Roberto Maggioncalda
Pesach – 7° giorno – 21Nissan 5784 / 29 aprile 2024
Az Yashir: Canto umano di vittoria o Canto Divino di gioia – Ossia: alla base dell’ebraismo vi è la monolatria ontologica
Quello che vi racconto oggi è liberamente ispirato alla omonima derashà di Rav David Horwitz, Rosh Yeshiva alla Yeshivat Rav Itzchak Elchanan[1].
I termini della questione
Oggi ricordiamo quando attraversammo lo Yam Suf. Meglio: è oggi che attraversiamo lo Yam Suf. L’evento si inserisce come una tappa fondamentale nella a sua volta fondante vicenda della Yeziat Mizraim. La gioia del popolo proruppe in un canto di celebrazione e di gioia. In ricordo di ciò tutti i giorni leggiamo la Shirat Hayam (Cnatica del mare) nelle zemirot mattutine.
Ma il suo versetto:
מִי כָמֹכָה בָּאֵלִם יְהוָה –Mi kamocha ba-elim Hashem
מִי כָּמֹכָה נֶאְדָּר בַּקֹּדֶשׁ – Mi kamocha Nehedar ba-Kodesh [Shemot, 15:12]
lo leggiamo tutti i giorni non una ma tre volte: nella Shirat Hayam, prima dell’Amidà di shachrit e prima di quella di arvit. Oggi poi lo leggiamo quattro volte. E tuttavia questo versetto pone una grande difficoltà. La sua traduzione letterale è questa:
Chi è pari a Te, Hashem, tra le divinità? Chi è pari a Te, Grande per Santità?
Cosa può significare “בָּֽאֵלִם”, “tra le divinità”? La difficoltà è evidente: possibile che nella Torà vi sia una concessione all’esistenza di altre divinità? Tutto l’edificio dell’ebraismo si appoggia sul concetto di monoteismo, osserva Rav Horwitz.
Al massimo è possibile distinguere tra due approcci: il primo consistente nell’esclusività del culto, in base alla quale si serve, ama, teme e prega un solo Dio, accettando tuttavia il concetto che esista più di un Dio – e questo approccio, con linguaggio filosofico, lo chiama monoteismo religioso, o monolatria, – e il secondo consistente invece nel fatto di credere nell’esistenza di un solo Dio – e questo approccio lo chiama monoteismo ontologico.
Horwitz sottolinea che l’ebraismo proclama la dottrina del monoteismo ontologico, come illustrato da versi quali “Shema Israel, Hashem Elokenu, Hashem Echad” [Deuteronomio, 6:4], “Ascolta Israele, l’Eterno è il nostro Dio, l’Eterno è Uno”.
Il Rav inoltre declama la superiorità e maggiore raffinatezza del monoteismo ontologico, rispetto a quello religioso.
E dunque? Come la mettiamo? Come è stato interpretato e commentato questo versetto dai nostri Maestri?
Più che per aggiungere pepe alla questione, per lo scrupolo di affrontare la questione in modo il più possibile intellettualmente onesto, aggiungo qui, di mia iniziativa, l’irriverente e forte provocazione portata a questa nostra idea di base da Yuval Noah Harari nel suo libro: “Da animali a dèi – Breve storia dell’umanità”[2].
A pagina 260 Harari scrive:
I vantaggi dell’idolatria Duemila anni di lavaggio del cervello monoteistico hanno fatto sì che la maggior parte degli occidentali considerino il politeismo come un’idolatria ignorante e infantile. Questo è uno stereotipo assolutamente ingiusto. [..] Il politeismo contribuisce inoltre al formarsi di una tolleranza religiosa. [..] Rispetto ai politeisti, i monoteisti mostrano la tendenza a essere molto più fanatici e inclini al proselitismo. E così via.
Interpretazioni del passuk
Prima di passare in rassegna le principali interpretazioni incluse nel mainstream esegetico, vi riferisco, per inciso e solo a titolo di esempio, quella riportata da Robert Alter, nella nota 11 a pagina 275 della sua monumentale recente traduzione del Tanach[3]. Roberto Alter è un noto critico letterario e traduttore statunitense, specialista di studi biblici. La sua traduzione completa del Tanach, pubblicata nel 2019, si è aggiudicata premi quali il PEN Center USA Literary award e il Koret Jewish Book Award. Alter commenta il verso affermando che nella maggior parte del primo millennio prima dell’era corrente gli scrittori ebrei non avevano difficoltà nel concedere l’esistenza di altre divinità, sebbene sempre stipulando, come in questo caso, l’assoluta inferiorità rispetto al Dio di Israele.
