Fin dai tempi più antichi il primogenito acquistò una grande importanza nell’ambito della propria famiglia e della società in genere poiché, come simbolo di una nuova dinastia che si veniva a formare, il bekhòr era considerato un vero e proprio dono di Dio sia per i genitori, che per l’intero popolo che egli andava ad incrementare. Presso molte popolazioni si attribuivano al primogenito dei poteri magici che, si pensava, avevano la capacità di risolvere il problema della sterilità femminile, di fermare le tempeste, di aiutare l’esercito in battaglia, di guarire le malattie più pericolose o di fare altri miracoli di diversa entità sempre in rapporto alle necessità della gente con la quale egli viveva.
Spesso queste credenze tribali circa le miracolose possibilità del primogenito di influenzare il volere divino portarono a ritenere che, dopo la sua morte, egli avrebbe potuto intercedere in modo più diretto ed efficace per il bene del suo popolo. L’offerta in sacrificio del suo corpo e della sua anima per aggraziarsi i vari dei divenne così una pratica abituale presso le popolazioni antiche.
La Torà, dal canto suo, pur attribuendo grande importanza ed una particolare santità al bekhòr, ha sempre negato che egli potesse avere dei poteri sovrannaturali, ma soprattutto si è sempre opposta con fermezza ad ogni forma di violenza nei suoi confronti; per cui, se da un lato viene permesso esplicitamente al Sacerdote di cibarsi dei primogeniti animali dopo aver asperso il loro sangue sull’altare e bruciato le loro parti grasse (Num. 18°; 17-18), altrettanto chiaramente si sottolinea che i primogeniti uomini avevano il dovere di riscattare se stessi e di acquistare una completa libertà attraverso il pagamento di una cifra in denaro (Num. 18°, 15).
L’importanza del bekhòr, almeno durante il periodo dei patriarchi, era direttamente proporzionale alla sua disponibilità e capacità di operare per il bene della società e della sua famiglia in particolare. A lui, assieme al padre, spettava il compito di aiutare materialmente i fratelli e di essere per essi un esempio anche di moralità. Perciò chi non era in grado di adempiere ai compiti che la tradizione gli assegnava poteva vendere, donare o perdere per volere del padre la propria primogenitura a favore di uno tra i suoi fratelli (Gen. 25°, 31-32.; Gen. 48°, 14). Essere un bekhòr, dunque, non era solo un onore ma anche un onere che veniva e viene tutt’oggi ricompensato con una eredità doppia rispetto a quella destinata ai fratelli. Ma il compito più importante assegnato al primogenito fin dai tempi di Avrahàm fu sicuramente quello di esercitare il culto sacerdotale (Ber. Rabbà 63°, 18), funzione questa che si protrasse fino a che passò di diritto ai Leviti discendenti di Aharòn (Num. 30°, 3). Come affermano i Maestri della Mishnà: “Finché non fu eretto il Tabernacolo erano permesse le alture (dove offrire dei sacrifici ) ed il culto era officiato dai primogeniti; dopo che fu eretto il tabernacolo furono proibite le alture ed il culto venne affidato ai sacerdoti.” (Mishnà Zevachìm 14°, 4).
Come avremo modo di vedere più avanti, secondo alcuni autorevoli commentatori, sarà proprio questo passaggio di compiti dai primogeniti ai Leviti che porterà la Torà a comandare di adempiere al precetto del pidiòn.
La santità del bekhòr ed il suo riscatto (pidiòn)
Con l’uscita degli ebrei dall’Egitto parte dei primogeniti che, come abbiamo visto, già da tempo avevano assunto un ruolo di primaria importanza all’interno della famiglia ebraica, acquistano per ordine della Torà un ulteriore sacralità che doveva essere loro conferita dallo stesso Moshè: “Il Signore parlò a Moshè dicendo: SantificaMi ogni primogenito che apre ogni ventre, tra i figli di Israele, tra gli uomini e tra gli animali domestici: esso appartiene a me” (Es. 13°, 2). Come si può ben notare, la Scrittura non specifica in che cosa consiste questa nuova sacralità del bekhòr e neppure in quale modo Moshè avrebbe dovuto operare per mettere in pratica il comandamento divino, perciò tale argomento divenne oggetto di numerose discussioni tra i Maestri. Cercheremo di portare qui di seguito le idee di alcuni autorevoli commentatori della Torà cercando, quando ciò sarà necessario, di spiegare brevemente quello che a noi sembrerà essere il senso delle loro parole.
