molto spesso durante i secoli XVIII e XIX, come testimoniano i documenti processuali custoditi negli Archivi della Curia di Modena e Reggio Emilia. L’ultimo caso registrato nel modenese è quasi alle soglie dell’Unità d’Italia: nel 1847 una bambina di un anno e mezzo, Pamela Maroni, sottratta ai genitori per essere stata battezzata da una serva, non fu mai restituita.
Famoso è rimasto il caso di Hdgardo Mortara, un ragazzo ebreo di sette anni, strappato ai genitori addirittura nel 1857 quando Bologna era ancora legazione pontificia. Un caso che scosse l’opinione pubblica e che ha ispirato il romanzo di Pier Damiano Ori e Giovanni Perich La carrozza di San Pietro: con quella carrozza il bambino fu portato via e neppure da adulto fece ritorno alla sua famiglia, ormai convinto di essere stato “salvato”.
Il piccolo Leon Osimo era stato invece fatto battezzare dal nonno paterno, Angelo Samuele, che da circa un anno si trovava, come neofita, nella Casa dei catecumeni di Ferrara, un istituto creato per educare alla nuova fede gli Ebrei che si erano convertiti. Era perciò su richiesta dell’avo paterno, che la Curia del Finale aveva ordinato la carcerazione di Leon. Angelo Samuele sosteneva di essere ancora il capo fa miglia degli Osimo e perciò di esercitare la patria potestà sul nipotino provvedendo alla sua educazione cristiana.
Quale speranza potevano avere i genitori di Leon di riavere il loro figlioletto? Naturalmente l’intera comunità ebraica del Finale si mosse per fare pressione sul duca che non era insensibile a quelle voci, e non soltanto per motivi di liberalità o di umanità. Come a molti altri regnanti d’Europa, gli Ebrei facevano molto comodo anche agli Estensi.
Ipsi iudei et omnia sua regis sunt: gli Ebrei e tutto ciò che posseggono appartengono al re. Lo precisa una legge inglese, e anche gli altri regnanti, duchi d’Este compresi, sembrano seguire questa politica, anche se gli Ebrei, disperatamente, continuavano a tentare di non appartenere a nessuno. L’idea di trasformare gli Ebrei in prestatori di denaro piace alla Chiesa: gli Ebrei sono comunque già dannati. E piace al sovrano: sa dove spremere quattrini per rimpinguare il tesoro dello Stato. Non dispiace alla popolazione: almeno sa a chi rivolgersi quando ha bisogno di denaro, salvo poi maledire lo strozzino. Fa comodo agli stessi Ebrei: almeno possono esercitare una professione redditizia. E la esercitano così bene che inventano la moderna economia.
I signori arrivano ad “amare” gli Ebrei così come amano i loro cavalli e le loro vigne migliori. Il duca dice “i miei Ebrei” con l’orgoglio del padrone più che del padre. Li proteggono dalle ire del popolo spesso sobillato dalla Chiesa contro quei diversi che si ostinano a vivere lontano dalla vera fede, li difendono dai sempre attivi tribunali dell’Inquisizione barcamenandosi con molta diplomazia tra leggi, leggine, grida e precisazioni.
Soprattutto gli Estensi devono stare molto attenti: Roma non aspetta altro che tornare in possesso di Ferrara che ha affidato alla casata (mentre Modena e Reggio sono feudi ottenuti dall’imperatore) fino all’estinzione del ramo legittimo, evento che puntualmente si verificherà nel 1597 quando Alfonso II morirà senza figli e il cugino Cesare, illegittimo, dovrà abbandonare Ferrara il 28 agosto 1598 per raggiungere Modena dove l’aquila estense seguiterà a regnare ancora per più di due secoli.
Meno autonomi della Repubblica di Venezia, ma ugualmente “laici”, i signori di Ferrara accolgono gli Ebrei fin dai tempi più antichi e ne ospitano numerosissimi dopo la cacciata dalla Spagna del 1492. Già in quegli anni di fine secolo, approfittando anche della politica discretamente tollerante del papato, la comunità ebraica viveva serenamente e prosperava in attività commerciali e bancarie.
