Il brillante scrittore che fu assoldato dall’Ovra e concluse la sua carriera al Messaggero di S. Antonio
Alberto Rosselli
A poco più di trent’anni dalla sua scomparsa, la figura di Pitigrilli, al secolo Dino Segre, rimane ancora sepolta nel vasto e ben curato cimitero del pregiudizio, salvo alcune meritorie e coraggiose opere di rivalutazione (vedi gli scritti e le memorie di don Sergio Andreoli, Elio D’Aurora e il saggio introduttivo di Umberto Eco a compendio de L’esperimento di Pott, Sonzogno, Milano, 1976). Pitigrilli nacque a Torino il 5 maggio 1893 da famiglia borghese. Suo padre, David Segre, era un ebreo, ex ufficiale dell’esercito, mentre sua madre, Lucia Ellena, discendeva da un’antica famiglia di contadini cattolici.
All’insaputa del padre, Dino fu battezzato nel 1897 dalla mamma. Lo pseudonimo Pitigrilli, trae le sue origini da un fatto. Appena ventenne, Dino chiese alla madre a quale animale appartenesse la pelliccia del cappotto che stava indossando, ed ella rispose: «E’ di petit gris, di piccolo scoiattolo”. Di qui l’italianizzazione di petit gris, cioè Pitigrilli.
Verso la metà del 1915 (essendo stato riformato per vizio cardiaco) Pitigrilli poté scrivere e pubblicare il suo primo volumetto in versi, Le vicende guerresche di Purillo Purilli bocciato in storia; libro promosso dalla redazione di Numero 97. Laureatosi nel 1916 a ventidue anni in giurisprudenza con un modesto 77 su 110, e frequentata per un certo tempo la facoltà di Filosofia, egli preferì però dedicarsi al giornalismo e alla narrativa (pur avendo spiccata predisposizione per la pittura), lavorando per note testate, tra cui Il Mondo Torinese (1917), Il Mondo e L’Epoca, testata liberal-democratica diretta da Tullio Giordana, dove iniziò ad evidenziare straordinarie capacità, soprattutto come inviato.
Fondamentalmente scettico circa le possibilità di riscatto di un’umanità perennemente alla ricerca di facili soluzioni alla morte, all’ingiustizia sociale o al dolore mentale e decisamente dubbioso circa le capacità intellettive dell’uomo medio (“ammetto il bacio al lebbroso ma non concepisco la stretta di mano al cretino”), Pitigrilli produsse, oltre ad una sterminata quantità di servizi, anche molti romanzi destinati a diventare dei veri cult, tra cuiMammiferi di lusso, I vegetariani dell’amore, Dolicocefala bionda e Cocaina. Tra i suoi ‘scrittori’ e ‘poeti’ preferiti, il giovane ed eccentrico Pitigrilli scelse, fin da giovane, una donna, cioè l’affascinate e brillante Amalia Guglielminetti che informata della cosa invitò quel ragazzo biondo e distinto a prendere il the e a fare quattro chiacchiere. Pitigrilli si innamorò subito della scrittrice che lo aiutò ad entrare nel mondo dell’editoria (dal 1914 al 1915, Dino scrisse per la rivista satirica «Numero», alla quale collaborava fra gli altri anche il vignettista Dudovich). Non solo, dopo qualche anno, nel 1918, la Guglielminetti iniziò anche a contraccambiare i sentimenti del venticinquenne aspirante giornalista e scrittore. Nel 1919, in segno di riconoscenza e affetto, Pitigrilli scriverà una lusinghiera biografia della sua protettrice che andrà ad occupare il settimo numero monografico della rivista Modernissima. Nel 1920, l’autore torinese darà conferma del suo talento pubblicando per Sonzogno la raccolta di undici novelle Mammiferi di lusso (1920), e, l’anno seguente, la serie di sette racconti, La cintura di castità.