Osservo qui, en passant, che, sebbene questa interpretazione, di stampo solo filologico e letterario, sia in contrasto con la tradizione ebraica, essa tuttavia coincide con quello che Rav Horwitz chiama monoteismo religioso o monolatria, che, anche se secondo lui non farebbe parte integrante del pensiero ebraico, tuttavia non ne è neanche completamente estranea e che concederebbe la possibilità che altre divinità esistano.
Invece le interpretazioni tradizionali sono quasi tutte orientate a rigettare ogni interpretazione di questo verso che abiliti il confronto tra Hashem ed altri dei. Perché nessun altro dio esiste. Quindi paragoni simili sarebbero non necessari e superflui. Piuttosto queste fonti interpretano il verso come un confronto tra Dio ed altre entità che esistono nella realtà.
Rashi, per esempio interpreta “elim” nel suo senso primordiale di forza (ba-chazakim). Il confronto sarebbe quindi tra il potere illimitato di Hashem ed i poteri, finiti e limitati, di re mortali, quali il Faraone.
Un’altra interpretazione identifica “elim” con il nome “illemim”, coloro che sono muti [Talmud Bavli, masekhet Gittin 56b][4]. Solo Dio ha l’auto-controllo di rimanere silenzioso quando i Suoi amati figli d’Israele sono umiliati, e attendere il momento appropriato per punire coloro che abusano della Sua preziosa nazione.
Una ulteriore interpretazione è quella di R. Abraham ibn Ezra, Ramban ed altri, i quali sostengono trattarsi di esseri differenti del regno celeste: Dio e gli angeli.
Si può comunque supportare la spiegazione letterale che asserisce “ba-elim”si riferisca comunque ad altri dei?
Rav Horwitz a questo punto fa una osservazione, che in realtà è solo un inciso, ma che riporto comunque in quanto la trovo non solo a me consona, ma proprio interessante e giusta in assoluto.
Perché mai, si chiede Horwitz, Mosè è una figura “cospicuamente assente” nella Shirat Hayam?
Forse, ipotizza come risposta, ciò dipende proprio dalla differenza che c’è tra monoteismo religioso e monoteismo ontologico.
Gli ebrei che avevano assorbito la mentalità egizia erano sì preparati a rinunciare a riconoscere il potere della avodà zarà e ad iniziare ad adorare solo un Dio, Hashem. Tuttavia questo cambio di lealtà era dovuto soltanto ai miracoli e non produceva un cambiamento concettuale completo. Non comportava il riconoscimento che in realtà vi è solo un unico Dio universale. Come d’altronde successivamente confermato dal peccato del vitello d’oro.
Invece Moshe Rabbenu, insieme a quegli ebrei che avevano raggiunto un livello di comprensione più raffinato, non avevano bisogno di confrontare la potenza di Dio co quella di altri dèi. Non avevano bisogno di miracoli. Erano già al livello di comprendere l’unicità ontologica di Dio e non avevano bisogno di cantare Mi Kamocha.
Hallel: o della dimensione etica del monoteismo ontologico
A questo punto Rav Horwitz apparentemente cambia discorso.
Inizia a raccontare di un noto tema halakico.
Quello del motivo per il quale nei giorni di chol-ha-moed a Pesach non si recita l’Hallel completo, a differenza dei giorni di chol-ha-moed di Sukkot.
La Gemarà [Arakhin 10b][5] spiega che non si dice l’Hallel completo in tutti i giorni di Pesach perchè, a differenza di Sukkot, il sacrificio di ciascun giorno di Pesach è sempre lo stesso, a differenza di quello dei giorni di Sukkot, che è sempre diverso.
Esiste però un altro parere. Quello espresso dal Taz[6] [Turei Zahav on Shulchan Arukh, Orach Chayim 490:3]: Non si può recitare l’Hallel, secondo il Taz, perché Dio ha obiettato: “la mia opera sta affogando in mare, e voi cantereste una canzone?”
Questo parere, ribadito anche da altri, trova appoggio nella nota Gemarà [Megillah 10b e Sanhedrin 39b]: “HaKadosh Baruch Hu non si rallegra sulla caduta dei malvagi”. [7]
Nel 19° secolo poi R. Ya’akov Ettlinger (Aruch le-Ner) rafforzò il concetto puntualizzando il fatto che gli ebrei devono seguire le vie di Dio. L’attitudine di Dio deve dare forma e determinare e nostre.
La Gemarà conclude con l’opinione di R. Yose ben Chanina che dice: “Lui (Dio) non si rallegra, ma lascia che altri si rallegrino”.
