Veneziano, grande esegeta e viaggiatore, figlio di un’epoca irrequieta, il Rinascimento, Eliezer Ashkenazì sottolinea la lezione educativa della festa di Pesach, paradigma di liberazione e della capacità di trasmettere: perché non è con la cultura che si fa breccia nel cuore dei figli ma con l’esempio
Come possiamo essere d’esempio ai nostri figli senza che questo sembri qualcosa che cade dall’alto o di prevaricante? Perchè nel calendario ebraico ci sono ben tre feste di “Redenzione” e che funzione educativa hanno? Se lo domanda R. Eli’ezer Ashkenazì, (1513-1586), grande esegeta e viaggiatore di origine veneziana, rabbino insigne in laguna e altrove. E risponde in modo indiretto e “laterale”, affermando che ci sono tre modi per salvare una persona che viene aggredita da altri: far fuori l’aggressore per conto della vittima; dare alla vittima la forza di combattere da sola con l’aggressore; far sì che l’aggressore elimini se stesso. In corrispondenza di queste tre modalità sono state istituite altrettante feste “di Redenzione”, per l’appunto. A Chanukkah, l’Altissimo ha dato ad Israel, ancorché in minoranza, la forza di combattere i Greci in proprio. A Purim, ha fatto in modo che i Persiani stessi si sconfiggessero da soli attraverso la revoca dell’editto di distruzione. A Pesach, infine, “Hakadosh BaruchHù combatterà per voi (contro gli Egiziani) e voi ve ne starete quieti” (Shemot 14,14). Durante le numerose peregrinazioni di cui la sua vita fu costellata, R. Eli’ezer Ashkenazì fu in contatto con Comunità di terre diverse, dall’Egitto all’Europa Orientale ed è una testimonianza eloquente dello spirito irrequieto dell’epoca. Il suo commento alla Torà, Ma’asseh ha-Shem (completato a Gniezno e pubblicato a Venezia nel 1583), contiene un’importante digressione sulla Haggadah di Pesach.
Già altri commentatori, nei secoli, si erano interrogati sul perché le domande del Mah Nishtannah sono proprio “quelle” quattro e non vertano su altre nel Seder, come per esempio sui quattro bicchieri di vino. R. Ashkenazì spiega che tutte le alterazioni alla norma consistono in tre diverse possibilità: chassir (difettivo), yattir (eccessivo) e chalif (differente). Ovvero che tutto si determina per difetto, per eccesso, per differenza: questa è la partitura delle possibili variazioni. E’ il caso delle imperfezioni che invalidano un animale macellato (Chullin 47a) o un Sefer Torah. Il fatto che durante il Seder si intinga due volte mentre le altre sere non si intinga affatto è un esempio di yattir. Il fatto che durante il Seder si mangi solo matzah, mentre le altre sere chamètz o matzah è un esempio di chassir. Il fatto che durante il Seder si mangi maròr, mentre le altre sere ogni altra verdura, è un esempio di challif. E dopo aver elencato le variazioni di menù fornisce un esempio di variazione di galateo: lo stare appoggiati sul gomito sinistro in segno di libertà.
sette giorni per ricordare l’esilio
Una classificazione simile -afferma- può essere adottata per i quattro figli: il chakham (saggio) è attratto dalle aggiunte (yattir); il rashà (ribelle) è interessato a ciò che manca (chassir); il tam (semplice) domanda solo quando vede qualcosa cui non è abituato (challif); il she-eynò yodea’ lish’al (colui che non sa fare domande) non si stupisce neppure delle variazioni nei comportamenti. Le quattro tipologie corrispondono ai quattro figli dei Patriarchi. Il Chakham corrisponde ad Itzchaq che domandò: “Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’animale da sacrificare?” (Bereshit 22,7). Il Rashà’ corrisponde ad Esaù che chiese in tono di critica: “Che cos’è questo accampamento in cui mi sono imbattuto?” (33,8). Il Tam corrisponde a Ya’aqov che di fronte all’inganno del matrimonio con Leah domandò: “che cosa mi hai fatto” (29,24), a differenza delle mie aspettative? Ed infine, a proposito di Ishma’el, la Torah non registra alcuna domanda.
E che significava allora dire dayyenu, “…ci sarebbe bastato” – domanda ancora R. Ashkenazì – se nel deserto gli Ebrei non facevano che lamentarsi? E si risponde: “Va inteso in realtà come una forma interrogativa: ‘forse che davvero tutti i benefici Divini ci sarebbero bastati?’ Lo si può spiegare meglio con una parabola. Un re aveva promesso di dare al suo servo il governo di una città, ma quando fece per insediarlo si rese conto che il servo non aveva nulla che fosse degno di un governante. Non aveva gli abiti: glieli fece. Non aveva cavalli: glieli procurò. Non aveva servi: glieli diede. Non conosceva il protocollo: gli diede un manuale perché se lo studiasse. Non aveva un palazzo: glielo fornì. Quando il servo cominciò a governare, venne a ringraziare e lodare il re, dicendo: se mi avesse dato il governo ma non mi avesse dato abiti da governatore, forse che avrei potuto governare? E se mi avesse dato gli abiti ma non i cavalli, mi sarebbe bastato?” Nella Torah sono date due motivazioni diverse alla prescrizione della matzah: “per sette giorni mangerai matzòt, 1) pane di afflizione, 2) poiché in gran fretta uscisti dall’Egitto” (Devarim 16,3). Il medesimo versetto parla della matzah come “ricordo dell’esilio” e come “ricordo della redenzione”. R. Ashkenazì distingue fra la consumazione della matzah durante i Sedarim, che è una Mitzwah, e nei rimanenti giorni di Pesach, che è facoltativa (fermo restando il divieto del Chamètz). Secondo la sua spiegazione la Mitzwah di consumare la matzah durante il Seder viene a commemorare l’Uscita dall’Egitto, mentre la facoltà di mangiarla nei restanti giorni della festa viene a ricordare il “pane dell’afflizione che gli Ebrei mangiarono in Terra d’Egitto” mentre erano schiavi.