Agli Ebrei nuovi arrivati, con ancora nella memoria le persecuzioni e i roghi della penisola iberica, il piccolo ducato padano dovette sembrare, nonostante tutto, una specie di paradiso terrestre. E nonostante il solito, e sicuramente previsto, sfruttamento da parte dei governanti e della Chiesa. Alfonso I, agli inizi del 1500, lasciò che il Papa esigesse dagli Ebrei la ventesima parte dei loro beni, mentre il duca, nel 1559, concesse alla Chiesa di riscuotere dieci ducatoni d’oro da ogni sinagoga ferrarese, quattrini che sarebbero serviti al mantenimento dei catecumeni, cioè quegli Ebrei che avevano deciso di convertirsi al cattolicesimo e stavano studiando in attesa di essere battezzati.
Naturalmente anche gli Estensi si prendevano la loro parte di denaro, sotto forma di tasse fisse e di una tantum quando lo Stato ne aveva grande necessità. Cioè spesso. Nel fascicolo Tasse, imposte, multe presso l’Archivio di Stato di Modena leggiamo che nel 1629 gli Ebrei del Finale sono chiamati a sovvenzionare lo Stato in proporzione alla loro ricchezza: il signor Budrio, di professione banchiere, paga 100 ducatoni, Salomone Sacerdoti ne sborsa 50, Simon Donati 40, il signor Formigini 25, Benedetto Levi 10.
Se un ebreo ferrarese del Cinquecento definì i possedimenti estensi “il rifugio d’Italia più sicuro”, se molti marrani (Ebrei iberici convertitisi al cattolicesimo per non essere perseguitati nei loro Paesi) poterono riabbracciare la fede che nel cuore non avevano mai lasciato, ugualmente la paura e la tensione non li abbandonò del tutto a causa di episodi, per fortuna sporadici, di persecuzione. Come la decisione di Alfonso II che, nel 1581, sollecitato dall’Inquisizione, mise in prigione molti marrani e ne inviò altri a Roma, dove furono condannati alla pena capitale. Oppure costringendo un ebreo a discutere pubblicamente questioni di fede con dei monaci. Oppure, fin dall’aprile del 1498, l’obbligo a portare la famigerata breta zala, il berretto giallo che segnava gli Ebrei tra l’altra gente.
I rapporti tra la comunità cristiana e quella, minuscola, ebraica sfociano solo raramente, negli Stati estensi, in conflitti drammatici, e mai nei massacri che insanguinarono soprattutto la penisola iberica, la Germania e l’Europa orientale dove la parola russa pogróm divenne sinonimo di sterminio.
In Italia il più grave eccidio avvenne a Napoli durante la monarchia angioina alla fine del XIII secolo: molte migliaia di Ebrei furono uccisi e a una via della città è rimasto per anni il terribile nome di vicolo Scannagiudei.
In Sicilia nel 1474 vi fu un massacro di grandi proporzioni, e nel 1500 molte uccisioni collettive si verificarono nello Stato Pontifìcio.
Nella Pianura Padana gli Estensi fanno di tutto per smorzare i contrasti tra le due comunità. Molti Ebrei si sono stanziati a Ferrara, Modena, Reggio, Correggio, Carpi, Finale, Sassuolo, Mirandola, Scandiano. Le manifestazioni di ostilità sono provocate soprattutto dalla ricchezza di questa minoranza che ha il privilegio-obbligo di maneggiare il denaro, e dalla penosa miseria di gran parte della popolazione delle città e delle campagne. Spesso i prìncipi sono costretti a ricorrere alla forza o a pubblicare grida affinché non si offendano gli Ebrei, come quella del 18 gennaio dei 1579 riferita al Finale:
…avendo inteso molte varie querele portategli per li Ebrei banchieri di questa sua terra del Finale, di vari insulti, minacce et altre molestie, che le vien fatto da uomini et donne, putti… il suo Magnifico Podestà punisca li delinquenti…
Ad Alfonso II stanno a cuore principalmente i banchieri e in un’altra grida raddoppia le pene previste: 25 scudi d’oro e quattro tratti di corda. Gli episodi non sono comunque drammatici e a volte sfiorano il grottesco e il buffonesco. Spesso si nota lo zampino delle autorità ecclesiastiche che gettano paglia sul fuoco. Significativi i fatti accaduti durante il carnevale fìnalese del 1639- È il rabbino Isacco Sacerdoti che denuncia all’Inquisitore di Modena nientemeno che il vicario dell’Inquisitore del Finale per non avere impedito lo svolgimento di una mascherata satirica.