Alla fine resta non chiaro se un qualsiasi utilizzo del punto di vista sostenuto dal Taz sia precluso o meno.
Alcuni ritengono che la conclusione della sugya precluda agli ebrei la possibilità di preoccuparsi per l’annegamento degli egiziani.
Il Taz non concorda con questa conclusione. Non esiste questa preclusione per lui. Ad esempio ritiene che questo principio imponga comunque sia limiti sulla permissibilità della Shirà.
La proposta di Rav Horwitz
A questo punto Rav Horwitz ritorna sul problema iniziale e propone un parallelo tra due posizioni etiche e i due tipi di monoteismo dei quali aveva parlato: quello religioso (la monolatria) e quello ontologico.
Horwitz da un lato pone il senso di riconoscenza verso Hashem in seguito ad una vittoria come legato allo spirito di vendetta. Quello che fa proclamare gioiosamente: “il mio Dio è più forte del tuo”. In questo caso, sebbene sia positivo il fatto di attribuire a Dio la propria liberazione, anziché al puro caso, resta il fatto che l’atteggiamento di chi la intona non sembra essere l’obiettivo più nobile della Shirà.
Questa postura, nei confronti dei propri avversari, può essere caratterizzata come il correlativo etico della monolatria, cioè la forma di monoteismo più di basso livello.
In alternativa una persona, una tribù od un intero paese può lodare Hashem per una vittoria da una prospettiva e da un punto di vista differenti. Su questa base, più raffinata, il ringraziamento non è definito dalla confitta del nemico di per sé. Questo livello più elevato può essere visto come il correlativo etico del monoteismo ontologico.
Come ebrei, ringraziando Hashem per la Kari’at Yam Suf, tale approccio mette in evidenza il fatto che la salvezza da Dio ci ha concesso la libertà di servirlo.
L’accento cade su
מִי כָּמֹכָה נֶאְדָּר בַּקֹּדֶשׁ
Mi kamocha Nehedar ba-Kodesh
Chi è pari a Te, Grande per Santità?
Più che su:
מִי כָמֹכָה בָּאֵלִם יְהוָה
Mi kamocha ba-elim Hashem
Chi è pari a te tra gli dèi?
Osserva Rav Horwitz che, anche mettendo da parte il fatto che, sotto il profilo halachico, se la Shirà è percepita con spirito di vendetta, non dovrebbe neanche essere cantata, resta comunque il fatto che, sebbene il canto sembri occuparsi in modo immediato della vittoria contro il Faraone, in ultima analisi è focalizzato sulla gloria di Hashem Stesso.
La motivazione del Taz per non cantare l’Hallel completo a chol-ha-moed di Pesach mantiene una sua validità come promemoria di quale sia il livello inferiore di gratitudine, uno spirito che a noi ebrei viene comandato di trascendere.
Conclusione di Rav Horwitz
Rav Horwitz conclude osservando che se noi ebrei riuscissimo a far nostro il correlativo etico del monoteismo ontologico nei nostri rapporti con gli altri, avremmo l’opportunità di relazionarci con il prossimo, sia composto da ebrei che da non ebrei, in un modo nuovo e fresco. Esente dalla trappola dell’eterna competizione.
E potremo focalizzarci meglio e più precisamente, dal punto di vista del culto, sulla avodat Hashem sia individuale che comunitaria.
Conclusione
A questo punto la bellissima derashà di Rav Horwitz è conclusa. Vi devo però ancora una cosa. Ho citato la domanda impertinente, irritante, irrispettosa, di Yuval Harari, ma non le ho dato seguito. Voglio farlo ora, in conclusione, attraverso le parole, davvero ispirate ed illuminanti, di Rav Jonathan Sacks, che traggo dal suo libro: “La dignità della differenza”[8].
In esse, secondo me Rav Sacks propone una terza via, a metà strada tra le due descritte da Rav Horwitz: il monoteismo religioso – presto culto ad un solo Dio, anche se ammetto che ne esistano altri – e il monoteismo ontologico – eiste un solo Dio ed è quello al quale mi rivolgo io.