Per Itzchàk Abravanèl i primogeniti ebrei usciti dall’Egitto avevano il dovere di dimostrare il loro ringraziamento per non essere morti assieme ai primogeniti egiziani durante l’ultima piaga, attraverso una vita di completa dedizione al culto e all’osservanza dei precetti divini con un fervore che doveva superare quello del resto del popolo. Moshè avrebbe così avuto il semplice compito di richiedere ai primogeniti una concreta forma di riconoscenza per la misericordia dimostrata da Dio nei loro confronti. In Egitto infatti il livello di assimilazione raggiunto dal popolo ebraico fu talmente elevato al punto che con molta difficoltà si poteva distinguere un ebreo da un egiziano sulla base del loro comportamento. Anche i primogeniti ebrei, come quelli egiziani, secondo Abravanèl, si prostravano agli idoli e commettevano le stesse azioni immorali di coloro che li opprimevano. Se Dio si fosse comportato con giustizia e non con misericordia anch’essi sarebbero morti a causa delle loro azioni; perciò divenne compito di ogni bekhòr, di generazione in generazione, dimostrare con il proprio particolare attaccamento alla Torà e all’insegnamento dei Maestri la propria riconoscenza a Dio.
In questo modo, secondo Abravanèl, si può spiegare anche il motivo per cui la Torà richiede una maggiore sacralità ai primogeniti da parte di madre rispetto ai primogeniti da parte di padre. La madre, anche secondo la tradizione ebraica, è da sempre simbolo di misericordia e di amore . È come quindi se la Scrittura chiedesse al bekhòr di considerare il comportamento della propria madre nei suoi confronti, sempre pieno di amore e di misericordia, e di paragonarlo poi al comportamento di Dio assunto nei confronti del popolo ebraico in Egitto.
In realtà, sono molti i commentatori che, come Abravanèl, ritengono vi debba essere uno stretto legame tra la liberazione dall’Egitto e la vita di sacralità richiesta al bekhòr. Il commentatore italiano Ovadià Sforno, seppure in linea con il commento di Abravanèl, ritiene che la sacralità dei primogeniti venga richiesta da Dio già in Egitto e non successivamente, come potrebbe apparire da una semplice lettura dei versetti.
Fu dunque l’accettazione incondizionata del volere divino che avrebbe salvato il bekhòr dalla punizione e dalla morte. Il compito di Moshè, dunque, doveva essere quello di spronare il popolo a mantenere il proprio impegno che, anche secondo Sforno, dovrà essere rispettato in eterno, dai primogeniti di ogni generazione, che divengono così i garanti del patto che i nostri padri fecero con Dio in terra d’Egitto.
Ma per Abravanèl e Sforno, se da un lato il primogenito ha dei compiti che ne caratterizzeranno in eterno la personalità, d’altro lato la perdita del diritto di esercitare il sacerdozio in favore dei leviti diede al bekhòr la possibilità di svolgere una vita simile, anche se con maggiori responsabilità, a quella del resto del popolo. Ma di regola, ogni oggetto sacro non poteva essere adoperato per scopi profani se non veniva prima riscattato con una cifra in denaro che doveva poi servire per il Santuario.
Per questo motivo la Torà istituì la regola del riscatto del primogenito, il pidiòn, una mitzvà che comunque continua ad essere messa in pratica ancora oggi con lo scopo di ricordare vivamente l’importanza che il primogenito assunse, e continua a mantenere nell’ambito del popolo ebraico.
Diversa, invece, è l’interpretazione che il rabbino Aharòn Halevì, autore del “Séfer Hachinùkh” dava al senso della sacralità che Dio chiedeva al primogenito. Secondo tale rabbino questo mondo appartiene completamente a Dio e affinché l’uomo impari che egli può entrare in possesso solo di ciò che il Creatore gli concede, è tenuto a donare il principio di ogni suo avere. In questo senso, santificare il proprio primogenito a Dio equivale a riconoscere che neppure un figlio può essere realmente dei propri genitori senza l’esplicito permesso che Dio concede loro. Se da un lato, dunque, il padre è tenuto a dare un educazione ebraica al proprio figlio, dall’altro è proprio il bekhòr, e assieme a lui tutti gli altri figli che verranno, ad insegnare ai propri genitori il rispetto per Dio che dovrà essere alla base della vita della nuova famiglia che si sta ora formando.
Per Aharòn Halevì dunque il pagamento di una cifra in denaro in cambio del proprio figlio, acquista un grande valore educativo, valido soprattutto ai giorni d’oggi, dove l’uomo è sempre più portato a considerarsi l’assoluto padrone di tutto. È così al padre che spetta il dovere di riscattare il proprio figlio, poiché dirà Shimshòn Refaèl Hirsh, è all’uomo che la Torà ha dato il compito di sostenere economicamente la propria famiglia, ed è soprattutto lui che potrà commettere l’errore di potersi considerare l’unico padrone di tutto il suo avere.