Fra Giacomo Ricci, il vicario, sostiene che la faccenda non è di sua competenza, confortato dalla testimonianza dei sacerdoti fìnalesi presenti alla mascherata, tutti concordi nell’affermare che non vi è stato niente di offensivo verso la comunità ebraica, ne sono stati impiegati abiti od oggetti riferiti alla legge ebraica e nemmeno alla fede cattolica, in riti, cerimonie, canzoni o altro.
Di diverso parere, il rabbino descrive la rappresentazione satirica dove uno degli attori si fingeva un ebreo morto processato da diavoli che gli imputavano peccati quasi tutti relativi alle regole alimentari della gente ebrea, oltre all’usura:
… Per haver mangiato nei tempo che deva mangiar le crescentine delle chioppette, per non haver digiunato nel giorno della scapinata, ma uscito dalla sinagoga andato a meretrici, per haver bevuto nel bicchiere dove beveva sua moglie quando havea le sue purgationi…
Da come viene descritta la mascherata satirica è evidente che il vicario dell’Inquisizione e gli altri preti del Finale tendono a minimizzare. C’è da domandarsi cosa sarebbe accaduto se vittime della mascherata fossero stati un cattolico e la sua fede. Continua il rabbino Isacco Sacerdoti:
Erano circa trenta persone, parte de’quali portavano una cassa coperta di nero, dentro la quale tenevano un bambozzo di paglia che dicevano essere il corpo di Bonaiuto hebreo morto. Molti havevano candele accese, et altri leggevano vestiti da Diavoli un processo, che dicevano essere le sceleragioni commesse dall’hebreo morto… per il che mostrarono di condannare il detto corpo al fuoco, com’in effetti lo bruggiarono, e fecero altri dispreggi…
È durante il carnevale, valvola di sicurezza di molte tensioni sociali, che il popolo sfoga i malumori e gli istinti repressi. Il desiderio di libertà (in prima fila la libertà dai bisogni l induce a individuare in maschere rituali i responsabili di tutti i mali. Eleggendo Re del Carnevale l’individuo spesso più turpe e deforme, che poi faranno oggetto dei loro scherni, intendono colpire il principe, quello vero, lontanissimo, presente soltanto con le leggi, le grida e gli sbirri.
Costruendo un pupazzo di paglia che rappresenta il banchiere ebreo, il popolo minuto sfoga il suo astio contro una parte della classe borghese che lo sfrutta. E se la prende con una minoranza di quella classe, la parte più debole, a sua volta sfruttata e inviata in “prima linea” a professare l’ingrato mestiere dell’usura.
Ma nella seconda metà del Settecento, l’epoca in cui si svolge la vicenda del piccolo Leon Osimo strappato ai genitori e rinchiuso nel carcere, gli Ebrei dello Stato estense sono riusciti a conquistare anche altri mestieri. Sono, per esempio, tra i più attivi importatori di granaglie, come risulta da un documento del 1765, Nota delle biade forestiere introdotte nella Nobile Terra del Finale, dove tra i nomi dei grossi commercianti molti sono Ebrei: Donati, Formigini, Belgradi, Castelfranchi, Sanguinetti,Ventura.
Cresce la potenza economica della comunità ebraica proprio negli anni in cui il ducato precipita nella carestia. Bruchi famelici che divorano le foglie dei meli, disastrasi allagamenti, gelate invernali, oltre ai soliti passaggi dì truppe che, bene che andasse, requisivano il foraggio, sono calamità che accompagnano l’errato metodo con cui viene praticata l’agricoltura: da un lalo si vuole abbandonare il sistema dei due campi e del maggese, dall’altro non si riesce a realizzare la coltura continua per mancanza di concimazioni, mentre la cerealicoltura condiziona tutto il processo produttivo.