Cito da pagina 30 del libro di Rav Sacks:
“E’ tempi che noi esorcizziamo lo spetto di Platone in modo chiaro e inequivocabile. L’universalismo deve essere bilanciato con un nuovo rispetto per il locale, il particolare, l’unico. Esistono certamente degli universali religiosi. La Bibbia ebraica li chiama “il patto con Noè”. La tradizione ebraica ha articolato questo patto in sette comandamenti fondamentali: la proibizione dell’idolatria e deal blasfemia, dell’omicidio, del furto, della trasgressione sessuale e della crudeltà inutile sugli animali, per finire con il comandamento positivo dell’istituzione di un sistema di giustizia. Questi comandamenti costituiscono un codice condiviso dell’umanità che precede e trascende la differenza religiosa. Secondo Maimonide un non ebreo che obbedisca a queste leggi per una credenza nella verità contenuta nella rivelazione di Mosè è uno di quei “pii delle nazioni del mondo” e avrà un posto nel mondo a venire. Chi lo facesse sulla base della ragione sarebbe nel novero dei “saggi” delle nazioni. Secondo l’insegnamento ebraico, quindi, non è necessario divenir ebrei per servire Dio.
Questa antica tradizione ha acquisito nuovo significato in un mondo minacciato dagli scontri tra civiltà. Suggerisce che l’idea centrale del monoteismo non sia quella che si è sempre voluta proporre: un unico Dio, e quindi un’unica strada alla salvezza. Al contrario, nel monoteismo l’unità viene adorata nella diversità. La gloria del creato sta nella sua sconvolgente diversità: le migliaia di lingue diverse parlate dall’uomo la proliferazione delle culture, la varietà delle espressioni immaginifiche dello spirito umano, nella maggior part delle quali, se ascoltiamo con attenzione, sentiremo la voce della saggezza che ci dice qualcosa che dobbiamo sapere. E’ questo che intendo quando parlo di dignità della differenza”.
E’ questa la proposta di Rav Sachs del 2004. Più che mai attuale. E’ questa, per conto mio, una risposta, molto civile, molto articolata, molto convincente alla domanda di Yuval Harari.
[1] https://etzion.org.il/en/holidays/pesach/az-yashir-human-song-victory-or-divine-song-joy
[2] Sapiens. Da animali a dèi: Breve storia dell’umanità – Bompiani, Milano – 2014/2016
[3] The Hebrew Bible – A translation with commentary – Robert Alter – W. W. Norton & Company – New York – London – 2019
[4] דְּבֵי רַבִּי יִשְׁמָעֵאל תָּנָא: ״מִי כָּמֹכָה בָּאֵלִים ה׳״ – מִי כָּמוֹכָה בָּאִלְּמִים.
Similarly, the school of Rabbi Yishmael taught that the verse: “Who is like You, O Lord, among the gods [elim]” (Exodus 15:11), should be read as: Who is like You among the mute [ilmim], for You conduct Yourself like a mute and remain silent in the face of Your blasphemers. [Gittin 56b]
https://www.sefaria.org/Gittin.56b.10?lang=bi&with=all&lang2=en
[5] מאי שנא בחג דאמרי’ כל יומא ומאי שנא בפסח דלא אמרינן
The Gemara asks: What is different about the festival of Sukkot, that we say hallel every day, and what is different about Passover, that we do not say hallel
כל יומא דחג חלוקין בקרבנותיהן דפסח אין חלוקין בקרבנותיהן
every day, but only on the first day? The Gemara answers: The days of the festival of Sukkot are distinct from one another with regard to their additional offerings, as the number of bulls offered changes each day of Sukkot (see Numbers 29:12–38). Since each day is unique, the full hallel is recited on each day. By contrast, the days of Passover are not distinct from one another with regard to their additional offerings (see Numbers 28:24), and therefore the full hallel is recited only on the first day, which is the first day on which the additional offerings for a Festival are sacrificed.
[Arakhin 10a, 10b]
https://www.sefaria.org/Arakhin.10a.14?lang=bi&with=all&lang2=en
[6] David Halevi Segal, known as the Taz after the name of his most famous work, was a Polish rabbi, halachic scholar and Talmudic commentator. His best-known work, Turei Zahav, is one of the basic commentaries on the Shulchan Aruch (on all four sections, most prominently on Yoreh Deah and Orach Chayyim). He responded to Shach’s critiques of his expositions and decisions in a separate work, and also authored Divrei David, a supercommentary on Rashi’s Torah commentary. R. Yoel Sirkes (Bach) was his father-in-law.
[7] לְפִי שֶׁאֵין הַקָּדוֹשׁ בָּרוּךְ הוּא שָׂמֵחַ בְּמַפַּלְתָּן שֶׁל רְשָׁעִים.
Because the Holy One, Blessed be He, does not rejoice over the downfall of the wicked.
https://www.sefaria.org/Megillah.10b.25?lang=bi&with=all&lang2=en
[8] La dignità della differenza- Jonathan Sacks – Garzanti – Milano – 2024