Il Pidiòn nella halakhà
Il Rambàm nel suo “Libro dei Precetti” scrive: “Riguardo il comando che abbiamo ricevuto di riscattare il primogenito dell’essere umano e di darne il riscatto al sacerdote; esso è espresso in quanto detto da Colui che va esaltato: ‘Il primogenito dei tuoi figli darai a me’ (Es. 22°, 28), ed è spiegato in che cosa consista questo dare: lo dobbiamo cioè riscattare dal Sacerdote, come se fosse già cosa sua, e lo dobbiamo comprare da lui per cinque Selà. E questo è espresso nel detto di Colui che va esaltato: ‘Ma riscatterai il primogenito dell’uomo’ (Num. 18°, 15). Questo precetto è quello del riscatto del figlio e le donne non sono tenute ad adempiere a tale precetto; ma è un precetto riguardante il figlio che il padre deve compiere, come è spiegato in Kiddushìm 29a.” (Precetto 80).
Riscattare un figlio pagando la cifra in denaro espressa nella Torà non è dunque una scelta, ma un obbligo, da adempiere in tempi ed in modi ben precisi. Riportiamo quì di seguito una serie di norme essenziali riguardo alla mitzvà del pidiòn (tralasciando tutti i problemi di halakhà particolari che potrebbero sorgere, per esempio, nei casi di dubbi aborti avuti in precedenza dalla madre poiché, data la complessità della questione, ci si dovrà necessariamente rivolgere ad un rabbino competente).
A) La Torà comanda che ogni primogenito di donna ebrea sia considerato sacro e vada riscattato dal padre dietro versamento al cohèn di oggetti o monete d’argento del peso di cinque sicli (circa 100 grammi) o di altro oggetto che abbia un valore ad esso equivalente. Il precetto del pidiòn è valido in ogni tempo ed in ogni luogo.
B) Ciò che viene dato come riscatto, diviene a tutti gli effetti proprietà a pieno titolo del Sacerdote, ma questi può, se lo desidera, restituirlo al padre del bambino.
C) È bene che il cohèn portato per la mitzvà del pidiòn sia uno studioso della Torà e rispettoso dei precetti, poiché questo sarà di buon augurio per la futura vita ebraica del nascituro. Comunque ogni cohèn è adatto per il precetto del pidiòn.
D) La madre non è tenuta ad adempiere al precetto del pidiòn. Si cerchi in tutti i modi di convincere un padre renitente ad adempiere a questa mitzvà. Un figlio primogenito che non fu riscattato dal padre dovrà riscattare se stesso una volta divenuto adulto. È comunque bene che in questi casi sia il Tribunale Rabbinico o i parenti più prossimi del pidiòn a donare la cifra del riscatto.
E) Solo i primogeniti da parte di madre devono essere riscattati.
F) I figli di leviti o di cohanìm non devono essere riscattati. Anche i figli di una donna levita o figlia di un cohèn sposata ad un israèl non hanno bisogno di alcun riscatto.
G) I figli nati da parto cesareo non devono essere riscattati.
H) Il riscatto deve avvenire dopo che il bambino abbia compiuto un mese, possibilmente all’inizio del trentunesimo giorno dalla nascita; Però il riscatto non si compie né di sabato né di festa solenne e si rimanda al giorno feriale successivo.
I) Come si è detto nella regola successiva, non si rimandi eccessivamente il momento del pidiòn una volta giunti al trentunesimo giorno dalla nascita del bambino. Una tradizione presente nello Zòhar afferma che fino a che il bambino non è stato riscattato, dal momento che è giunto il tempo della mitzvà, l’angelo della morte aleggia su di lui ed è pronto a colpirlo.
Il midràsh ritiene che il prezzo del riscatto fu fissato dalla Torà in base al denaro ricevuto dai fratelli per la vendita di Yosèf: “E vendettero Yosèf per 20 denari. (Gen. 37°, 28) Disse il Santo Benedetto Egli Sia: voi vendete il figlio di Rachèl per 20 pezzi d’argento, che corrisponde al prezzo di cinque Selaìm; perciò ciascuno di voi dovrà dare per il riscatto di suo figlio cinque Selaìm”. (Ber. Rabbà 84°, 18).
Rabbì Simchà Hacohèn, nel suo commento Mèshekh Chokhmà commenta questo midràsh spiegando che il popolo ebraico fu costretto alla persecuzione in Egitto a causa della vendita di Yosèf, che era il primogenito di Rachèl. Pagando il riscatto per il proprio figlio ogni ebreo, in ogni generazione, potrà capire che nulla nella storia è dovuto al caso e che Dio é sempre pronto a ripagare sia le buone che le cattive azioni del suo popolo. Questo grande insegnamento lo dobbiamo a proprio a Yosèf Hatzadìk.
Possa anche il vostro figlio Josèph avere sempre il merito di impartire insegnamenti a tutto il nostro popolo con la sua azione e con la sua parola.
Amèn.
Milano 27 maggio 1994 – 17 Sivàn 5754
Molto è stato scritto sul tema della primogenitura e sull’importanza del precetto del pidiòn. Queste poche pagine non hanno né il compito, né la pretesa di esaminare a fondo l’argomento. Il mio desiderio è semmai quello di esprimere, attraverso qualche parola di Torà, gli auguri più fervidi e sinceri ad Albert e Dalia Mouhadeb per la nascita del loro primo figlio Joseph.