Dalla derashà tenuta nel primo giorno di Pesach 5772 al Bet Hakeneset “Di Castro”, via Balbo, Roma
Gianfranco Di Segni
Quest’anno il primo giorno di Pesach è coinciso con lo Shabbat. La cosa non comporta grandi ripercussioni pratiche, a differenza di quando Pesach inizia il sabato sera. In quel caso, infatti, le complicazioni sono molteplici: la ricerca del chametz, che si fa a lume di candela, non può essere fatta il venerdì sera, perché è Shabbat, e va quindi anticipata al giovedì sera; per lo stesso motivo la bruciatura del chametz non può essere effettuata di Shabbat mattina e si fa invece il venerdì mattina; il Kiddush del sabato mattina ha delle modalità particolari; ecc. Invece, quando Pesach capita di Shabbat, l’unica diversità è l’impossibilità di cucinare il cibo il venerdì sera e una differenza di natura liturgica. Al Bet Hakeneset, infatti, non si recita la berakhà chiamata Me’èyn Shèva’, ossia quella berakhà che si dice dopo la ‘Amidà di ‘Arvit e Yom Hashishì e che include il brano Maghèn avòt bidvarò. Questa berakhà si dice al Bet Hakeneset (non nelle case private) ogni venerdì sera dell’anno, eccetto quando coincide con la prima sera di Pesach. Per capire il motivo di questa differenza, che si aggiunge alle altre differenze “fra questa sera e le altre sere”, dobbiamo prima spiegare qual è l’origine della berakhà Me’èyn Shèva’.
Una volta le sinagoghe si trovavano un po’ fuori dell’abitato e percorrere le strade di sera poteva essere pericoloso. Poiché all’epoca c’erano (come ci sono oggi) i ritardatari, per evitare che costoro dovessero tornare da soli alle proprie case e incorrere in potenziali rischi, si decise di prolungare la tefillà dando così modo a tutti di incamminarsi insieme. La berakhà Me’èyn Shèva’ ha questo scopo. A Pesach questa berakhà non si recita perché la notte di Pesach è chiamata dalla Torà Lèyl shimmurìm, che possiamo tradurre come “notte della sorveglianza”. Essendo noi tutti “sorvegliati” e protetti dalla Provvidenza divina, non corriamo rischi in questa sera e quindi non c’è bisogno di aggiungere una berakhà particolare per allungare la tefillà di Arvit (Talmud bavlì, Shabbat 24b con commento di Rashì; Shulchan ‘Arukh, Orach Chaim 268, 8-10 con Mishnà Berurà 20-25 e Be’ur Halakhà s.v. Yom tov shechal beshabat; O.Ch. 487, 1 e M.B. 9).
Il termine shimmurìm si trova per ben due volte nello stesso versetto della parashà di Bo, una volta riferito al Signore e una volta a Israele. La notte che precedette l’esodo fu “una notte di shimmurim per il Signore al fine di farli uscire dalla terra d’Egitto; questa stessa notte, consacrata al Signore, sarà una notte di shimmurim per tutti i figli d’Israele nelle loro generazioni” (Shemot 12, 42). Shimmurìm deriva da shamòr, che significa sorvegliare e osservare. Lo shomèr è il sorvegliante, il custode, ma è anche, come nell’espressione shomèr mitzvòt, colui che osserva le mitzvòt. Del resto, anche in italiano sorvegliare e osservare sono connessi. Nella maggior parte delle traduzioni il primo termine shimmurim, riferito a D-o, è tradotto con notte predestinata, prestabilita, ossia la notte che D-o sorveglia, scruta, aspetta che arrivi, perché non vede l’ora – per così dire – di far uscire gli ebrei dall’Egitto, adempiendo così la promessa fatta ad Abramo (cfr. Rashì ad loc. e a Bereshit 14, 15). Il secondo shimmurim, riferito ai figli d’Israele, è tradotto da alcuni con osservanza: questa è la notte che tutte le generazioni degli ebrei osserveranno a ricordo di Pesach. Altri spiegano il termine shimmurim, anche in questo caso, come sorveglianza, nel senso di “protezione”: questa sarà una notte di protezione per tutte le generazioni. Rashì, sulla base del Talmud (Pesachìm 109b), commenta il versetto dicendo che tutte le generazioni future saranno protette in questa notte dai mazikìn (i “danneggiatori”), così come nella notte che precedette l’uscita dall’Egitto gli ebrei furono salvati dall’azione del mashchit, il “distruttore” che colpì i primogeniti egiziani.
Per Rabbì Avraham Ibn Ezra gli ebrei, di anno in anno, staranno svegli in questa notte per parlare dell’uscita dall’Egitto, come nell’episodio narrato nella Haggadà sui cinque Maestri di Benè Berak che rimasero svegli tutta la notte fino all’ora della lettura dello Shemà’ della mattina.
Rabbì Ovadià Sforno commenta il versetto con queste parole: “Il Signore non vedeva l’ora di fare uscire gli ebrei dall’Egitto, perché non era Suo desiderio affliggerli (cfr. Ekhà 3, 33). Tuttavia, non li aveva trovati pronti e meritevoli per la redenzione fino a quella notte. Per questo Egli vegliava e aspettava, perché Egli desidera l’amore, come è detto (nella Haggadà di Pesach) che il Santo Benedetto calcola la fine (dell’esilio; mechashev et ha-ketz). E come D-o vegliò in attesa di salvare gli ebrei dall’Egitto, così Egli veglia e aspetta che arrivi la notte in cui Israele sarà redento definitivamente in futuro, perché anche la redenzione finale avverrà nel mese di Nisàn a Pesach, come è detto nel Talmud (Rosh Hashanà 11a)”. Anche il Rambàn (Rabbì Moshè ben Nachman) afferma che solo quella notte gli ebrei si meritarono di uscire dall’Egitto: anzi, dice il Ramban, l’esilio si prolungò oltre il dovuto proprio a causa del cattivo comportamento degli ebrei, che in Egitto avevano smesso persino di fare la milà ai propri figli.
Un’altra spiegazione, che unisce le precedenti, è quella offerta dal Kelì Yekàr, il commento di Rabbi Shlomo Ephraim Luntschitz (1550–1619). D-o avrebbe detto a Israele: “Il Mio lume è nelle tue mani e il tuo lume è nelle Mie mani. Sorveglia il Mio e Io sorveglierò il tuo. Tu sorveglia il lume della mitzvà e Io sorveglierò il lume divino, ossia l’anima umana (cfr. Proverbi 20, 27) che è in mano Mia. Ed ecco, in questa notte gli ebrei osservarono la mitzvà di Pesach secondo tutte le sue regole e il Santo Benedetto li protesse e non concesse al distruttore di colpirli nelle loro case. Ed è riguardo a questa protezione che è detto lèyl shimmurìm laShèm. E di converso, l’osservanza delle mitzvòt da parte d’Israele è chiamata shimmurìm lekhòl benè Israèl ledorotàm (osservanza di tutti i figli d’Israele nelle loro generazioni)”.
Queste parole del Kelì Yekàr ci fanno capire bene come deve intendersi la protezione accordataci da D-o, che non è qualcosa di automatico. Essere “sorvegliati speciali” la notte di Pesach non ci autorizza a camminare per strada senza prendere le normali precauzioni, ad attraversare con il semaforo rosso o addentrarsi in un quartiere poco sicuro. La protezione dipende anche da noi e dal nostro comportamento. Come si usa dire, aiutati che D-o ti aiuta.