Questo spiega anche la necessità di festeggiare Pesach per sette giorni anziché per un giorno solo come Shavu’ot. Avremmo infatti potuto pensare che così come il dono della Torah è avvenuto in un giorno, così anche l’Uscita dall’Egitto è avvenuta in un giorno. E invece Pesach è stata fissata per sette giorni in memoria della permanenza in Egitto (sette giorni è un tempo simbolico che comprende tutti i giorni del mondo, a somiglianza della Creazione avvenuta in sette giorni), così come Sukkòt è stata fissata per sette giorni in memoria della permanenza nel deserto.
salvarsi dai propri nemici non significa ucciderli
Ma allora perché l’Altissimo non ha scelto un modo più “pacifico” per liberare gli Ebrei dall’Egitto? Forse che non avrebbe trovato la forza di convincere il Faraone a lasciarci andare? Scopo dell’Esodo era rendere nota la forza della Divinità al mondo. Per questo il Magghid dice: “se Hakadosh Baruchù non ci avesse tratti di là con mano forte e braccio disteso, ma convincendo gli Egiziani a lasciarci andare, oggi noi e i nostri figli saremmo ancora asserviti agli Egiziani” e saremmo loro debitori di eterna gratitudine per averci liberato. Ecco perché si aggiunge che quand’anche fossimo già tutti edotti, siamo tenuti a rinnovare ogni anno il racconto dell’uscita dall’Egitto: perchè la ripetizione non ha solo scopo didattico, ci aiuta a interiorizzare il senso. Ciò spiega perché “chiunque racconti l’uscita dall’Egitto è degno di lode”. La frase va intesa nel senso che questo racconto è una lode per noi che abbiamo meritato l’Esodo in questa forma. “Se infatti il Hakadosh Baruchù li avesse liberati per volontà del Faraone e dell’Egitto, non ci sarebbe stato motivo di lode, in quanto se lo schiavo è stato liberato dal padrone, di sua volontà, non rappresenta questo motivo particolare di lode per lui” ma, al contrario, di sottomissione e riconoscenza perpetua al suo aguzzino. “E’ stata la Divina Promessa ad assistere noi e i nostri padri, perché non uno solo, bensì in ogni generazione si levano contro di noi per ucciderci, ma il Santo Benedetto ci salva dalle loro mani”. Che razza di rassicurazione è questa- si domanda R. Ashkenazì-, per cui “in ogni generazione si levano contro di noi per ucciderci”? Se non fosse stato per le continue persecuzioni avvenute nell’arco della Storia, forse il senso profondo dell’Esodo sarebbe stato dimenticato fra le nazioni del mondo. Viceversa il fatto che ogni volta “l’Altissimo ci salva dalle loro mani” fa sì che si rinnovi, di generazione in generazione, il ricordo dell’Esodo, la potenza della forza Divina, della Sua azione nel mondo e del Suo Amore per noi. Esiste quindi una responsabilità che incombe sulle generazioni successive. L’Esodo non è semplicemente il modello aureo delle tante persecuzioni posteriori, per le quali fornisce un elemento consolatorio ad un popolo continuamente afflitto. Al contrario: proprio le persecuzioni successive servono ad eternare il messaggio della prima, la schiavitù d’Egitto e la successiva liberazione. “Il Magghid menziona la salvezza dai nemici e non la loro uccisione, perché il Suo Amore per noi non diverrebbe manifesto qualora uccidesse chi si leva contro di noi: in tal caso, infatti, si potrebbe affermare che D. agisce in odio dei nemici e non per Amor nostro”.
“Dal momento che il vantaggio per cui abbiamo beneficiato dell’Uscita dall’Egitto ci tocca in ogni tempo, perciò ‘in ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerare se stesso come se personalmente fosse uscito dall’Egitto…’. Dal momento che secondo la Torah la matzah e il maròr… sono il fulcro del ricordo dell’Esodo; quando la matzah e il maròr sono disposti sulla tavola è il momento di realizzare lo scopo stesso dell’Uscita dall’Egitto: rendere nota la forza della Divinità al mondo di generazione in generazione per tramite nostro”. “E il Magghid non ha detto: “racconterai a tuo figlio nel momento in cui la matzah e il maròr saranno disposti davanti a lui”, al figlio; perché non è detto che questo figlio (se non sa fare domande) si accorga della novità, bensì dice che dovrai fare il racconto quando matzah u-maròr munnachim lefanekha: ‘saranno disposti davanti a te cioè al padre”. Chi desidera crescere i suoi figli come ebrei deve sforzarsi di diventare egli stesso un ebreo in atto. Non sarà la cultura del padre a far breccia nel cuore di suo figlio, quanto piuttosto il suo esempio.