L’abilità di Pitigrilli consistette soprattutto nel sapere coniugare la professionalità al gusto estetico e a quello del profitto: attitudine che gli procurò grande fama, ma anche molte inimicizie. Anche perché egli utilizzò quasi sempre il suo cervello evitando con cura di adeguarlo alla cultura dominante o di metterlo al servizio dei potenti satrapi di turno. D’altra parte, tutto si può dire di Pitigrilli tranne che abbia fatto politica: scienza che ben di rado gli rubò il sonno, pur stimolandogli gli appetiti della polemica. Anzi, l’intera sua vita fu caratterizzata da un costante, studiato e raffinato “disimpegno” che gli consentì di dare alle stampe opere libere, brillanti, ma che per decenni sono state attaccate o snobbate dai tetri e saccenti gurudell’erudizione italica, in quanto giudicate vacue, qualunquiste e addirittura pornografiche. Ciò che i contemporanei non sopportavano di Pitigrilli era sì il suo disinvolto anticonformismo stilistico con il quale egli inumidiva la punta della sua penna, ma soprattutto lo strepitoso successo delle sue iniziative editoriali e il fatto ch’egli i quattrini riusciva a guadagnarli divertendosi, cioè non appiattendosi su comode posizioni o facendo “marchette”, ma sparando ad alzo zero su tutto e tutti.
Ciononostante, lo si accusò di immoralità, di tirare solo e comunque ai soldi: come se l’arricchirsi in virtù del proprio genio fosse cosa sconveniente. Certo. A Pitigrilli il denaro interessava molto (ma quale uomo ambisce alla povertà?), come d’altra parte anche il consenso dei lettori: “Questo fascicolo ha la pretesa di conquistare il grande pubblico – recitava l’editoriale del primo numero di Grandi Firme – e per riuscirci userà un solo mezzo: essere divertente.[…] Non miriamo a rigenerare gli uomini, fustigare i tempi, segnare nuovi indirizzi alla civiltà, per mezzo di racconti morali”.
Oltre ai libri, furono anche gli articoli a procurare al giornalista torinese molteplici grane. Non a caso, nel 1919, D’Annunzio arrivò a sfidarlo a duello per via di un suo strafottente, ma gustosissimo, servizio incentrato sulla “grottesca conquista di Fiume”. “Una nave da guerra mi portò a Fiume, della cui italianità Gabriele D’Annunzio si era appena accorto […] E con l’entusiasmo tipico dei poeti guerrieri, egli trovò facile scovare qualche migliaio di individui disposti a corrergli dietro”. E ancora, smitizzando le ragioni storiche e le finalità politiche su cui poggiava l’ardita e discussa spedizione: “Giunto nella città, trovai della gente che parlava una strana lingua. Non uno che sapesse l’italiano. Qualche rudere qua e là, qualche impronta lasciata nei secoli dalle nostre repubbliche marinare; qualche leone di San Marco. Non vidi molta italianità ma percepii il colore dell’Oriente: mercanti di tappeti levantini, sigaraie da strada, profumo di cocomeri e di uva moscata, venditori di belzuino, di mirra e di incenso…Mi sedetti sulla banchina del porto e scrissi di getto un articolo intitolato: Fiume, città asiatica”.
Come si è detto, Pitigrilli fu anche un ottimo imprenditore, oltre che di se stesso. Basti pensare al clamoroso successo ottenuto dal suo periodico Le Grandi Firme (di cui parleremo più avanti) tirato e venduto in decine di migliaia di copie, o agli allori conseguiti nel 1948 quando – essendo dovuto emigrare in Argentina per schivare le accuse di collaborazionismo con i servizi segreti fascisti – egli riuscì a fare raddoppiare le vendite del quotidiano La Razon (che arrivò a tirare quasi 500.000 copie al giorno) con la sua “rubrichetta” settimanale Peperoni dolci. Fatti, questi, decisamente straordinari, soprattutto se si considera che Pitigrilli non ebbe mai del giornalismo quella sacrale concezione che sta alla base dell’atteggiamento serioso e spesso spocchioso di molti sedicenti maestri della tastiera. “La servitù del giornalismo – annoterà lo scrittore torinese alla fine degli anni Quaranta – consiste nell’arrivare alle nove del mattino in un paese sconosciuto, e a mezzogiorno spedire il primo articolo, dopo avere scambiato quattro chiacchiere col primo venuto, e avere visto della città il tratto che va dalla stazione all’albergo”.