Arrivano anni di fame, miseria dalla quale una grossa parte della popolazione della Padania non si risolleverà completamente se non nel secondo dopoguerra. A Bologna nella seconda metà del Settecento un quarto della popolazione è senza lavoro e i mendicanti sono una folla che si trascina di contrada in contrada, affamata e coperta di orribili piaghe.
La fame nelle campagne e nei piccoli centri è meno appariscente ma ugualmente impietosa. Molto alta la mortalità infantile. Sempre a Bologna, negli anni 1765 e 1766, su 95 neonati per ciascun anno, ne morirono 69 e 40.
Va detto che la mortalità infantile fra i trovatelli era più del doppio rispetto ai bambini con genitori.
Negli anni di carestia il numero dei morti è più alto di quello dei nati. È interessante notare che in quegli anni i morti cristiani sono sempre maggiori dei nati, mentre gli Ebrei nati sono superiori ai morti, escluso nel’63 e nel’65.
Questo rivela che il livello di vita medio era sicuramente più elevato presso gli Ebrei.
Francesco III d’Este non può dunque ignorare la supplica che viene dalla comunità ebraica del Finale, composta di banchieri e grossi commercianti di granaglie, cittadini che pagano le tasse e che contribuiscono a sostenere la dissestata economia dello Stato:
Serenissima Altezza, dalla Curia del Finale venne la sera antecedente al giorno 26 del corrente gennaio improvvisamente levato dalle braccia dei propri genitori un bambino ebreo di mesi diciassette circa, e tradotto in casa del Guardiano delle carceri di colla, ed unicamente fu permesso alla madre di accompagnare il figlio per nutrirlo con il suo latte. Il motivo di tale detenzione vien fatto credere a Jacob Osimo padre del bambino, derivante dalle istanze di Angelo Osimo di lui genitore che attualmente trovasi nella casa dei catecumeni in Ferrara; inoltre che la potestà paterna, giusta il sentimento dei più noti giuristi non si estende sopra i nipoti, sono molti anni che detto Jacob vive separato dal padre, di tavola, casa e lavoro, maneggiando da sé i propri interessi, in modo che egli stesso può dirsi non soggetto al padre, e molto meno la sua prole. In tale stato di cose prende motivo il suddetto Jacob Osimo, servo e suddito dell’Altezza Vostra Serenissima prostrato ai clementissimi piedi, di supplicare la Giustizia dell’Altezza Vostra a degnarsi di ordinare il pronto rilascio del detenuto bambino. Firmato: Pietro Cavedoni.
Da notare che questo Pietro Cavedoni è soltanto lo scrivano cristiano in quanto gli Ebrei, nonostante le conquistate posizioni di privilegio economico, non sono ancora giuridicamente abilitati a firmare la supplica.
Comunque le cose si mettono per il meglio. Con una velocità da fare invidia alle moderne burocrazie, la macchina della giustizia estense si mette in moto, grazie anche agli interventi indiretti della comunità ebraica della capitale, cioè Modena. Attraverso il “Boccatico del sale” si stabilisce, per prima cosa, l’effettivo stato di famiglia degli Osimo. Quell’ufficio, con relativo registro anagrafìco, annotava i dati riguardanti la composizione delle singole famiglie onde provvedere alla distribuzione della quota di spettanza del preziosissimo sale. Risulta qui evidente che il capo famiglia è Jacob. Testimoni cristiani depongono davanti al notaio giurando che il vecchio Angelo Samuele è sempre vissuto separato dal figlio, e che Jacob vive dei proventi del suo negozio. Testimonianze che dimostrano anche un netto miglioramento dei rapporti tra la comunità cristiana e quella degli Ebrei.
Subito il 28 gennaio arriva da Modena l’ordine di scarcerazione temporanea del bambino. I genitori possono riportarselo a casa, per sempre. È del 9 marzo la definitiva sentenza: “…il Padron Serenissimo, ordina che si lascia in libertà il figlio del supplicante…”
La Chiesa, che nel caso del piccolo Mortara, a Bologna, gestisce anche il potere temporale, qui non può o non vuole intervenire.
La famiglia Osimo, poi divenuta Osima, resta al Finale fino agli anni dell’ultimo dopoguerra. Anna Osima, farmacista, morirà in un lager nazista nel 1943 dopo che la Storia, come succede spesso, aveva fatto molti passi indietro.