Basato su una sicha di Rav Ari Kahn
Derashah VIII giorno
All’inizio di parashat Tzaw, che è stata letta il Sabato prima di Pesach, Rashì collega il termine tzaw (Waiqrà 6,2) all’idea di sollecitudine. Rashì si basa su una affermazione riportata nella ghemarà in Qiddushin (29a) a nome della scuola di R. Yshma’el, che applica questo ragionamento a tutte le circostanze in cui il termine compare nella Torah. In un brano altrettanto famoso (Shemot 12,17) Rashì, partendo dall’obbligo di sorvegliare le matzot (affinché non lievitino), riferisce l’insegnamento a tutte le mitzwot, in quanto matzot e mitzwot si scrive nello stesso modo.
Evidentemente, perché il processo di lievitazione non progredisca è indispensabile agire rapidamente. Allo stesso modo, quando abbiamo l’opportunità di compiere una mitzwah, non dobbiamo lasciarcela sfuggire. Ma il parallelo, a parte la somiglianza linguistica, non è chiaro: non tutte le mitzwot sono sottoposte al fattore tempo, e sicuramente non sottostanno al criterio dei 18 minuti. In molti casi se non compio una mitzwah oggi potrò compierla domani. In generale gli esseri umani cercano di affrettarsi per due motivi: a) per liberarsi di una incombenza, di modo tale da poter fare altro; b) perché sono ansiosi di fare una certa cosa. Il primo approccio è molto saggio. Normalmente il procrastinare conduce ad un accumulo di impegni, e quello che sembrava inizialmente difficile diviene impossibile. Ma, indipendentemente dalla razionalità di questo atteggiamento, questo non dovrebbe essere il nostro modo di approcciarci alle mitzwot. Dovremmo compierle per costruire un rapporto con H. Le mitzwot dovrebbero essere una manifestazione di amore. Il Maharal spiega che la sollecitudine è un modo per uscire dalla nostra dimensione fisica. Viviamo in un universo fisico, ma attraverso dei gesti metafisici accediamo a quella dimensione. Attraverso la rapidità, tendiamo ad uscire dal tempo. La prima mitzwah data al popolo ebraico, quella della fissazione del calendario, è legata alla padronanza del tempo. Pur essendo ancora schiavi in Egitto gli ebrei hanno appreso come dominare il tempo e consacrarlo, usandolo come mezzo per trascendere la propria condizione. Prima ancora di uscire dall’Egitto, i figli di Israele mangiano il qorban Pesach con le matzot. Vivono al contempo nel presente e nel futuro, così come noi oggi mentre facciamo il Seder riviviamo il nostro passato.
Per mezzo del conteggio dell’omer Pesach è collegata a Shavu’ot, che rompe il secondo vincolo. Mentre Pesach si rivolge alla liberazione dal tempo, Shavu’ot si concentra sullo spazio. Terminato il matan Torah, il Monte Sinai perde la propria santità e diviene un luogo come un altro. Ciò che è fondamentale non è il luogo ma il messaggio. Paradossalmente, sebbene la Torah affronti con estrema precisione la questione delle misure del Mishkan, quando si parla dell’Aron, che conteneva le tavole della legge, viene generato un assurdo. Pur trovandosi in una sala con un lato di 20 cubiti, l’aron aveva 10 cubiti liberi per lato, come se non avesse una misura e se non fosse di questo mondo. L’aron apparteneva a questo mondo, ma lo trascendeva.
Sukkot trascende la terza dimensione, che è quella della materia. Per costruire la sukkah ci avvaliamo di materiale di scarto. Lasciamo le nostre case accoglienti per andare in dimore temporanee, perché ci rendiamo conto del fatto che questo mondo non è altro che una dimora temporanea. Tutto il mondo che ci siamo costruiti è effimero.
Il nostro universo fisico è dominato da spazio, tempo e materia. Questa è la nostra realtà, ma sappiamo che esiste una realtà ulteriore, e i tre regalim ci aiutano, riferendosi ciascuna ad una aspetto differente, a cogliere e legarci a questa dimensione.