E’ proprio per sopperire alla noia e alla sostanziale frustrazione che, a parer suo, contraddistinguerebbero il mestiere del giornalista, che Pitigrilli interpretò quest’ultimo sempre a suo modo, con quella diabolica verve che gli procurò grandi successi, ma anche grandi dolori ed infine l’esilio. “Un giorno il direttore dell’Epoca mi disse: Vada al Lyceum femminile. Il senatore Morello tiene una conferenza sulle bellezze di Roma. Mi raccomando, prenda una carrozzella e faccia presto – aggiunse. Io presi la carrozzella e, invece di farmi portare al Lyceum femminile, feci una passeggiata di un’ora al Foro, al Gianicolo e al Pincio. Rientrato in redazione feci il racconto della conferenza, passando in rivista tutte le bellezze di Roma che avevo viste e di cui probabilmente quel signore doveva aver fatto l’elenco. Ci vuole una bella impudenza, io pensavo, per parlare a Roma delle bellezze di Roma. Però non lo scrissi. Scrissi invece una pagina di elogi al fine conferenziere, e diedi il nome delle signore intellettuali che erano fra il pubblico. La cosa non mi fu difficile, perché erano sempre le stesse. L’articolo ebbe un successo sbalorditivo, anche perché all’ultimo momento il conferenziere si sentì male e la conferenza venne rinviata di un mese”.
Nonostante la sua spiccata propensione all’invenzione e al rischio (più di una volta fu sul punto di essere linciato dai suoi superiori), Pitigrilli non ebbe mai problemi nel dimostrare di essere un ottimo inviato, al punto che gli vennero affidati, fino dai suoi esordi, servizi piuttosto impegnativi. Nell’autunno del 1919, Pitigrilli fu a Napoli per seguire l’andamento delle prime elezioni politiche a suffragio universale che si tennero in Italia. E fu un successo. “Partii per Napoli e vi rimasi un mese. Scrissi, Dio sa come, trenta articoli stracarichi di colore come dei Van Gogh. L’Epoca, di cui prima si vendevano a Napoli tre o quattro copie, salì a 100 mila. Fu un vero trionfo”. Con il passare del tempo il suo impegno giornalistico iniziò a lasciare sempre più spazio alla narrativa. Appena ventisettenne, egli fu inviato quale corrispondente nientemeno che a Parigi, che per un giornalista rampante dei nostri giorni equivarrebbe ad andare a fare un servizio su una delle lune di Giove.
Nella colta, ma anche gaudente e debosciata capitale francese, il giovane scrittore torinese ebbe modo di assaporare tutte quelle trasgressive e in buona parte fantasiose esperienze che troveremo in seguito nel suo primo e più celebre libro, Cocaina (1921), scritto in quel di Rapallo dove Pitigrilli si era rifugiato per scansare le bastonate degli eroi fiumani, “nel volgere di due mesi e dieci giorni”. Protagonista geniale di questo romanzo è Tito Arnaudi, un giornalista come lui: atipico, contraddittorio, indagatore, trasgressivo, burlone e al tempo stesso rassegnato. “Ci si rifugia nel giornalismo come ci si rifugia nel teatro dopo aver fatto i mestieri più disparati e disperati: il prete, il dentista, l’agente di assicurazione”. E ancora: “Quanti servi che non parlano ci sono nel giornalismo! Noi non siamo esseri che vivono nella vita. Noi siamo sul margine della vita; dobbiamo sostenere un’opinione che non abbiamo, e imporla al pubblico; trattare questioni che non conosciamo, e volgarizzarle per la platea; noi non possiamo avere un’idea nostra; dobbiamo avere quella del direttore del giornale: ma nemmeno il direttore del massimo giornale ha il diritto di pensare col suo cervello, perché quando è chiamato dal consiglio d’amministrazione deve soffocare la sua opinione, quando ce l’ha, e sostenere quella degli azionisti”. Il libro si rivelò un successo ma procurò allo scrittore gioie e dolori. Pitigrilli venne infatti bersagliato da Il Popolo d’Italia (diretto da Benito Mussolini), dai monarchici, da parte della sinistra ‘benpensante’, ma per contro difeso da Ordine Nuovo (rivista fondata da Antonio Gramsci). Dopo una lunga sequenza di vicissitudini giuridiche, nel 1923 Pitigrilli iniziò a scrivere La vergine a 18 carati (che uscirà l’anno seguente), il suo secondo romanzo: opera a sfondo autobiografico, densa di brillanti aforismi, brillanti intuizioni e paradossi. Incassato l’ennesimo successo, il 1° luglio 1924, lo scrittore si ributtò nel giornalismo fondando il leggendario Le Grandi Firme, testata che conterà tra i suoi collaboratori nomi di reale prestigio .
Nell’ottobre del ’24, la rivista lancerà un bando per la pubblicazione di racconti, gara alla quale parteciperanno, tra gli altri, Massimo Bontempelli, Corrado Alvaro, Achille Campanile, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Luigi Pirandello, Grazia Deledda e Alfredo Panzini. Nonostante il successo editoriale, non mancheranno gli scontri con il versante politico, benpensanti e moralisti. Tra il dicembre del ‘26 e il marzo del ‘27 Il Popolo d’Italia e Il Regime Fascista avviarono nuovamente ai danni de Le Grandi Firme, una violenta campagna denigratoria. Alessandro Giuliani, caporedattore del «Popolo d’Italia» (ora diretto da Arnaldo Mussolini) definirà la testata vuoi “un pozzo nero”, vuoi “un ammasso di letame”, accusando inoltre Pitigrilli di essere un anti-italiano, un cocainomane (cosa probabilmente vera) e un omosessuale (cosa indubbiamente falsa). Nonostante le continue, violente dispute, nel dicembre del 1925, Pitigrilli sfornò una nuova testata mensile dedicata alla commedia, Il Dramma, che gli procurò, manco a dirlo, una valanga di consensi, tanto da indurlo, nel luglio 1926, a bissare il colpo con l’apertura di una terza rivista, Le Grandi Novelle, che affidò alla direzione di Anselmo Jona. Dalle pagine delle sue testate Pitigrilli non smise di lanciare argute provocazioni, ma anche colpi bassi ai danni dei suoi nemici, tra cui la ex amatissima Amalia Guglielminetti e l’intera Italia fascista, bigotta e perbenista. Tanto che, nel gennaio 1928, Pitigrilli venne arrestato per avere offeso la figura di Mussolini ed avere svolto tramite stampa attività politica contraria alle istituzioni e al regime e istigazione al malcostume. Accuse che cadranno poche settimane più tardi, consentendo la scarcerazione dell’ormai famosissimo giornalista-editore-scrittore piemontese.
Nel 1926, l’Ovra, la polizia politica fascista, iniziò a fare piazza pulita dell’opposizione clandestina, perseguitando i pochi intellettuali che avevano avuto il coraggio di fare resistenza ad oltranza al regime, tra questi Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Massimo Mila, Mario e Alberto Levi, e Sion Segre Amar, cugino di Pitigrilli. In questo contesto, nel maggio del 1930, il nostro autore, “un ebreo che a causa delle sue vicende personali non aveva in simpatia gli altri israeliti” entrò nel libro paga dell’Ovra quale informatore, e in questa veste si trasferì nuovamente in Francia per controllare l’attività di Giustizia e Libertà, compagine antifascista fondata da Carlo Rosselli che nel giugno del 1934, l’autore conoscerà personalmente. Di qui l’accusa di avere favorito il complotto e l’assassinio di Carlo e Nello Rosselli. Tra un impegno politico e l’altro, nell’agosto 1929 Pitigrilli diede alle stampe quello che dalla critica viene generalmente considerato il suo miglior romanzo, cioè L’esperimento di Pott. E due anni dopo, nel maggio del 1931, Dino Segre mise insieme nove racconti che vennero raccolti in un unico libro: I vegetariani dell’amore. Il 5 dicembre 1931 Pitigrilli sposò Deborah Senigallia, figlia di un ricco industriale laniero torinese, che nel giugno del 1932 gli fece dono di un figlio, Gianni. La relazione naufragò tuttavia dopo poco.
Nella primavera del 1934, da Parigi lo scrittore torinese comunicò improvvisamente alla moglie di “non essere fatto per vivere da consorte”, invitandola a dimenticarlo e a rifarsi una vita. Nell’estate del 1936, complice il caso, avviò una relazione amorosa con l’avvocatessa Lina Furlan e poco più tardi diede alle stampe Dolicocefala bionda, libro che non conseguì però il successo sperato, complice anche il boicottaggio da parte di un regime, quello fascista che pur avendolo cooptato nei suoi servizi segreti continuava ad ostacolarlo in tutti i modi. A punto che, nell’aprile del 1937, la rivista Le Grandi Firme (che Pitigrilli aveva affidato a Cesare Zavattini), venne definitivamente chiusa in quanto Mussolini trovò sconveniente la pubblicazione di un racconto (Fame, di Paola Masino) ambientato tra i ceti poveri e malavitosi: immagine che strideva con quella di un Paese che secondo il duce doveva rifulgere di aspetti edificanti. Ma era solo l’inizio. Il 20 settembre 1939, dopo averlo fatto pedinare in quel di Parigi da una spia, l’OVRA, che si era accorta di avere a che fare con un collaboratore alquanto ‘svogliato’ e troppo preso da altri interessi (donne, svaghi eccessivi e cultura) liquidò Pitigrilli. Pur essendo caduto in disgrazia, lo scrittore torinese volle pubblicare egualmente un altro lavoro, Le amanti e la decadenza del paradosso, che passerà totalmente inosservato.
Il 10 giugno 1940, Pitigrilli venne addirittura mandato al confino a L’Aquila (evitò l’internamento grazie all’intervento di monsignor Montini, venendo poi ‘liberato’ dall’amica Edvige Mussolini). Di nuovo in circolazione, Pitigrilli sposò Lina Furlan (nonostante civilmente risultasse ancora legato alla Senigallia), gesto che segnò il primo suo passo verso una conversione lunga e sofferta. Non per nulla egli decise di collaborare, con lo pseudonimo di Flamel, con l’Illustrazione del Popolo, firmando articoli traboccanti di buon senso e saggezza, cioè molto distanti da quelli che lo avevano reso noto. Dopo avere tentato, invano, di farsi perdonare dal regime ed ottenere la patente d’ariano, egli dovette accontentarsi di fare il padre di famiglia (nell’aprile del 1943, la Furlan gli regalerà il secondo figlio Pym) per poi riuscire, l’8 settembre 1943, a trovare rifugio in Svizzera. Dopo il 1945, Pitigrilli venne emarginato. Il sospetto (anzi, la certezza) che egli avesse potuto svolgere negli anni Trenta un ruolo di informatore dell’Ovra gli precluse tutte le strade, inducendo anche un personaggio del calibro e dell’acume di Guareschi a rifiutare i suoi scritti per il Candido. Nel ’48 egli decise pertanto di trasferirsi in Argentina per poi rientrare nel ’57 a Parigi.
Convertitosi al cattolicesimo – si legge nell’autobiografia Pitigrilli parla di Pitigrilli e nella La piscina di Siloe, il cui testo originale, che Pio XII volle per sé e che si trova ora in qualche angolo della Biblioteca Vaticana – il più irriverente degli scrittori italiani del Novecento si avvicinò progressivamente e sinceramente a Dio. Anzi, fece di più. Come scrisse Elio D’Aurora, “egli portò al Signore anche numerosi increduli”.
Obbligato a campare soltanto di minute collaborazioni, Pitigrilli finì per prestare il suo intelletto e il suo stile, ormai corretti dalla saggezza insita nella vecchiaia, al microscopico Messaggero di Sant’Antonio. Un destino curioso ma non troppo per uno scrittore che aveva dedicato tutta la sua esistenza al paradosso e agli eccessi. Nell’ottobre del 1973, a proposito del suo ultimo romanzo religioso, che si sarebbe dovuto intitolare Nostra Signora di Miss Tif, egli annotò: “Il mio lavoro sarà forse attaccabile dal punto di vista della teologia scolastica, ma è però inattaccabile nella sua spiritualità. Mentre trionfa il sesso e fanno furore, in letteratura, le anomalie, le psicopatie e la criminalità a sfondo erotico, il mio romanzo, al contrario, sarà di una purezza assoluta”. Morirà due anni dopo, l’8 maggio del ’75, a Torino, nella sua casa di via Principe Amedeo.
Per gentile concessione del Dott. Alberto Rosselli, Giornalista.
http://www.tuttostoria.net/personaggi_storia_italica.aspx?code=49